Marcello Miozzo        Marina Vinciguerra

 

 

 

 

SOLE ROSSO SANGUE

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

I

 

 

"Buongiorno, chiamo per l'annuncio che ho letto sul Corriere della Sera per un posto come Sales Manager, riferimento SMSV".

Solo un sospiro all'altro capo del telefono.

"Sì, non è il primo che si candida per questo lavoro".

Non sembrava troppo simpatico, anche se Maurizio aveva sempre preferito avere a che fare con persone dirette, non inclini a facili illusioni e a fargli perdere tempo.

“Gentilmente, mi può dire il suo nome così verifico se abbiamo il curriculum nel database?”

“Maurizio Bida, ma non sono iscritto nel vostro database”.

 Aveva bisogno di soldi Maurizio, ma non era disposto a fare un lavoro qualsiasi.

"Il candidato verrà scelto principalmente tenendo conto dell'esperienza pregressa nella direzione commerciale".

La voce all'altro capo del telefono attese un momento, dimostrando un atteggiamento chiaramente ostile nei confronti del prossimo. Maurizio non si lasciò intimidire. Con grande sicurezza cominciò a descrivere il suo vecchio e breve lavoro al centro commerciale e, abilmente, trasformò quello che era il suo ruolo da approvvigionatore di scaffali, in responsabile del reparto elettronica. Tutto filava liscio e quella voce, inizialmente pregiudizievole, cominciava a dimostrarsi interessata. Ci fu un altro silenzio, quello che sanciva la fine delle presentazioni e lo stabilire un giorno per il colloquio, e, proprio in quell’istante, entrambi poterono sentire ciò che stava accadendo poco lontano dalla cabina telefonica utilizzata da Maurizio. Una interminabile inchiodata, seguita da uno stridente rumore di lamiere accartocciate e vetri infranti, e poi, il silenzio, durato giusto il momento di prender fiato per urlare e cercare aiuto.

“Chiamate un’ambulanza, in fretta! Questo signore ha bisogno di un medico, vi prego fate presto”.

Era la ragazza alla guida dell’auto che aveva preso in pieno la moto dell’uomo che giaceva in terra tra la vita e la morte. Disperata si dimenava, piangeva, parlava inutilmente a quel corpo inerme coperto di sangue. Spaventata a morte, svenne poco dopo con un tonfo sordo sull’asfalto bollente di luglio.

Maurizio fu il primo ad intervenire, troncando bruscamente la conversazione telefonica. Si chinò subito a raccogliere il portafoglio che per l’urto volò proprio verso di lui, se lo infilò in tasca e poi si diresse verso il corpo per accertarsi della presenza del battito e del respiro. L’uomo era vivo. Maurizio accese il cellulare ed avviò una chiamata nonostante il credito fosse esaurito, si trattava di un numero d’emergenza. All’altro lato della cornetta rispose un operatore del 118 che, dopo aver chiesto di descrivere brevemente le condizioni del ferito, fece fatica a convincersi che non si trattasse di uno scherzo.

“Si trova sdraiato in terra sul marciapiede, sanguina per i numerosi tagli, c’è vetro ovunque e ha una croce conficcata all’altezza dello stomaco”.

Da non credere, era stato un angelo a tentare di ammazzarlo.

Roberto Arvieri, questo il nome del moribondo, era un dottore che lavorava presso l’ospedale San Paolo, nel centro trasfusionale, da pochi anni. Cordiale con tutti ma molto riservato, nessuno lo conosceva al di fuori dell’ambiente lavorativo. I colleghi si erano ormai convinti che fosse un solitario. Solo di rado era stato visto in compagnia di alcuni individui, a dire il vero, un po’ strani, o meglio, molto diversi da lui: dark con i capelli lunghi, orecchini e interamente vestiti di pelle nera. Probabilmente, dietro quell’aspetto sempre curato da bravo ragazzo, si nascondeva un ribelle.

Nel frattempo, il luogo dell’incidente fu accerchiato da una folla di curiosi che a stento riuscì a credere ai propri occhi. Un destino bizzarro quello dell’uomo steso a terra: una croce alta poco più di un metro gli si era infilzata per l’estremità superiore nell’addome. Un gruppo tentò di ricostruire la sequenza dell’incidente, ipotizzando che la macchina dovesse procedere ad alta velocità, per riuscire a scaraventare il motociclista contro il dehors di un bar e poi sulla pesante statua dell’Angelo con la Croce. L’impatto aveva staccato la croce di legno dall’Angelo, lasciandogli libere le mani, che, come il volto, erano rivolte verso l’alto a ringraziare il Signore Onnipotente.

Una donna con un grembiule uscì dal bar difronte e, dopo aver dato un’occhiata veloce ai danni, si rivolse a Maurizio: “Bisogna avvertire la famiglia! Come si chiama? Qualcuno lo conosce?”

Intanto, la ragazza che era alla guida dell’auto si era ripresa dallo svenimento e, prima di alzarsi da terra, cercò il portafoglio nelle tasche di Roberto.

“Non ha documenti”.

“Guarda nella giacca se ha il cellulare?” intervenne Maurizio.

Niente. Un uomo ancora senza identità, giaceva tra la vita e la morte su quel marciapiede di Corso Tardy e Benech, mentre stavano sopraggiungendo i mezzi di soccorso. Era un codice rosso che richiedeva anche la presenza dell’automedicale oltre a quella dell’autoambulanza. I due veicoli, attraversato il fiume, si fecero spazio nel traffico all’incrocio con Corso Ricci, ignorarono il semaforo rosso e furono subito sul luogo dell’incidente.

Maurizio si avvicinò al bar per bere qualcosa, ma fu attirato dalle risate di un gruppo di giovanissimi skater. In effetti, la scena aveva del ridicolo. Il ferito era già stato caricato sull’autoambulanza, ma l’autista non aveva ancora provveduto a chiudere le porte posteriori. Spuntava dall’interno dell’abitacolo una grossa croce capovolta sulla pancia di un uomo, quasi fosse il prolungamento del suo organo sessuale.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

II

  

 

“Dottore gravissimo dopo scontro con Angelo” era il titolo dell’articolo sulla prima pagina dell’inserto locale del Secolo XIX, relativo all’incidente del giorno prima. Dopo aver letto le prime righe, Maurizio riprese a camminare in direzione del suo piccolo appartamento, una mansarda al quinto piano in via XX Settembre. Amava fare colazione al bar sotto casa, acquistare un quotidiano e leggerlo su una panchina del lungomare, oppure, direttamente in spiaggia. Ma il tempo era cambiato e la pioggia iniziava a scendere tranquillamente. Per le scale salutò l’inquilina, ultima arrivata del palazzo, una bellissima ragazza bionda che aveva avuto il piacere di aiutare nel trasloco. Si era trasferita in un appartamento del primo piano da quasi un mese. Si chiamava Cristina Fassio. Quel giorno indossava un completino da spiaggia fresco e leggero che le dava un’aria di semplice sensualità.

“Ciao bellissima” disse Maurizio.

Lei si limitò ad un “Ciao”, ma aveva uno sguardo malizioso che lasciava intendere che il complimento le era piaciuto.

“Mi sento in debito con te. Quelle due poltrone che mi hai aiutato a portare in casa erano davvero pesanti”.

Era molto dolce nel preoccuparsi così per un uomo che in effetti era un perfetto sconosciuto. La situazione fece ridere entrambi per un istante e in quel momento Maurizio capì che aveva veramente un buon profumo.

“Ti andrebbe se ti invitassi a cena … diciamo … per le otto di questa sera?” continuò Cristina, spezzando l’incantesimo dei loro sguardi.

“Stasera ... il mio frigo è vuoto … direi che è perfetto!”

“Allora il menù è una sorpresa e tu porta solo la tua fame”.

Cristina era decisa a conoscere meglio qualcuno di quel quartiere in cui si era da poco trasferita.

Si salutarono e Maurizio salì nel suo appartamento.

Nonostante la gran confusione e la metratura molto ridotta, la mansarda aveva gli spazi ben gestiti, l’arredamento a buon mercato era limitato all’essenziale. Maurizio si catapultò sul divano, allungò una mano verso il telecomando dello stereo, lo accese e selezionò un album di musica acid jazz. Niente lo rilassava più che la solitudine del suo appartamento, unita ad una buona musica ed al dolce tamburellare della pioggia senza vento, che si scontrava col lucernario. Non aveva voglia di leggere. Chiuse gli occhi e allora tutto fu perfetto così, senza aggiungere niente.

Si svegliò all’ora di pranzo. Nonostante fosse sempre stata una persona dinamica, Maurizio era convito che l’ozio avesse il gusto puro della libertà. Schiuse in sequenza gli occhi, rivolgendo l’attenzione su un oggetto che non aveva più considerato. Si alzò di scatto e prese in mano il portafoglio che aveva sottratto alla scena dell’incidente del giorno prima. Ormai non gli serviva più, l’aveva già ripulito da quei duecentoventi euro che conteneva. Lo aprì nuovamente, intenzionato a scoprire qualcosa di più dell’uomo che lottava tra la vita e la morte, a seguito di quel bizzarro sinistro. Quattro badges con banda magnetica corrispondenti ad un codice fiscale, una tessera sanitaria, una carta bancomat Monte dei Paschi di Siena e un’ultima carta di una banca straniera denominata Nykredit Bank. Patente e carta d’identità erano intestate alla stessa persona, ma riportavano due indirizzi diversi. La prima faceva riferimento ad una residenza nella Repubblica Ceca e precisamente nella città di Praga. La seconda invece era italiana. Quest’ultimo documento era anche il più recente. Roberto Arvieri abitava quindi a Savona, aveva trentaquattro anni, faceva il medico e non era sposato. Maurizio notò di avere una certa somiglianza con quell’uomo dalla barba incolta ritratto nella foto-tessera. In un altro scomparto c’era un foglio con un elenco di contatti telefonici associati ad un nome e ad una località europea. Si soffermò ad osservarlo e pensò che dovesse trattarsi di una rete di filiali, appartenenti ad una multinazionale, magari operante nel settore delle forniture medicali. Stranamente non era indicato nessun nome di società, nessun logo aziendale o sito internet. Decise che era il momento di restituire quel portafoglio al legittimo proprietario, ma come? Si interrogò sul da farsi per alcuni minuti, ipotizzando di recapitarlo al più vicino comando dei vigili, ma avrebbe dovuto fingere di averlo trovato casualmente per la strada e questo poteva essere rischioso. Infatti, non sarebbe stato difficile incontrare gli stessi agenti che erano intervenuti nel sinistro del giorno precedente e, una persona un po’ sveglia, lo avrebbe sicuramente riconosciuto. La prestanza fisica e la folta barba di Maurizio passavano difficilmente inosservate, unitamente al suo sguardo intenso di occhi verdi smeraldo che lo avevano sempre favorito nei confronti del gentil sesso. Al contrario, il suo atteggiamento da conquistatore, sempre sicuro di sé e il suo sguardo intelligente e riservato, generavano spesso invidie negli uomini che conosceva. Era meglio evitare che qualcuno curiosasse nella sua vita, specialmente quella prima del trasferimento a Savona. Aver trascorso l’adolescenza nel centro storico genovese sicuramente non era stato un gioco, soprattutto con un padre che l’aveva abbandonato appena sentito il peso di una paternità non desiderata e una madre che si era spaccata la schiena sedici ore al giorno per mantenerlo. Maurizio aveva dovuto sapersi adattare e diventare scaltro, ed era finito per oltrepassare il limite della legalità. Grazie al suo carattere ribelle, era normalmente portato ad infrangere le regole. Dai piccoli furtarelli fino allo spaccio di qualche dose, era riuscito a cavarsela con poche notti in gattabuia. A differenza dei suoi amici, aveva saputo però riconoscere quale era il momento di darsi una calmata. Non tutti i pesci piccoli possono diventare degli squali. Sapeva individuare le persone a cui non si dovevano calpestare i piedi. Voleva di più dalla vita. Era come un fumatore convinto di non avere il vizio. Ed infatti, per un po’ di tempo era cambiato. Con la morte di un prozio, un uomo benestante che non si era mai sposato e viveva a Buti, un paesino in provincia di Pisa, la madre di Maurizio aveva ricevuto una buona somma di denaro in eredità. Questa nuova condizione economica le aveva permesso di lavorare molto meno e comprarsi una casa in un bel quartiere di Genova, quello di Nervi. Da quel momento, avendo più tempo libero a disposizione, aveva seguito maggiormente l’educazione del figlio, spingendolo prima a terminare la scuola media superiore, poi ad iscriversi all’università. Fu il corso di laurea in medicina e chirurgia quello scelto da Maurizio, che a stento si era ritagliato una vita più o meno normale, senza mai abbandonare del tutto le vecchie compagnie. I primi tre anni erano stati da non credere. Riuscì a superare quasi tutti gli esami con ottimi voti, alimentando l’orgoglio della madre che vedeva il suo unico figlio già sistemato, un dottore in carriera. Verso la metà del quarto anno era arrivata l’espulsione dall’università. Contraffazione e falsificazione furono le accuse che il rettore imputò a Maurizio. L’allontanamento definitivo dal corso di laurea fu una decisione forse eccessiva, ma l’ateneo si serviva da tempo di quest’arma per contrastare un fenomeno in rapida diffusione tra gli studenti. Era ormai opinione consolidata tra i ragazzi che, durante le sessioni d’esame, la maggior parte dei professori universitari, nel valutare un candidato, si facesse influenzare dai voti già presenti sul libretto. Maurizio non avrebbe mai immaginato che trasformare temporaneamente un diciotto in un ventotto, avrebbe avuto simili conseguenze. Il libretto universitario rappresentava certamente un documento, ma la media finale veniva calcolata sulla base delle effettive votazioni presenti sui registri in Facoltà. Purtroppo, il docente con cui aveva sostenuto biochimica il primo anno aveva una formidabile memoria per i numeri, oltre ad essere lo stesso che lo disaminò in seguito per microbiologia clinica.

Lo strombazzare di un autobus giù in strada ridestò Maurizio nella realtà del suo soggiorno, e gli suggerì che quello sarebbe stato il mezzo di trasporto da utilizzare poche ore dopo per raggiungere l’ospedale.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

  

III

 

 

Il commissario Gilbert Leroux era entrato nella Polizia di Stato francese appena terminato gli studi di psicologia. Grazie alla meticolosità nel collaborare allo svolgimento delle indagini e alla destrezza nel reperire informazioni, si era subito guadagnato la fiducia dei suoi superiori. Nel corso degli anni, la sua professionalità gli aveva permesso di avere aumenti di grado e responsabilità sempre crescenti. Sorseggiando il suo caffè, cominciò a chiedersi quale avrebbe potuto essere il suo ruolo in questa collaborazione con l’Europol. Si trattava sicuramente di un’indagine su scala internazionale che coinvolgeva almeno due stati europei. Pensò che potesse essere l’occasione per una promozione, anche se si sentiva comunque già soddisfatto della sua carriera lavorativa. Il padre, che era proprietario di un grosso vigneto nel Maine et Loire, non lontano dalla città di Angers, non aveva sicuramente incoraggiato il giovane Gilbert a trasferirsi a Parigi per iscriversi alla facoltà di psicologia. Avrebbe desiderato tramandare al figlio l’arte di produrre vino, in quella terra generosa e ricca di tradizioni. Solo diversi anni dopo, confidò a Gilbert di essere fiero di lui. Fiero della fermezza nelle sue decisioni, nonostante si fosse trovato chiaramente in svantaggio rispetto ai suoi compagni di corso.

Fu la più antica campana di Parigi, quella della chiesa di Saint-Séverin, a destare dai suoi pensieri il commissario. Amava fare colazione in quel quartiere così pieno di vita. Si mischiava volentieri tra turisti, studenti universitari e artisti più o meno improvvisati, estasiato dal fervore di espressione e curiosità, caratteristico di quella città. Erano le otto del mattino, quando Pierre Luc spuntò da rue Saint-Jacques con il suo passo soddisfatto e ciondolante, tipico dopo una nottata stancante ma appagante, quasi rivelatrice. Sorrideva ai gruppi di ragazze che incontrava e, subito dopo, si girava per analizzarle da testa a piedi, soffermandosi sulle zone di maggiore interesse. Le donne erano il suo debole, ma era un buon poliziotto. Da cinque anni circa era tenente e da tre faceva coppia fissa con Gilbert.

Il commissario pagò il conto lasciando il denaro nel piattino e si avviò con La Roche verso l’ufficio. Attraversarono la Senna sul pont Saint-Michel, svoltarono in quai des Orfèvres  e raggiunsero così la prefettura. Nella sala d’aspetto, ad attenderli, c’era una donna sulla quarantina, in tailleur grigio e ventiquattrore. Doveva essere l’ufficiale di collegamento con l’Europol.

“Buongiorno, sono Yvonne La Fabre, ho un appuntamento con il commissario Leroux” si fece avanti lei per prima.

“Buongiorno e benvenuta, io sono il tenente Pierre Luc La Roche e lui è il commissario Gilbert Leroux”.

“Venite, accomodiamoci nel mio ufficio” disse Gilbert indicando la direzione.

La Fabre indossava un buon profumo che si diffuse presto nella stanza, rendendo più piacevole l’ambiente lavorativo. Non era una donna bellissima, ma celava una profonda sensualità nella sua sicurezza. Determinata nel  lavoro, pretendeva che il suo essere donna non le ponesse degli ostacoli in un ambiente prettamente maschile, come quello della Polizia di Stato. Non amava ricevere particolari attenzioni e Pierre Luc se ne accorse subito.

“Il mio capo mi ha mandata qui per fornirvi dei dati relativi ad una indagine che sta ormai interessando molti stati europei e per chiedere anche la vostra collaborazione” iniziò Yvonne saltando tutti i convenevoli.

“Siamo a totale disposizione. Non è la prima volta che collaboro con l’Europol” intervenne il commissario.

In effetti, solo da un paio di mesi, si era conclusa un’indagine con l’arresto di una banda di trafficanti di opere d’arte e gioielli che operava in Francia, Repubblica Ceca e Ungheria.

“Da un controllo incrociato di dati è emerso un collegamento preoccupante tra reati apparentemente isolati e sottovalutati. In effetti, siamo ormai certi di trovarci di fronte ad una rete internazionale di trafficanti fitta e molto ben organizzata, con una quantità di persone infiltrate tale da permettere le violazione e i furti sempre in luoghi differenti. Data la casualità diventa veramente difficile prevedere le loro mosse. In effetti questi individui delinquono indisturbati probabilmente da molti anni”.

“Ma in cosa trafficano?” interruppe La Roche.

“Sangue!”

“Questi criminali rubano sangue?” il commissario sembrava meravigliato.

“Sì, e molti casi non vengono nemmeno denunciati. Non è raro che alcuni dottori molto ambiziosi prelevino materiale organico dalle strutture ospedaliere, per fare ricerca in sede privata. Non è stato ancora dimostrato il coinvolgimento del personale, anche se è ovvio che, una persona esterna da sola, non sarebbe in grado di introdursi in un centro trasfusionale e prelevare le sacche dalle frigo-emoteche, specialmente da quelle che necessitano di username e password per essere aperte”.

“Tutto questo a quale scopo?” disse La Roche.

“Traffico di organi ed operazioni chirurgiche da mercato nero sono le piste più probabili, ma non escludiamo altre ipotesi” spiegò La Fabre.

In effetti, pensò Gilbert, era improbabile che questo sangue venisse utilizzato da una setta per praticare dei riti satanici oppure come composto per produrre un qualche elisir di lunga vita. Questa organizzazione era di tipo mafioso e muoveva sicuramente enormi quantità di denaro per essere così radicata.

“Potremmo mandare qualche agente a fare delle domande negli ospedali del comprensorio di Parigi” disse il commissario.

“Per il momento l’Europol suggerisce di reperire quante più informazioni possibili e rimanere in allerta, nel caso che questi farabutti commettano degli errori …” aggiunse La Fabre, e nel frattempo aprì la ventiquattrore per estrarre un plico di fogli “… vi lascio l’elenco di tutte le denunce già registrate e pervenute alla sede de L’Aia”.

Il tenente cominciò a sfogliare il materiale fornito dall’ufficiale. Il fenomeno del furto di sangue interessava diversi stati europei, sia in città di maggiore che di minore importanza. La notifica più remota risaliva al 3 maggio 1991, ben diciotto anni prima.

Pierre Luc propose di fare una ricerca tra le denunce di reati registrate in archivio, restringendo il campo a quelle che avessero a che fare con il traffico di sangue e con gli ospedali negli ultimi venti anni. Si alzò e si diresse verso il suo ufficio, senza attendere il consenso degli altri due interlocutori. La Fabre assunse un tono più rilassato e amichevole non appena capì che si trovava di fronte a persone disposte a collaborare, senza rivalità.

Dopo qualche minuto, La Roche rientrò nella stanza dove La Fabre e il commissario Leroux continuavano a discorrere sui particolari dell’indagine e rimase sorpreso del fatto che i due si davano del tu. Normalmente era lui il seducente che sapeva rompere il ghiaccio e fare il simpatico con le donne. Evidentemente, Yvonne era affascinata più dalla professionalità e dall’esperienza di Gilbert che dal suo savoir faire.

La Roche espose i risultati della ricerca effettuata su Parigi e dintorni. Emersero oltre duecentomila denunce. Escludendo quelle per trasfusioni di sangue infetto, i casi di discriminazione verso donatori omosessuali oppure portatori di handicap e le querele di pazienti di religioni e credenze non compatibili con la medicina occidentale, si scese a centotre notifiche di reato. Tra queste, trentasette erano per sangue mal conservato, quarantanove per sangue prelevato da degenti al termine del ricovero senza il loro consenso e diciassette per furto di sangue, di cui le ultime otto erano contro ignoti, le rimanenti rivolte a personale ospedaliero. I tre investigatori decisero che quelle diciassette denunce sarebbero state il punto di partenza su cui fare degli accertamenti. Gilbert aveva ben chiaro in mente che si sarebbe occupato di persona del caso.

 

 

 

Quando Gilbert aveva conosciuto sua moglie, attraversava un momento particolarmente difficile della sua esistenza. La grave malattia di suo padre. A quei tempi si muoveva spesso in metrò. Gli piacevano quei luoghi sotterranei in cui perdersi tra la folla anonimamente indisturbato. Era il posto ideale per pensare, per sentirsi libero di essere triste ed assorto. La sua immagine riflessa sul finestrino che allungava i volti contorti dalla velocità, l’aiutava a riflettere sulla sua vita, su quello che gli succedeva o che gli era successo. Spesso si sorprendeva a ripensare alla sua infanzia, non riusciva a sganciarsi dai ricordi.

“E’ libero?” una voce gaia lo aveva distolto dai suoi pensieri, si era voltato e due occhi neri e profondi lo avevano catapultato nella realtà.

“Certo”.

“Guardi, è tutto il santo giorno che cammino per Parigi, ho i piedi gonfi, sono stanca ed affamata! Grazie, mi siedo proprio volentieri”.

Quel modo di fare così aperto ed affabile aveva colpito particolarmente l’introverso Leroux, che era rimasto immediatamente affascinato dai lineamenti dolci e da subito familiari di quella ragazza. Indossava una canotta di cotone leggera che lasciava intravedere le generose forme del seno. Si era proposto di non fissarla, ma il suo sguardo involontariamente finiva sempre per soffermarsi sull’abbondante scollatura. Non gli era mai successo di essere tanto sfacciato. Lei se ne era accorta, ma non sembrava evidentemente infastidita, dal momento che, sorridente, aveva detto il suo nome: “Adrianne”.

Era nata in un paesino vicino ad Arles, a Saintes Maries de la Mer, alle bocche del fiume Rodano. Era una donna di mare e questa caratteristica se la portava sempre dentro; inoltre, la natura selvaggia della Camargue l’aveva fortificata e resa libera nell’animo. Questo il commissario lo aveva percepito subito e apprezzato dal primo momento. Durante il viaggio lei gli aveva raccontato del meraviglioso mondo in cui era vissuta, delle lunghe passeggiate a cavallo sin da bambina e del vento battente delle calde giornate di giugno, della spensieratezza di quei giorni e della fortuna di vivere in un luogo incantevole e fuori dal comune. Gli aveva mostrato un piccolo ciondolo con un cavallo bianco che teneva al collo, quasi incollato alla pelle dal sudore. Faceva veramente caldo in metrò. Glielo aveva regalato suo padre, quando l’aveva aiutato a far partorire la cavalla Adeline. Adrianne si era poi persa nel racconto interminabile ed affascinante di quell’evento. Nella sua mente lo riviveva come un film in bianco e nero. E Gilbert era rimasto irrimediabilmente rapito dall’enfasi di quelle parole. Gli era sembrato di vedere la cavalla ansimante che nervosamente scalpitava sul fieno, muovendosi insensatamente, quasi cercando una via di fuga ad un dolore evidentemente troppo forte. Aveva creduto di sentire l’odore di quella notte, e si era emozionato difronte all’immagine di quel cucciolo tutto impiastricciato che cercava di raddrizzarsi sulle zampe secche ed incerte. Gilbert non aveva mai interrotto Adrianne. Si sentiva stregato dalla passionalità che sprigionava quella creatura quasi ultraterrena che si era trovato di fronte. Perso nelle linee morbide dei suoi lunghi capelli castani, non era riuscito a pronunciare nessuna parola. Solo dopo un bel po’ di tempo aveva detto: “Ma dove siamo?”

Non si erano accorti di aver perso tutti i cambi e che da Porte de Clignancourte erano arrivati fino al capolinea. Leroux avrebbe dovuto cambiare a Gare du Nord per arrivare a Republique, quindi prendere per Mairie de Lilas, scendere alla prima ed andare da suo padre all’ospedale Saint-Louis, in avenue Claude Vellefaux 1.

“Io dovrei andare da mio padre, in ospedale, che ne dici se prima ti offro un caffè!?”

Erano passati parecchi anni da allora, ma, mentre La Roche guidava per il boulevard Magenta verso il Saint-Louis, il commissario non poté fare a meno di rivivere mentalmente quel ricordo. Il dolce incontro di quella bellissima donna che sarebbe diventata sua moglie e il doloroso addio di suo padre. Fu assalito dall’incubo di rimettere piede in quell’ospedale.

 

 

 

Adrianne si era laureata all’Università di Avignone in storia ad indirizzo patrimoniale. Aveva un debole per i monumenti di Parigi, più o meno conosciuti. Quando aveva appreso telefonicamente che Gilbert era diretto al Saint-Louis per fare alcune domande ad un medico che aveva denunciato dei furti di sangue dal centro trasfusionale, non aveva esitato ad accennargli le origini storiche di quel maestoso e antico ospedale di Parigi. L’edificio era veramente enorme. Appena attraversata la soglia, Gilbert fu assalito dalla voglia irrefrenabile di andarsene e cercare un locale dove sorseggiare una birra alla spina ghiacciata, con almeno due dita di schiuma. Ma il senso del dovere ebbe la meglio su quella debolezza.

“Senti, perché poi non cerchiamo un bar e prendiamo qualcosa da bere?”

Il tenente fu meravigliato dalla richiesta, ma successivamente si accorse di aver sete anche lui e tanta. Si avvicinarono al servizio informazioni ed una donna goffa e stizzosa parlava al telefono.

“Mi dispiace, ma le visite ai parenti vanno effettuate dalle 17h alle 18h … venga pure prima se crede, ma dovrà attendere l’orario di visita. Mi dispiace … arrivederci!!!”.

Le donne in carne non erano mai dispiaciute al commissario. Aveva sempre pensato che fossero caratterizzate da una componente materna che quelle molto magre non riuscivano a trasmettere altrettanto bene. Questa però di materno non aveva proprio nulla. Iniziò a sfogliare una rivista, infastidita dalla presenza di Gilbert e Pierre Luc di fronte allo sportello nel quale lei prestava servizio.

“Buongiorno, siamo il commissario Leroux e il tenente La Roche, vorremmo parlare con il dottor François Bernard, per favore”.

“In questo momento è occupato”.

“Non potrebbe vedere se riesce a dedicarci qualche minuto del suo prezioso tempo, gentilmente?”

“Proverò a chiamare il reparto, ma non assicuro nulla!”

“Grazie”.

La Roche era seccato oltremodo da quel fare altezzoso e non si ricordò in vita sua di aver mai avuto una tale repulsione per una donna. Nelle relazioni personali era sempre stato molto esigente a proposito dell’estetica femminile, forse troppo. Pensò a quanto potesse essere imbarazzante trovarsi nello stesso letto con un’arpia del genere, con quella ciccia bagnata di sudore e quelle sopracciglia voluminose che si muovevano ad ogni suono emesso da mascelle carnose. Provò per un breve istante una sensazione di nausea che gli ricordò il suo pressante bisogno di ingurgitare liquidi.

“Scusi, il bar dove si trova?”

Ignorando la domanda, l’adorabile signora continuò ad armeggiare con il telefono, cercando il tasto due tra quelli della selezione abbreviata, corrispondente al reparto di ematologia adulta. Nonostante Gilbert e Pierre Luc si fossero presentati come poliziotti, la donna continuava a non dimostrarsi disponibile.

“Ciao Claire, come stai? Nanà tutto bene? … e i cuccioli?”

“Mi scusi ma abbiamo una certa fretta, vorrebbe chiedere se il dottore può incontrarci?” interruppe La Roche.

“Va bene va bene, un attimo … ascolta Claire, mi cerchi il dottor Bernard. Due poliziotti vorrebbero parlagli …”, e dopo una breve pausa “… d’accordo li mando in reparto”.

Conclusa la telefonata, la donna prese dal cassetto una pianta dell’ospedale e indicò un padiglione chiamato Miosotide. Quel nome di fiore stava a indicare, tra gli altri, il reparto di ematologia adulta. Il dottore li avrebbe aspettati all’ingresso di quell’edificio. Il commissario ironicamente ringraziò l’operatrice del centro informazioni per la grande disponibilità dimostrata, e si diresse verso il luogo dell’incontro. Si chiese come fosse possibile che spesso, persone così scortesi, ricoprissero ruoli in cui fosse fondamentale la capacità di relazionarsi con gli altri. Camminava a passo lesto e non si accorse che La Roche era rimasto indietro. Si voltò e lo vide intento a guardarsi in giro.

“Cosa stai facendo?”.

“Ho una sete bestiale! Se non trovo il bar, almeno dammi il tempo di prendere una bibita ad un distributore automatico. Non ho più saliva, tra poco sputerò direttamente la mia lingua”.

Il caldo incessante ormai da giorni rendeva i pomeriggi della Ville Lumière veramente faticosi, ed il tenente non era tipo da mezzi termini quando qualcosa lo incomodava. L’escursione termica di quella città lontana dall’influsso del mare permetteva invece una diminuzione del calore durante la notte, rendendo più piacevoli le ore del mattino.

 

 

 

Il dottor Bernard non si poteva certo definire un tipo affascinante o sexi, anzi, dava tutta l’aria di essere un topo da laboratorio. La pancetta prominente denotava ore di incessante lavoro sedentario trascorse alla scrivania. Attendeva tranquillamente con le mani in tasca, sollevando leggermente dietro alla schiena il lungo camice bianco che di sicuro non alleviava la percezione di forte umidità caratteristica di quei giorni. Muoveva a scatti il collo sforzando la vista per vedere se qualcuno lo stava cercando e quando Gilbert gli fu davanti, si rese conto della motivazione di quel comportamento. Il dottore indossava un paio di occhiali con lenti molto spesse, la montatura quasi non si vedeva e gli occhi gonfi sembravano filtrati attraverso una lente di ingrandimento. Al commissario sembrò di aver di fronte Mr Magoo in persona, calvo, solo più giovane e parecchio in sovrappeso. A quel pensiero trattenne alla meno peggio un sorriso, anche se evidentemente non gli riuscì molto bene, dal momento che La Roche lo guardò con atteggiamento interrogativo e al tempo stesso meravigliato.

“Sono il Commissario Gilbert Leroux e questo è il tenente Pierre Luc La Roche. Lei è il dottor François Bernard?”

“Sì, sono io”.

“Buongiorno dottore, grazie per la sua disponibilità”.

“Ditemi tutto, non ho molto tempo e mi piacerebbe sbrigare velocemente questa questione, di qualunque cosa si tratti!”

“D’accordo”.

“Mentre mi spiegate, seguitemi pure in reparto”.

“Certo”.

Una breve scalinata introduceva ad un ampio ingresso, tramite il quale si poteva accedere a diversi padiglioni che avevano tutti nomi di fiori, Geranio, Lavanda e Miosotide, quello, appunto, di ematologia. Gilbert fu preso da un nodo in gola che non riusciva ad andare né su né giù. Il volto di suo padre sdraiato nel letto, i lunghi corridoi blu scuro e le sedie scomode e dure mentre angosciato attendeva, gli riaffiorarono alla mente. Quella volta si trattava del padiglione lavanda, quello di medicina interna.

“Siamo qui per le denunce a proposito dei casi di sparizione di sangue. Dal momento che tre sono state sporte da lei negli ultimi due anni con la cadenza all’incirca semestrale, vorremmo avere più dettagli in merito” cominciò La Roche.

“Dunque,” spiegò prontamente il medico quando ormai erano sopraggiunti nel suo ufficio “non sono neanche tre anni che lavoro per il Saint-Loius e già mi sono capitate tre gravi detrazioni di sangue intero dai nostri frighi. Il mio sospetto è che precedentemente al mio arrivo si fossero verificate altre sparizioni misteriose, ma che nessuno le abbia denunciate”.

“Precisamente quanto personale è impiegato in reparto e quanti letti sono predisposti per le degenze?” continuò La Roche, mentre Leroux ascoltava con attenzione.

Il dottore si mostrò da subito disponibile alla collaborazione. Evidentemente era un tipo scrupoloso e aveva a cuore che si risolvesse la questione.

“Vediamo, dovrei avere un plico con i numeri che ci interessano”.

Dal cassetto di una scrivania tenuta morbosamente in ordine, estrasse un fascicolo che mostrò enfaticamente.

“Nell’ematologia adulta, quindici posti letto e sedici tra infermieri e dottori; nell’ematologia biologica dove si effettuano le analisi, quattro dottori e sei assistenti; nell’ematologia pediatrica ventidue posti letti, dodici infermieri e otto medici, ma quest’ultima si trova nel padiglione “Papavero”, vicino al nostro …”

Pierre Luc cercava in tutti modi di stare attento alle parole del dottore, ma due labbra rosa dietro una scrivania adiacente attiravano la sua attenzione. Gilbert se ne accorse e fingendo di voltarsi per dare un’occhiata alla stanza, strattonò la spalla del tenente, il quale mosse le palpebre come ridestato da un assopimento breve, ma trasognante. 

“Quindi parecchia gente ha accesso ai reparti, senza considerare anche gli addetti alla manutenzione, il personale dell’impresa di pulizia, i pazienti e i loro parenti”.

“Esatto commissario, però se può esserle utile, da quando è avvenuto l’ultimo furto sono riuscito a far aumentare la sicurezza tramite telecamere ed allarmi. Infatti da quel momento non è successo più nulla”.

“Evidentemente qualcuno che entra abitualmente in contatto con questa ala dell’ospedale, potrebbe essere direttamente o indirettamente implicato con il furto!”

“E’ quello che ho pensato anch’io commissario, infatti sto cercando di indagare un pochino sulle persone che hanno rapporti quotidiani o comunque frequenti con noi …” Bernard arrossì leggermente, in imbarazzo a decantare le sue capacità di investigatore di fronte ad un commissario famoso per la sua bravura, ma andò ugualmente avanti a dire quello che pensava “… sa, è difficile che mi scappi qualcosa, deformazione professionale credo, anni passati a studiare, schedare dati, scovare soluzioni a nuove patologie, mi hanno reso estremamente propenso alla ricerca dell’impossibile …”

Dalla luminosa vetrata in faccia a Gilbert un gruppo di passeri cinguettava allegramente, non curante della sofferenza che traspirava dai muri di quell’edificio che tanto rigogliosamente li ospitava. L’ufficio del Dottor Bernard dava proprio su un bel giardino, il Carrè de Saint-Louis, un quadrato verde con panchine sparse, in cui era possibile trascorrere un po’ di tempo all’aperto. Il commissario di tempo ne aveva passato veramente parecchio a guardare le fronde delle betulle muoversi ai tenui soffi di vento estivo, mentre pensava al padre, ormai senza speranze nella sua camera. Erano scorsi parecchi anni da allora, ma gli uccellini che popolavano quel giardino sembravano riconoscere il suono della sua voce, tanto acuto era il cinguettio che emettevano, quasi volessero attrarre la sua attenzione, proprio come vent’anni prima. Questo ricordo lo trasportò lontano dall’ufficio al momento in cui, uscito dall’ospedale dopo l’avvenuta morte del padre, era lì ad attenderlo all’ingresso Adrianne, bella come non mai. Ripensò al vestito bianco di lino che le lasciava intravvedere la lingerie intima di pizzo bianco e fu assalito da un brivido inaspettato di piacere. Per fortuna La Roche intervenne, smorzando i bollenti spiriti del tenebroso commissario.

“Potremmo vedere questi celebri frighi del sangue?”

“Ma certo, seguitemi”.

Le porte delle stanze degenti erano quasi tutte aperte, Leroux cercava in tutti modi di disperdere lo sguardo, ma nonostante l’impegno, non ci riusciva. Non c’erano più di due letti per camera. Il colore ocra la faceva da padrone e certamente non rallegrava un ambiente che già di per sé di felice non aveva proprio nulla. Osservò alcuni malati che discorrevano sdraiati, mentre, ad alto volume, la presentatrice del Tg di France2 blaterava inascoltata le sue notizie. Si ricordò di come anche suo padre amasse seguire lo stesso telegiornale, nonostante lui fosse lì per chiacchierare.

Finalmente raggiunsero una porta azzurrognola, Bernard tirò fuori dalla tasca un tessera magnetica e digitò un codice su un dispositivo situato sopra la maniglia d’acciaio. Dopo un bip prolungato, la serratura scattò e i tre poterono entrare. La stanza era grossa ed illuminata artificialmente, lungo il perimetro le frigo-emoteche si succedevano l’un l’altra senza interspazi.

“Alla vostra destra c’è la serie BR, le banche del sangue, per intenderci. Ho fatto sostituire quelle che c’erano prima con queste che sono più sicure, infatti sono dotate di chiusura con serratura, allarmi acustici e visivi, trasmissione remota d’allarme e memoria di allarme in caso di mancanza di corrente, qui a sinistra, invece, ci sono i congelatori rapidi per eritrociti e plasma, ma non dovrebbero interessarvi dato che finora è sparito soltanto il sangue intero. Lì in alto …” ed indicò un punto appena sopra lo stipite della porta “… una telecamera a circuito chiuso”.

“Bene” disse Pierre Luc “mi sembra che a sicurezza ci siamo! Potrebbe aprire un frigo?”

Il dottore infilò una chiave che teneva nel suo mazzo personale e aprì la serratura, all’interno pile di sacche tutte etichettate per gruppo e data di immissione erano conservate ad una temperatura compresa tra i due ed i sei gradi centigradi. Il commissario ne prese una in mano, era fredda e sembrava contenere colla liquida.

“Dunque solo lei possiede la chiave, giusto?”

“Sì commissario. Prima però, chiunque, una volta aperta la porta principale dotata di serratura normale, poteva accedere!”

“Potremmo avere una copia delle registrazioni delle telecamere a circuito chiuso?”

“Potrei farvele avere al più presto se riteniate possano esservi utili. Ma le ripeto che ultimamente non è più successo nulla”.

“Le vorremmo ugualmente. Grazie per la disponibilità, ci faremo vivi presto”.

Si stavano ormai allontanando quando La Roche notò tre, quattro scatole blu appoggiate per terra in un angolo.

“E quelle cosa sono?”

“Ah, sono i contenitori per il trasporto, ne abbiamo anche di quelli refrigerati per le lunghe percorrenze”.

“Quindi si possono fare viaggi lunghi senza utilizzare l’aereo ed evitare così i controlli”.

“Certamente, anche in treno per esempio”.

Gilbert riesaminò mentalmente ogni singolo dettaglio di quello che aveva appena visto, ripensò al rigore di Bernard, alla telecamera a circuito chiuso, al sangue di chissà quale essere umano che aveva tenuto nelle sue mani.

“Ah … ok, la saluto, a presto” disse il tenente.

Uscirono con le idee meno chiare di quando erano entrati. Arrivati alla macchina Gilbert disse: “Adesso portami davanti al liceo Montaigne, oggi è il compleanno di Adrianne e ho voglia di farle una sorpresa!”

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

IV

 

 

L’ospedale San Paolo era situato su un’altura da cui si poteva godere dell’intera visuale del porto. Aveva un ingresso a porte scorrevoli che davano accesso ad un atrio con un lungo bancone nel mezzo. Quattro operatori fornivano informazioni alle persone che via via si avvicendavano con un flusso del tutto irregolare. Maurizio si presentò come un amico del dottor Arvieri. L’uomo piccolo e brizzolato che si trovò di fronte aveva un’espressione simpatica ed un aspetto buffo, che influenzava positivamente chiunque gli parlasse. Con la sua voce da papera disse che il dottore era ricoverato in terapia intensiva, e indicò brevemente il percorso per raggiungere il reparto. Passando difronte al bar, Maurizio vide un gruppo di uomini con il camice bianco e i tipici zoccoli traspiranti. Fu assalito dal nostalgico ricordo di quando anche lui, allora studente universitario, si camuffava tra il personale medico. Nostalgia che si tramutò in rabbia quando visualizzò mentalmente la faccia goduta del rettore dell’università di Genova, l’unico responsabile di quella punizione troppo severa e a solo scopo dimostrativo che gli era stata inferta. L’espulsione dal corso di studi di uno studente così brillante e competitivo era stata una vera ingiustizia, forse un futuro danno per la società. Allontanò questo pensiero perché si rese conto che non l’avrebbe condotto a niente e, mentre attraversava i lunghi corridoi ospedalieri, cercò di rilassarsi e di isolarsi dal mondo circostante. Canticchiando sottovoce la grandiosa sonata Chiaro di Luna di Beethoven, mentre scorreva stanze di sofferenza con malati anche molto gravi e parenti più o meno sinceri nella loro compassione, si rese conto di essere innamorato proprio di quella parte più folle del suo essere, quella che spesso presagiva un’intuizione geniale di pura creatività. Era in perfetta forma e non capiva il motivo di quell’eccitazione improvvisa. Si trattenne dal ridere estasiato dall’elevazione del suo stato mentale, ma non cercò di controllarsi oltre, scivolando curioso nelle strane vicissitudini della sua vita. La sonata era un pezzo per pianoforte che amava moltissimo, anche perché aveva impiegato un anno per riuscire ad eseguirla alla perfezione, con quel vecchio strumento acquistato per pochi soldi da un’anziana vicina di casa che, altrimenti, l’avrebbe buttato via.

Il reparto di terapia intensiva non era un luogo dove passeggiare spensierati. Maurizio si rivolse ad un’infermiera per avere delle informazioni su Arvieri. Un dottore poco distante e con in mano una cartella clinica, gli venne incontro.

“Buongiorno, sono il dottor Franco Moncalvo, lei è un parente?”

“Buongiorno dottore. Sono un amico del dottor Roberto. Vorrei sapere come sta” rispose Maurizio, mentendo sul suo rapporto con il paziente al semplice scopo di semplificare quella conversazione.

“Di solito comunico informazioni sullo stato di salute dei degenti solo ai familiari, ma, dato che fino ad ora lei è l’unica persona che è venuta per far visita al malato, questa volta farò un’eccezione …” Moncalvo fece un lungo sospiro e il suo sguardo si fece più concentrato e con la fronte corrugata “… il corpo estraneo estratto dal paziente non ha lesionato nessun organo interno, il solo muscolo addominale era perforato. Nonostante ciò, mi dispiace doverle comunicare che il suo amico ha riportato anche un grave trauma cranico, che è la causa dello stato di coma profondo in cui si trova. L’intervento chirurgico è stato necessario per rimuovere un grosso ematoma”.

“Ci sono possibilità di ripresa?”

“Sarò sincero, non vorrei risultare brutale dicendole che nella migliore delle ipotesi il suo amico potrebbe risvegliarsi, ma le conseguenze saranno gravi. Visto il danno celebrale, sarà impossibile un recupero completo e le difficoltà motorie, intellettive e psichiche risulteranno permanenti. La durata del coma è impossibile da determinare e il risveglio potrebbe portare ad uno stato vegetativo continuativo”.

Maurizio si rese conto che non stava fingendo di essere interessato e dispiaciuto. Il suo sentimento era autentico, stavano pur sempre parlando di un essere umano fatto di emozioni e desideri. Moncalvo, infine, indicò la stanza alla loro destra e diede commiato dopo una silenziosa stretta di mano con pacca sulla spalla.

Roberto Arvieri sembrava morto. Era bianco in volto e nero sotto gli occhi. Un respiratore automatico garantiva il giusto afflusso d’aria e un monitor controllava continuamente i suoi parametri vitali. La testa era completamente fasciata. Un lenzuolo bianco era macchiato di sangue in alcuni punti e lo copriva da collo a piedi, lasciando intravedere il rigonfiamento delle fasciature sparse qua e là su tutto il corpo. La barba cominciava a spuntare e, nonostante il pallore, conferiva al viso dei lineamenti simili a quelli di Maurizio. Era triste pensare che quel giovane uomo fosse così solo in un momento del genere, chissà se era in grado di avvertire la presenza delle persone intorno a lui.

Il silenzio angosciante veniva interrotto solo dal rumore regolare dell’unità di pompaggio pneumatico del respiratore automatico in funzione. Perso nei meandri delle sue riflessioni a proposito della totale assenza di stabilità nell’esistenza umana, un’alternanza di eventi incontrollati di varia natura, Maurizio pensò che l’egoismo a volte fosse una virtù più che un peccato. Acchiappare la vita e godere pienamente di ciò che ha da offrire, sfruttando le occasioni che si presentano. Amava l’idea di non controllarsi, ma piuttosto di vivere d’istinto, senza temere di essere trascinato dalla corrente del fiume della casualità. Sapeva di essere giovane, ma in lui cresceva la consapevolezza del trascorrere inarrestabile del tempo e la voglia di sentirsi realizzato.

Si alzò di scatto, rivolse un ultimo sguardo a quel volto che non avrebbe più avuto la vitalità di un tempo, e uscì dalla stanza. Nel corridoio di reparto non c’era più nessuno del personale sanitario, solo alcune persone in visita ai malati.

“Salve, è questa la stanza del dottor Arvieri?” chiese una donna di mezza età.

“Sì. Lei è della famiglia?”

“No, sono una collega del centro trasfusionale. Appena ho saputo mi sono precipitata … è un così caro ragazzo Roberto. Mi sono chiesta se potessi fare qualcosa, anche se in questi casi si può solo aspettare”.

“Io mi trovavo sul luogo dell’incidente e subito dopo lo schianto ho chiamato l’ambulanza. Non l’ho mai conosciuto”.

Maurizio si sentì gratificato dalla presenza di quella donna dall’aria protettiva.

“Immagino che non si sia presentato nessun parente, nessun amico?”

“Sono convinto che abbia ragione”.

“Conosco il dottor Arvieri da circa due anni e mi rendo conto di non sapere praticamente niente di lui. E’ sempre stata una persona molto riservata. Ogni volta che qualcuno ha tentato di penetrare un po’ nella sua vita personale, lui si è sempre allontanato dicendo che il lavoro era soltanto lavoro. A molte persone non piaceva. A me è sempre sembrato un tenero ragazzo. In lui rivedo tanto il mio povero Simone, sarà per questo che ho sempre avuto un debole per Roberto. E’ impossibile accettare la morte di un figlio”.

“Immagino che sia normale” intervenne Maurizio che non sapeva più cosa dire.

“Ma le mie torte alla frutta non le ha mai rifiutate. Va matto per quella con la crema pasticcera, i lamponi e le more. I miei dolci sono stati l’unico punto di contatto con il mondo privato del dottore”.

La donna non finiva più di parlare. Era palese che i momenti di sofferenza che aveva vissuto per il figlio mancato l’avevano profondamente segnata. Se veramente la vita del dottor Arvieri era così carente di rapporti umani, avere vicino una persona bisognosa di aiutare, di esternare calore materno, era proprio ciò di cui aveva bisogno in quel momento.

 

 

 

Quando Maurizio uscì dall’ospedale, si rese conto che si era fatto coinvolgere troppo emotivamente, sia dal malato in coma che dall’infermiera in visita al dottore, al punto di dimenticare di lasciare il portafoglio al legittimo proprietario. Si girò indietro per rientrare, ma l’immagine della stanza di terapia intensiva, che visualizzava ancora nitida nella sua mente, era troppo opprimente rispetto alla libertà di camminare via lontano da quel luogo.

 

 

 

Si ritrovò a riflettere perso nel grigioblu di quel mare burrascoso. Aveva iniziato a camminare, finendo per ritrovarsi nella darsena. Di turisti in giro se ne vedevano pochi. Sentì il peso della testa ricurva verso il basso, quasi si staccasse dal corpo per cadere giù, nell’acqua del canale che dava l’accesso al mare aperto. Energiche folate di vento davano vita ad un concerto di barche a vela tintinnanti, e mettevano a dura prova la resistenza di quel ponte levatoio di legno scricchiolante. Si ricordò dell’appuntamento a cena con la bellissima Cristina e fantasticò immaginando il dopo cena. Maurizio si sentiva realmente attratto da quella ragazza, sapeva troppo di buono. Sperava di poter prima baciare quelle succulenti labbra avvinghiandosi a lei nell’intimità del suo appartamento, per poi trascorrere insieme tutta la notte. Queste sensazioni lo riscaldarono da un vento non molto piacevole. Si staccò dal corrimano del piccolo ponte sul porto e prese a camminare per il lungomare, in direzione di Albissola Marina. I rumori della città erano tenuti lontani da quel forte soffiare che rendeva faticoso il volo di esperti aviatori come i gabbiani. Una nebulosa di acqua salmastra si levava dal mare verso di lui. Il panorama umido bagnato lo fece rabbrividire. Passò la lingua sulle labbra e assaporò il gusto salato di quella terra. Il suo sguardo si focalizzò sugli oblò di una nave che, come piccoli occhi, lo stavano spiando, mentre, dall’alto, facce sorridenti salutavano parenti ed amici. Il mondo andava avanti con la sua egoistica temporanea felicità. L’energico boato della partenza sancì l’inizio di una nuova prospettiva di vita, la consapevolezza di poter cambiare qualcosa. Maurizio aveva fatto sua la legge dell’homo homini lupus già nei primi anni di vita, ed era convinto che quella frase fosse perfetta per giustificare tutti quei comportamenti che conducevano un uomo a prendere decisioni estreme e crudeli per un fine superiore, o per puro egoistico istinto di sopravvivenza. Per un momento si sentì ad un bivio che poteva dare una svolta alla sua esistenza. Avvertì un forte nodo alla gola e fu assalito da un’ansia che andò gradualmente tramutando in eccitazione mista a brivido. Doveva mantenere il controllo della situazione. La testa era un’esplosione di pensieri e ipotesi su come avrebbe potuto essere il suo futuro. La sua vita era sempre stata tormentata, spesso aveva commesso dei piccoli reati, fino a quando quell’eredità aveva dato inizio ad un periodo di rinnovamento e di stabilità sia economica che familiare e sociale. Ma il passato si era insinuato dentro di lui e aveva solcato di inchiostro indelebile quello che era il sentiero del suo destino, creando dei modelli di comportamento pronti all’uso in caso di emergenza e difficili da estirpare. Si riempì il polmoni d’aria ed espirò lentamente sforzandosi al tempo stesso di fare chiarezza nella sua testa. La vocina nel suo cervello lo stuzzicava e, piano piano, l’idea prese corpo e divenne decisione: “Sarò il dottor Roberto Arvieri”. Quella giovane vita non poteva essere stroncata in maniera così brutale, meritava di continuare ad esistere, così come quella laurea valeva la pena di essere sfruttata. Si sentì un giustiziere del destino oppure, più semplicemente, si giustificava con la propria coscienza per quello che avrebbe finito per fare…