Marcello
Miozzo
Marina
Vinciguerra
SOLE
ROSSO
SANGUE
I
"Buongiorno,
chiamo
per
l'annuncio
che ho
letto
sul
Corriere
della
Sera per
un posto
come
Sales
Manager,
riferimento
SMSV".
Solo un
sospiro
all'altro
capo del
telefono.
"Sì, non
è il
primo
che si
candida
per
questo
lavoro".
Non
sembrava
troppo
simpatico,
anche se
Maurizio
aveva
sempre
preferito
avere a
che fare
con
persone
dirette,
non
inclini
a facili
illusioni
e a
fargli
perdere
tempo.
“Gentilmente,
mi può
dire il
suo nome
così
verifico
se
abbiamo
il
curriculum
nel
database?”
“Maurizio
Bida, ma
non sono
iscritto
nel
vostro
database”.
Aveva
bisogno
di soldi
Maurizio,
ma non
era
disposto
a fare
un
lavoro
qualsiasi.
"Il
candidato
verrà
scelto
principalmente
tenendo
conto
dell'esperienza
pregressa
nella
direzione
commerciale".
La voce
all'altro
capo del
telefono
attese
un
momento,
dimostrando
un
atteggiamento
chiaramente
ostile
nei
confronti
del
prossimo.
Maurizio
non si
lasciò
intimidire.
Con
grande
sicurezza
cominciò
a
descrivere
il suo
vecchio
e breve
lavoro
al
centro
commerciale
e,
abilmente,
trasformò
quello
che era
il suo
ruolo da
approvvigionatore
di
scaffali,
in
responsabile
del
reparto
elettronica.
Tutto
filava
liscio e
quella
voce,
inizialmente
pregiudizievole,
cominciava
a
dimostrarsi
interessata.
Ci fu un
altro
silenzio,
quello
che
sanciva
la fine
delle
presentazioni
e lo
stabilire
un
giorno
per il
colloquio,
e,
proprio
in
quell’istante,
entrambi
poterono
sentire
ciò che
stava
accadendo
poco
lontano
dalla
cabina
telefonica
utilizzata
da
Maurizio.
Una
interminabile
inchiodata,
seguita
da uno
stridente
rumore
di
lamiere
accartocciate
e vetri
infranti,
e poi,
il
silenzio,
durato
giusto
il
momento
di
prender
fiato
per
urlare e
cercare
aiuto.
“Chiamate
un’ambulanza,
in
fretta!
Questo
signore
ha
bisogno
di un
medico,
vi prego
fate
presto”.
Era la
ragazza
alla
guida
dell’auto
che
aveva
preso in
pieno la
moto
dell’uomo
che
giaceva
in terra
tra la
vita e
la
morte.
Disperata
si
dimenava,
piangeva,
parlava
inutilmente
a quel
corpo
inerme
coperto
di
sangue.
Spaventata
a morte,
svenne
poco
dopo con
un tonfo
sordo
sull’asfalto
bollente
di
luglio.
Maurizio
fu il
primo ad
intervenire,
troncando
bruscamente
la
conversazione
telefonica.
Si chinò
subito a
raccogliere
il
portafoglio
che per
l’urto
volò
proprio
verso di
lui, se
lo
infilò
in tasca
e poi si
diresse
verso il
corpo
per
accertarsi
della
presenza
del
battito
e del
respiro.
L’uomo
era
vivo.
Maurizio
accese
il
cellulare
ed avviò
una
chiamata
nonostante
il
credito
fosse
esaurito,
si
trattava
di un
numero
d’emergenza.
All’altro
lato
della
cornetta
rispose
un
operatore
del 118
che,
dopo
aver
chiesto
di
descrivere
brevemente
le
condizioni
del
ferito,
fece
fatica a
convincersi
che non
si
trattasse
di uno
scherzo.
“Si
trova
sdraiato
in terra
sul
marciapiede,
sanguina
per i
numerosi
tagli,
c’è
vetro
ovunque
e ha una
croce
conficcata
all’altezza
dello
stomaco”.
Da non
credere,
era
stato un
angelo a
tentare
di
ammazzarlo.
Roberto
Arvieri,
questo
il nome
del
moribondo,
era un
dottore
che
lavorava
presso
l’ospedale
San
Paolo,
nel
centro
trasfusionale,
da pochi
anni.
Cordiale
con
tutti ma
molto
riservato,
nessuno
lo
conosceva
al di
fuori
dell’ambiente
lavorativo.
I
colleghi
si erano
ormai
convinti
che
fosse un
solitario.
Solo di
rado era
stato
visto in
compagnia
di
alcuni
individui,
a dire
il vero,
un po’
strani,
o
meglio,
molto
diversi
da lui:
dark con
i
capelli
lunghi,
orecchini
e
interamente
vestiti
di pelle
nera.
Probabilmente,
dietro
quell’aspetto
sempre
curato
da bravo
ragazzo,
si
nascondeva
un
ribelle.
Nel
frattempo,
il luogo
dell’incidente
fu
accerchiato
da una
folla di
curiosi
che a
stento
riuscì a
credere
ai
propri
occhi.
Un
destino
bizzarro
quello
dell’uomo
steso a
terra:
una
croce
alta
poco più
di un
metro
gli si
era
infilzata
per
l’estremità
superiore
nell’addome.
Un
gruppo
tentò di
ricostruire
la
sequenza
dell’incidente,
ipotizzando
che la
macchina
dovesse
procedere
ad alta
velocità,
per
riuscire
a
scaraventare
il
motociclista
contro
il
dehors
di un
bar e
poi
sulla
pesante
statua
dell’Angelo
con la
Croce.
L’impatto
aveva
staccato
la croce
di legno
dall’Angelo,
lasciandogli
libere
le mani,
che,
come il
volto,
erano
rivolte
verso
l’alto a
ringraziare
il
Signore
Onnipotente.
Una
donna
con un
grembiule
uscì dal
bar
difronte
e, dopo
aver
dato
un’occhiata
veloce
ai
danni,
si
rivolse
a
Maurizio:
“Bisogna
avvertire
la
famiglia!
Come si
chiama?
Qualcuno
lo
conosce?”
Intanto,
la
ragazza
che era
alla
guida
dell’auto
si era
ripresa
dallo
svenimento
e, prima
di
alzarsi
da
terra,
cercò il
portafoglio
nelle
tasche
di
Roberto.
“Non ha
documenti”.
“Guarda
nella
giacca
se ha il
cellulare?”
intervenne
Maurizio.
Niente.
Un uomo
ancora
senza
identità,
giaceva
tra la
vita e
la morte
su quel
marciapiede
di Corso
Tardy e
Benech,
mentre
stavano
sopraggiungendo
i mezzi
di
soccorso.
Era un
codice
rosso
che
richiedeva
anche la
presenza
dell’automedicale
oltre a
quella
dell’autoambulanza.
I due
veicoli,
attraversato
il
fiume,
si
fecero
spazio
nel
traffico
all’incrocio
con
Corso
Ricci,
ignorarono
il
semaforo
rosso e
furono
subito
sul
luogo
dell’incidente.
Maurizio
si
avvicinò
al bar
per bere
qualcosa,
ma fu
attirato
dalle
risate
di un
gruppo
di
giovanissimi
skater.
In
effetti,
la scena
aveva
del
ridicolo.
Il
ferito
era già
stato
caricato
sull’autoambulanza,
ma
l’autista
non
aveva
ancora
provveduto
a
chiudere
le porte
posteriori.
Spuntava
dall’interno
dell’abitacolo
una
grossa
croce
capovolta
sulla
pancia
di un
uomo,
quasi
fosse il
prolungamento
del suo
organo
sessuale.
II
“Dottore
gravissimo
dopo
scontro
con
Angelo”
era il
titolo
dell’articolo
sulla
prima
pagina
dell’inserto
locale
del
Secolo
XIX,
relativo
all’incidente
del
giorno
prima.
Dopo
aver
letto le
prime
righe,
Maurizio
riprese
a
camminare
in
direzione
del suo
piccolo
appartamento,
una
mansarda
al
quinto
piano in
via XX
Settembre.
Amava
fare
colazione
al bar
sotto
casa,
acquistare
un
quotidiano
e
leggerlo
su una
panchina
del
lungomare,
oppure,
direttamente
in
spiaggia.
Ma il
tempo
era
cambiato
e la
pioggia
iniziava
a
scendere
tranquillamente.
Per le
scale
salutò
l’inquilina,
ultima
arrivata
del
palazzo,
una
bellissima
ragazza
bionda
che
aveva
avuto il
piacere
di
aiutare
nel
trasloco.
Si era
trasferita
in un
appartamento
del
primo
piano da
quasi un
mese. Si
chiamava
Cristina
Fassio.
Quel
giorno
indossava
un
completino
da
spiaggia
fresco e
leggero
che le
dava
un’aria
di
semplice
sensualità.
“Ciao
bellissima”
disse
Maurizio.
Lei si
limitò
ad un
“Ciao”,
ma aveva
uno
sguardo
malizioso
che
lasciava
intendere
che il
complimento
le era
piaciuto.
“Mi
sento in
debito
con te.
Quelle
due
poltrone
che mi
hai
aiutato
a
portare
in casa
erano
davvero
pesanti”.
Era
molto
dolce
nel
preoccuparsi
così per
un uomo
che in
effetti
era un
perfetto
sconosciuto.
La
situazione
fece
ridere
entrambi
per un
istante
e in
quel
momento
Maurizio
capì che
aveva
veramente
un buon
profumo.
“Ti
andrebbe
se ti
invitassi
a cena …
diciamo
… per le
otto di
questa
sera?”
continuò
Cristina,
spezzando
l’incantesimo
dei loro
sguardi.
“Stasera
... il
mio
frigo è
vuoto …
direi
che è
perfetto!”
“Allora
il menù
è una
sorpresa
e tu
porta
solo la
tua
fame”.
Cristina
era
decisa a
conoscere
meglio
qualcuno
di quel
quartiere
in cui
si era
da poco
trasferita.
Si
salutarono
e
Maurizio
salì nel
suo
appartamento.
Nonostante
la gran
confusione
e la
metratura
molto
ridotta,
la
mansarda
aveva
gli
spazi
ben
gestiti,
l’arredamento
a buon
mercato
era
limitato
all’essenziale.
Maurizio
si
catapultò
sul
divano,
allungò
una mano
verso il
telecomando
dello
stereo,
lo
accese e
selezionò
un album
di
musica
acid
jazz.
Niente
lo
rilassava
più che
la
solitudine
del suo
appartamento,
unita ad
una
buona
musica
ed al
dolce
tamburellare
della
pioggia
senza
vento,
che si
scontrava
col
lucernario.
Non
aveva
voglia
di
leggere.
Chiuse
gli
occhi e
allora
tutto fu
perfetto
così,
senza
aggiungere
niente.
Si
svegliò
all’ora
di
pranzo.
Nonostante
fosse
sempre
stata
una
persona
dinamica,
Maurizio
era
convito
che
l’ozio
avesse
il gusto
puro
della
libertà.
Schiuse
in
sequenza
gli
occhi,
rivolgendo
l’attenzione
su un
oggetto
che non
aveva
più
considerato.
Si alzò
di
scatto e
prese in
mano il
portafoglio
che
aveva
sottratto
alla
scena
dell’incidente
del
giorno
prima.
Ormai
non gli
serviva
più,
l’aveva
già
ripulito
da quei
duecentoventi
euro che
conteneva.
Lo aprì
nuovamente,
intenzionato
a
scoprire
qualcosa
di più
dell’uomo
che
lottava
tra la
vita e
la
morte, a
seguito
di quel
bizzarro
sinistro.
Quattro
badges
con
banda
magnetica
corrispondenti
ad un
codice
fiscale,
una
tessera
sanitaria,
una
carta
bancomat
Monte
dei
Paschi
di Siena
e
un’ultima
carta di
una
banca
straniera
denominata
Nykredit
Bank.
Patente
e carta
d’identità
erano
intestate
alla
stessa
persona,
ma
riportavano
due
indirizzi
diversi.
La prima
faceva
riferimento
ad una
residenza
nella
Repubblica
Ceca e
precisamente
nella
città di
Praga.
La
seconda
invece
era
italiana.
Quest’ultimo
documento
era
anche il
più
recente.
Roberto
Arvieri
abitava
quindi a
Savona,
aveva
trentaquattro
anni,
faceva
il
medico e
non era
sposato.
Maurizio
notò di
avere
una
certa
somiglianza
con
quell’uomo
dalla
barba
incolta
ritratto
nella
foto-tessera.
In un
altro
scomparto
c’era un
foglio
con un
elenco
di
contatti
telefonici
associati
ad un
nome e
ad una
località
europea.
Si
soffermò
ad
osservarlo
e pensò
che
dovesse
trattarsi
di una
rete di
filiali,
appartenenti
ad una
multinazionale,
magari
operante
nel
settore
delle
forniture
medicali.
Stranamente
non era
indicato
nessun
nome di
società,
nessun
logo
aziendale
o sito
internet.
Decise
che era
il
momento
di
restituire
quel
portafoglio
al
legittimo
proprietario,
ma come?
Si
interrogò
sul da
farsi
per
alcuni
minuti,
ipotizzando
di
recapitarlo
al più
vicino
comando
dei
vigili,
ma
avrebbe
dovuto
fingere
di
averlo
trovato
casualmente
per la
strada e
questo
poteva
essere
rischioso.
Infatti,
non
sarebbe
stato
difficile
incontrare
gli
stessi
agenti
che
erano
intervenuti
nel
sinistro
del
giorno
precedente
e, una
persona
un po’
sveglia,
lo
avrebbe
sicuramente
riconosciuto.
La
prestanza
fisica e
la folta
barba di
Maurizio
passavano
difficilmente
inosservate,
unitamente
al suo
sguardo
intenso
di occhi
verdi
smeraldo
che lo
avevano
sempre
favorito
nei
confronti
del
gentil
sesso.
Al
contrario,
il suo
atteggiamento
da
conquistatore,
sempre
sicuro
di sé e
il suo
sguardo
intelligente
e
riservato,
generavano
spesso
invidie
negli
uomini
che
conosceva.
Era
meglio
evitare
che
qualcuno
curiosasse
nella
sua
vita,
specialmente
quella
prima
del
trasferimento
a
Savona.
Aver
trascorso
l’adolescenza
nel
centro
storico
genovese
sicuramente
non era
stato un
gioco,
soprattutto
con un
padre
che
l’aveva
abbandonato
appena
sentito
il peso
di una
paternità
non
desiderata
e una
madre
che si
era
spaccata
la
schiena
sedici
ore al
giorno
per
mantenerlo.
Maurizio
aveva
dovuto
sapersi
adattare
e
diventare
scaltro,
ed era
finito
per
oltrepassare
il
limite
della
legalità.
Grazie
al suo
carattere
ribelle,
era
normalmente
portato
ad
infrangere
le
regole.
Dai
piccoli
furtarelli
fino
allo
spaccio
di
qualche
dose,
era
riuscito
a
cavarsela
con
poche
notti in
gattabuia.
A
differenza
dei suoi
amici,
aveva
saputo
però
riconoscere
quale
era il
momento
di darsi
una
calmata.
Non
tutti i
pesci
piccoli
possono
diventare
degli
squali.
Sapeva
individuare
le
persone
a cui
non si
dovevano
calpestare
i piedi.
Voleva
di più
dalla
vita.
Era come
un
fumatore
convinto
di non
avere il
vizio.
Ed
infatti,
per un
po’ di
tempo
era
cambiato.
Con la
morte di
un
prozio,
un uomo
benestante
che non
si era
mai
sposato
e viveva
a Buti,
un
paesino
in
provincia
di Pisa,
la madre
di
Maurizio
aveva
ricevuto
una
buona
somma di
denaro
in
eredità.
Questa
nuova
condizione
economica
le aveva
permesso
di
lavorare
molto
meno e
comprarsi
una casa
in un
bel
quartiere
di
Genova,
quello
di
Nervi.
Da quel
momento,
avendo
più
tempo
libero a
disposizione,
aveva
seguito
maggiormente
l’educazione
del
figlio,
spingendolo
prima a
terminare
la
scuola
media
superiore,
poi ad
iscriversi
all’università.
Fu il
corso di
laurea
in
medicina
e
chirurgia
quello
scelto
da
Maurizio,
che a
stento
si era
ritagliato
una vita
più o
meno
normale,
senza
mai
abbandonare
del
tutto le
vecchie
compagnie.
I primi
tre anni
erano
stati da
non
credere.
Riuscì a
superare
quasi
tutti
gli
esami
con
ottimi
voti,
alimentando
l’orgoglio
della
madre
che
vedeva
il suo
unico
figlio
già
sistemato,
un
dottore
in
carriera.
Verso la
metà del
quarto
anno era
arrivata
l’espulsione
dall’università.
Contraffazione
e
falsificazione
furono
le
accuse
che il
rettore
imputò a
Maurizio.
L’allontanamento
definitivo
dal
corso di
laurea
fu una
decisione
forse
eccessiva,
ma
l’ateneo
si
serviva
da tempo
di
quest’arma
per
contrastare
un
fenomeno
in
rapida
diffusione
tra gli
studenti.
Era
ormai
opinione
consolidata
tra i
ragazzi
che,
durante
le
sessioni
d’esame,
la
maggior
parte
dei
professori
universitari,
nel
valutare
un
candidato,
si
facesse
influenzare
dai voti
già
presenti
sul
libretto.
Maurizio
non
avrebbe
mai
immaginato
che
trasformare
temporaneamente
un
diciotto
in un
ventotto,
avrebbe
avuto
simili
conseguenze.
Il
libretto
universitario
rappresentava
certamente
un
documento,
ma la
media
finale
veniva
calcolata
sulla
base
delle
effettive
votazioni
presenti
sui
registri
in
Facoltà.
Purtroppo,
il
docente
con cui
aveva
sostenuto
biochimica
il primo
anno
aveva
una
formidabile
memoria
per i
numeri,
oltre ad
essere
lo
stesso
che lo
disaminò
in
seguito
per
microbiologia
clinica.
Lo
strombazzare
di un
autobus
giù in
strada
ridestò
Maurizio
nella
realtà
del suo
soggiorno,
e gli
suggerì
che
quello
sarebbe
stato il
mezzo di
trasporto
da
utilizzare
poche
ore dopo
per
raggiungere
l’ospedale.
III
Il
commissario
Gilbert
Leroux
era
entrato
nella
Polizia
di Stato
francese
appena
terminato
gli
studi di
psicologia.
Grazie
alla
meticolosità
nel
collaborare
allo
svolgimento
delle
indagini
e alla
destrezza
nel
reperire
informazioni,
si era
subito
guadagnato
la
fiducia
dei suoi
superiori.
Nel
corso
degli
anni, la
sua
professionalità
gli
aveva
permesso
di avere
aumenti
di grado
e
responsabilità
sempre
crescenti.
Sorseggiando
il suo
caffè,
cominciò
a
chiedersi
quale
avrebbe
potuto
essere
il suo
ruolo in
questa
collaborazione
con l’Europol.
Si
trattava
sicuramente
di
un’indagine
su scala
internazionale
che
coinvolgeva
almeno
due
stati
europei.
Pensò
che
potesse
essere
l’occasione
per una
promozione,
anche se
si
sentiva
comunque
già
soddisfatto
della
sua
carriera
lavorativa.
Il
padre,
che era
proprietario
di un
grosso
vigneto
nel
Maine et
Loire,
non
lontano
dalla
città di
Angers,
non
aveva
sicuramente
incoraggiato
il
giovane
Gilbert
a
trasferirsi
a Parigi
per
iscriversi
alla
facoltà
di
psicologia.
Avrebbe
desiderato
tramandare
al
figlio
l’arte
di
produrre
vino, in
quella
terra
generosa
e ricca
di
tradizioni.
Solo
diversi
anni
dopo,
confidò
a
Gilbert
di
essere
fiero di
lui.
Fiero
della
fermezza
nelle
sue
decisioni,
nonostante
si fosse
trovato
chiaramente
in
svantaggio
rispetto
ai suoi
compagni
di
corso.
Fu la
più
antica
campana
di
Parigi,
quella
della
chiesa
di
Saint-Séverin,
a
destare
dai suoi
pensieri
il
commissario.
Amava
fare
colazione
in quel
quartiere
così
pieno di
vita. Si
mischiava
volentieri
tra
turisti,
studenti
universitari
e
artisti
più o
meno
improvvisati,
estasiato
dal
fervore
di
espressione
e
curiosità,
caratteristico
di
quella
città.
Erano le
otto del
mattino,
quando
Pierre
Luc
spuntò
da rue
Saint-Jacques
con il
suo
passo
soddisfatto
e
ciondolante,
tipico
dopo una
nottata
stancante
ma
appagante,
quasi
rivelatrice.
Sorrideva
ai
gruppi
di
ragazze
che
incontrava
e,
subito
dopo, si
girava
per
analizzarle
da testa
a piedi,
soffermandosi
sulle
zone di
maggiore
interesse.
Le donne
erano il
suo
debole,
ma era
un buon
poliziotto.
Da
cinque
anni
circa
era
tenente
e da tre
faceva
coppia
fissa
con
Gilbert.
Il
commissario
pagò il
conto
lasciando
il
denaro
nel
piattino
e si
avviò
con La
Roche
verso
l’ufficio.
Attraversarono
la Senna
sul pont
Saint-Michel,
svoltarono
in quai
des
Orfèvres
e
raggiunsero
così la
prefettura.
Nella
sala
d’aspetto,
ad
attenderli,
c’era
una
donna
sulla
quarantina,
in
tailleur
grigio e
ventiquattrore.
Doveva
essere
l’ufficiale
di
collegamento
con l’Europol.
“Buongiorno,
sono
Yvonne
La Fabre,
ho un
appuntamento
con il
commissario
Leroux”
si fece
avanti
lei per
prima.
“Buongiorno
e
benvenuta,
io sono
il
tenente
Pierre
Luc La
Roche e
lui è il
commissario
Gilbert
Leroux”.
“Venite,
accomodiamoci
nel mio
ufficio”
disse
Gilbert
indicando
la
direzione.
La Fabre
indossava
un buon
profumo
che si
diffuse
presto
nella
stanza,
rendendo
più
piacevole
l’ambiente
lavorativo.
Non era
una
donna
bellissima,
ma
celava
una
profonda
sensualità
nella
sua
sicurezza.
Determinata
nel
lavoro,
pretendeva
che il
suo
essere
donna
non le
ponesse
degli
ostacoli
in un
ambiente
prettamente
maschile,
come
quello
della
Polizia
di
Stato.
Non
amava
ricevere
particolari
attenzioni
e Pierre
Luc se
ne
accorse
subito.
“Il mio
capo mi
ha
mandata
qui per
fornirvi
dei dati
relativi
ad una
indagine
che sta
ormai
interessando
molti
stati
europei
e per
chiedere
anche la
vostra
collaborazione”
iniziò
Yvonne
saltando
tutti i
convenevoli.
“Siamo a
totale
disposizione.
Non è la
prima
volta
che
collaboro
con l’Europol”
intervenne
il
commissario.
In
effetti,
solo da
un paio
di mesi,
si era
conclusa
un’indagine
con
l’arresto
di una
banda di
trafficanti
di opere
d’arte e
gioielli
che
operava
in
Francia,
Repubblica
Ceca e
Ungheria.
“Da un
controllo
incrociato
di dati
è emerso
un
collegamento
preoccupante
tra
reati
apparentemente
isolati
e
sottovalutati.
In
effetti,
siamo
ormai
certi di
trovarci
di
fronte
ad una
rete
internazionale
di
trafficanti
fitta e
molto
ben
organizzata,
con una
quantità
di
persone
infiltrate
tale da
permettere
le
violazione
e i
furti
sempre
in
luoghi
differenti.
Data la
casualità
diventa
veramente
difficile
prevedere
le loro
mosse.
In
effetti
questi
individui
delinquono
indisturbati
probabilmente
da molti
anni”.
“Ma in
cosa
trafficano?”
interruppe
La
Roche.
“Sangue!”
“Questi
criminali
rubano
sangue?”
il
commissario
sembrava
meravigliato.
“Sì, e
molti
casi non
vengono
nemmeno
denunciati.
Non è
raro che
alcuni
dottori
molto
ambiziosi
prelevino
materiale
organico
dalle
strutture
ospedaliere,
per fare
ricerca
in sede
privata.
Non è
stato
ancora
dimostrato
il
coinvolgimento
del
personale,
anche se
è ovvio
che, una
persona
esterna
da sola,
non
sarebbe
in grado
di
introdursi
in un
centro
trasfusionale
e
prelevare
le
sacche
dalle
frigo-emoteche,
specialmente
da
quelle
che
necessitano
di
username
e
password
per
essere
aperte”.
“Tutto
questo a
quale
scopo?”
disse La
Roche.
“Traffico
di
organi
ed
operazioni
chirurgiche
da
mercato
nero
sono le
piste
più
probabili,
ma non
escludiamo
altre
ipotesi”
spiegò
La Fabre.
In
effetti,
pensò
Gilbert,
era
improbabile
che
questo
sangue
venisse
utilizzato
da una
setta
per
praticare
dei riti
satanici
oppure
come
composto
per
produrre
un
qualche
elisir
di lunga
vita.
Questa
organizzazione
era di
tipo
mafioso
e
muoveva
sicuramente
enormi
quantità
di
denaro
per
essere
così
radicata.
“Potremmo
mandare
qualche
agente a
fare
delle
domande
negli
ospedali
del
comprensorio
di
Parigi”
disse il
commissario.
“Per il
momento
l’Europol
suggerisce
di
reperire
quante
più
informazioni
possibili
e
rimanere
in
allerta,
nel caso
che
questi
farabutti
commettano
degli
errori
…”
aggiunse
La Fabre,
e nel
frattempo
aprì la
ventiquattrore
per
estrarre
un plico
di fogli
“… vi
lascio
l’elenco
di tutte
le
denunce
già
registrate
e
pervenute
alla
sede de
L’Aia”.
Il
tenente
cominciò
a
sfogliare
il
materiale
fornito
dall’ufficiale.
Il
fenomeno
del
furto di
sangue
interessava
diversi
stati
europei,
sia in
città di
maggiore
che di
minore
importanza.
La
notifica
più
remota
risaliva
al 3
maggio
1991,
ben
diciotto
anni
prima.
Pierre
Luc
propose
di fare
una
ricerca
tra le
denunce
di reati
registrate
in
archivio,
restringendo
il campo
a quelle
che
avessero
a che
fare con
il
traffico
di
sangue e
con gli
ospedali
negli
ultimi
venti
anni. Si
alzò e
si
diresse
verso il
suo
ufficio,
senza
attendere
il
consenso
degli
altri
due
interlocutori.
La Fabre
assunse
un tono
più
rilassato
e
amichevole
non
appena
capì che
si
trovava
di
fronte a
persone
disposte
a
collaborare,
senza
rivalità.
Dopo
qualche
minuto,
La Roche
rientrò
nella
stanza
dove La
Fabre e
il
commissario
Leroux
continuavano
a
discorrere
sui
particolari
dell’indagine
e rimase
sorpreso
del
fatto
che i
due si
davano
del tu.
Normalmente
era lui
il
seducente
che
sapeva
rompere
il
ghiaccio
e fare
il
simpatico
con le
donne.
Evidentemente,
Yvonne
era
affascinata
più
dalla
professionalità
e
dall’esperienza
di
Gilbert
che dal
suo
savoir
faire.
La Roche
espose i
risultati
della
ricerca
effettuata
su
Parigi e
dintorni.
Emersero
oltre
duecentomila
denunce.
Escludendo
quelle
per
trasfusioni
di
sangue
infetto,
i casi
di
discriminazione
verso
donatori
omosessuali
oppure
portatori
di
handicap
e le
querele
di
pazienti
di
religioni
e
credenze
non
compatibili
con la
medicina
occidentale,
si scese
a
centotre
notifiche
di
reato.
Tra
queste,
trentasette
erano
per
sangue
mal
conservato,
quarantanove
per
sangue
prelevato
da
degenti
al
termine
del
ricovero
senza il
loro
consenso
e
diciassette
per
furto di
sangue,
di cui
le
ultime
otto
erano
contro
ignoti,
le
rimanenti
rivolte
a
personale
ospedaliero.
I tre
investigatori
decisero
che
quelle
diciassette
denunce
sarebbero
state il
punto di
partenza
su cui
fare
degli
accertamenti.
Gilbert
aveva
ben
chiaro
in mente
che si
sarebbe
occupato
di
persona
del
caso.
Quando
Gilbert
aveva
conosciuto
sua
moglie,
attraversava
un
momento
particolarmente
difficile
della
sua
esistenza.
La grave
malattia
di suo
padre. A
quei
tempi si
muoveva
spesso
in
metrò.
Gli
piacevano
quei
luoghi
sotterranei
in cui
perdersi
tra la
folla
anonimamente
indisturbato.
Era il
posto
ideale
per
pensare,
per
sentirsi
libero
di
essere
triste
ed
assorto.
La sua
immagine
riflessa
sul
finestrino
che
allungava
i volti
contorti
dalla
velocità,
l’aiutava
a
riflettere
sulla
sua
vita, su
quello
che gli
succedeva
o che
gli era
successo.
Spesso
si
sorprendeva
a
ripensare
alla sua
infanzia,
non
riusciva
a
sganciarsi
dai
ricordi.
“E’
libero?”
una voce
gaia lo
aveva
distolto
dai suoi
pensieri,
si era
voltato
e due
occhi
neri e
profondi
lo
avevano
catapultato
nella
realtà.
“Certo”.
“Guardi,
è tutto
il santo
giorno
che
cammino
per
Parigi,
ho i
piedi
gonfi,
sono
stanca
ed
affamata!
Grazie,
mi siedo
proprio
volentieri”.
Quel
modo di
fare
così
aperto
ed
affabile
aveva
colpito
particolarmente
l’introverso
Leroux,
che era
rimasto
immediatamente
affascinato
dai
lineamenti
dolci e
da
subito
familiari
di
quella
ragazza.
Indossava
una
canotta
di
cotone
leggera
che
lasciava
intravedere
le
generose
forme
del
seno. Si
era
proposto
di non
fissarla,
ma il
suo
sguardo
involontariamente
finiva
sempre
per
soffermarsi
sull’abbondante
scollatura.
Non gli
era mai
successo
di
essere
tanto
sfacciato.
Lei se
ne era
accorta,
ma non
sembrava
evidentemente
infastidita,
dal
momento
che,
sorridente,
aveva
detto il
suo
nome: “Adrianne”.
Era nata
in un
paesino
vicino
ad Arles,
a
Saintes
Maries
de la
Mer,
alle
bocche
del
fiume
Rodano.
Era una
donna di
mare e
questa
caratteristica
se la
portava
sempre
dentro;
inoltre,
la
natura
selvaggia
della
Camargue
l’aveva
fortificata
e resa
libera
nell’animo.
Questo
il
commissario
lo aveva
percepito
subito e
apprezzato
dal
primo
momento.
Durante
il
viaggio
lei gli
aveva
raccontato
del
meraviglioso
mondo in
cui era
vissuta,
delle
lunghe
passeggiate
a
cavallo
sin da
bambina
e del
vento
battente
delle
calde
giornate
di
giugno,
della
spensieratezza
di quei
giorni e
della
fortuna
di
vivere
in un
luogo
incantevole
e fuori
dal
comune.
Gli
aveva
mostrato
un
piccolo
ciondolo
con un
cavallo
bianco
che
teneva
al
collo,
quasi
incollato
alla
pelle
dal
sudore.
Faceva
veramente
caldo in
metrò.
Glielo
aveva
regalato
suo
padre,
quando
l’aveva
aiutato
a far
partorire
la
cavalla
Adeline.
Adrianne
si era
poi
persa
nel
racconto
interminabile
ed
affascinante
di
quell’evento.
Nella
sua
mente lo
riviveva
come un
film in
bianco e
nero. E
Gilbert
era
rimasto
irrimediabilmente
rapito
dall’enfasi
di
quelle
parole.
Gli era
sembrato
di
vedere
la
cavalla
ansimante
che
nervosamente
scalpitava
sul
fieno,
muovendosi
insensatamente,
quasi
cercando
una via
di fuga
ad un
dolore
evidentemente
troppo
forte.
Aveva
creduto
di
sentire
l’odore
di
quella
notte, e
si era
emozionato
difronte
all’immagine
di quel
cucciolo
tutto
impiastricciato
che
cercava
di
raddrizzarsi
sulle
zampe
secche
ed
incerte.
Gilbert
non
aveva
mai
interrotto
Adrianne.
Si
sentiva
stregato
dalla
passionalità
che
sprigionava
quella
creatura
quasi
ultraterrena
che si
era
trovato
di
fronte.
Perso
nelle
linee
morbide
dei suoi
lunghi
capelli
castani,
non era
riuscito
a
pronunciare
nessuna
parola.
Solo
dopo un
bel po’
di tempo
aveva
detto:
“Ma dove
siamo?”
Non si
erano
accorti
di aver
perso
tutti i
cambi e
che da
Porte de
Clignancourte
erano
arrivati
fino al
capolinea.
Leroux
avrebbe
dovuto
cambiare
a Gare
du Nord
per
arrivare
a
Republique,
quindi
prendere
per
Mairie
de Lilas,
scendere
alla
prima ed
andare
da suo
padre
all’ospedale
Saint-Louis,
in
avenue
Claude
Vellefaux
1.
“Io
dovrei
andare
da mio
padre,
in
ospedale,
che ne
dici se
prima ti
offro un
caffè!?”
Erano
passati
parecchi
anni da
allora,
ma,
mentre
La Roche
guidava
per il
boulevard
Magenta
verso il
Saint-Louis,
il
commissario
non poté
fare a
meno di
rivivere
mentalmente
quel
ricordo.
Il dolce
incontro
di
quella
bellissima
donna
che
sarebbe
diventata
sua
moglie e
il
doloroso
addio di
suo
padre.
Fu
assalito
dall’incubo
di
rimettere
piede in
quell’ospedale.
Adrianne
si era
laureata
all’Università
di
Avignone
in
storia
ad
indirizzo
patrimoniale.
Aveva un
debole
per i
monumenti
di
Parigi,
più o
meno
conosciuti.
Quando
aveva
appreso
telefonicamente
che
Gilbert
era
diretto
al
Saint-Louis
per fare
alcune
domande
ad un
medico
che
aveva
denunciato
dei
furti di
sangue
dal
centro
trasfusionale,
non
aveva
esitato
ad
accennargli
le
origini
storiche
di quel
maestoso
e antico
ospedale
di
Parigi.
L’edificio
era
veramente
enorme.
Appena
attraversata
la
soglia,
Gilbert
fu
assalito
dalla
voglia
irrefrenabile
di
andarsene
e
cercare
un
locale
dove
sorseggiare
una
birra
alla
spina
ghiacciata,
con
almeno
due dita
di
schiuma.
Ma il
senso
del
dovere
ebbe la
meglio
su
quella
debolezza.
“Senti,
perché
poi non
cerchiamo
un bar e
prendiamo
qualcosa
da
bere?”
Il
tenente
fu
meravigliato
dalla
richiesta,
ma
successivamente
si
accorse
di aver
sete
anche
lui e
tanta.
Si
avvicinarono
al
servizio
informazioni
ed una
donna
goffa e
stizzosa
parlava
al
telefono.
“Mi
dispiace,
ma le
visite
ai
parenti
vanno
effettuate
dalle
17h alle
18h …
venga
pure
prima se
crede,
ma dovrà
attendere
l’orario
di
visita.
Mi
dispiace
…
arrivederci!!!”.
Le donne
in carne
non
erano
mai
dispiaciute
al
commissario.
Aveva
sempre
pensato
che
fossero
caratterizzate
da una
componente
materna
che
quelle
molto
magre
non
riuscivano
a
trasmettere
altrettanto
bene.
Questa
però di
materno
non
aveva
proprio
nulla.
Iniziò a
sfogliare
una
rivista,
infastidita
dalla
presenza
di
Gilbert
e Pierre
Luc di
fronte
allo
sportello
nel
quale
lei
prestava
servizio.
“Buongiorno,
siamo il
commissario
Leroux e
il
tenente
La
Roche,
vorremmo
parlare
con il
dottor
François
Bernard,
per
favore”.
“In
questo
momento
è
occupato”.
“Non
potrebbe
vedere
se
riesce a
dedicarci
qualche
minuto
del suo
prezioso
tempo,
gentilmente?”
“Proverò
a
chiamare
il
reparto,
ma non
assicuro
nulla!”
“Grazie”.
La Roche
era
seccato
oltremodo
da quel
fare
altezzoso
e non si
ricordò
in vita
sua di
aver mai
avuto
una tale
repulsione
per una
donna.
Nelle
relazioni
personali
era
sempre
stato
molto
esigente
a
proposito
dell’estetica
femminile,
forse
troppo.
Pensò a
quanto
potesse
essere
imbarazzante
trovarsi
nello
stesso
letto
con
un’arpia
del
genere,
con
quella
ciccia
bagnata
di
sudore e
quelle
sopracciglia
voluminose
che si
muovevano
ad ogni
suono
emesso
da
mascelle
carnose.
Provò
per un
breve
istante
una
sensazione
di
nausea
che gli
ricordò
il suo
pressante
bisogno
di
ingurgitare
liquidi.
“Scusi,
il bar
dove si
trova?”
Ignorando
la
domanda,
l’adorabile
signora
continuò
ad
armeggiare
con il
telefono,
cercando
il tasto
due tra
quelli
della
selezione
abbreviata,
corrispondente
al
reparto
di
ematologia
adulta.
Nonostante
Gilbert
e Pierre
Luc si
fossero
presentati
come
poliziotti,
la donna
continuava
a non
dimostrarsi
disponibile.
“Ciao
Claire,
come
stai?
Nanà
tutto
bene? …
e i
cuccioli?”
“Mi
scusi ma
abbiamo
una
certa
fretta,
vorrebbe
chiedere
se il
dottore
può
incontrarci?”
interruppe
La
Roche.
“Va bene
va bene,
un
attimo …
ascolta
Claire,
mi
cerchi
il
dottor
Bernard.
Due
poliziotti
vorrebbero
parlagli
…”, e
dopo una
breve
pausa “…
d’accordo
li mando
in
reparto”.
Conclusa
la
telefonata,
la donna
prese
dal
cassetto
una
pianta
dell’ospedale
e indicò
un
padiglione
chiamato
Miosotide.
Quel
nome di
fiore
stava a
indicare,
tra gli
altri,
il
reparto
di
ematologia
adulta.
Il
dottore
li
avrebbe
aspettati
all’ingresso
di
quell’edificio.
Il
commissario
ironicamente
ringraziò
l’operatrice
del
centro
informazioni
per la
grande
disponibilità
dimostrata,
e si
diresse
verso il
luogo
dell’incontro.
Si
chiese
come
fosse
possibile
che
spesso,
persone
così
scortesi,
ricoprissero
ruoli in
cui
fosse
fondamentale
la
capacità
di
relazionarsi
con gli
altri.
Camminava
a passo
lesto e
non si
accorse
che La
Roche
era
rimasto
indietro.
Si voltò
e lo
vide
intento
a
guardarsi
in giro.
“Cosa
stai
facendo?”.
“Ho una
sete
bestiale!
Se non
trovo il
bar,
almeno
dammi il
tempo di
prendere
una
bibita
ad un
distributore
automatico.
Non ho
più
saliva,
tra poco
sputerò
direttamente
la mia
lingua”.
Il caldo
incessante
ormai da
giorni
rendeva
i
pomeriggi
della
Ville
Lumière
veramente
faticosi,
ed il
tenente
non era
tipo da
mezzi
termini
quando
qualcosa
lo
incomodava.
L’escursione
termica
di
quella
città
lontana
dall’influsso
del mare
permetteva
invece
una
diminuzione
del
calore
durante
la
notte,
rendendo
più
piacevoli
le ore
del
mattino.
Il
dottor
Bernard
non si
poteva
certo
definire
un tipo
affascinante
o sexi,
anzi,
dava
tutta
l’aria
di
essere
un topo
da
laboratorio.
La
pancetta
prominente
denotava
ore di
incessante
lavoro
sedentario
trascorse
alla
scrivania.
Attendeva
tranquillamente
con le
mani in
tasca,
sollevando
leggermente
dietro
alla
schiena
il lungo
camice
bianco
che di
sicuro
non
alleviava
la
percezione
di forte
umidità
caratteristica
di quei
giorni.
Muoveva
a scatti
il collo
sforzando
la vista
per
vedere
se
qualcuno
lo stava
cercando
e quando
Gilbert
gli fu
davanti,
si rese
conto
della
motivazione
di quel
comportamento.
Il
dottore
indossava
un paio
di
occhiali
con
lenti
molto
spesse,
la
montatura
quasi
non si
vedeva e
gli
occhi
gonfi
sembravano
filtrati
attraverso
una
lente di
ingrandimento.
Al
commissario
sembrò
di aver
di
fronte
Mr Magoo
in
persona,
calvo,
solo più
giovane
e
parecchio
in
sovrappeso.
A quel
pensiero
trattenne
alla
meno
peggio
un
sorriso,
anche se
evidentemente
non gli
riuscì
molto
bene,
dal
momento
che La
Roche lo
guardò
con
atteggiamento
interrogativo
e al
tempo
stesso
meravigliato.
“Sono il
Commissario
Gilbert
Leroux e
questo è
il
tenente
Pierre
Luc La
Roche.
Lei è il
dottor
François
Bernard?”
“Sì,
sono
io”.
“Buongiorno
dottore,
grazie
per la
sua
disponibilità”.
“Ditemi
tutto,
non ho
molto
tempo e
mi
piacerebbe
sbrigare
velocemente
questa
questione,
di
qualunque
cosa si
tratti!”
“D’accordo”.
“Mentre
mi
spiegate,
seguitemi
pure in
reparto”.
“Certo”.
Una
breve
scalinata
introduceva
ad un
ampio
ingresso,
tramite
il quale
si
poteva
accedere
a
diversi
padiglioni
che
avevano
tutti
nomi di
fiori,
Geranio,
Lavanda
e
Miosotide,
quello,
appunto,
di
ematologia.
Gilbert
fu preso
da un
nodo in
gola che
non
riusciva
ad
andare
né su né
giù. Il
volto di
suo
padre
sdraiato
nel
letto, i
lunghi
corridoi
blu
scuro e
le sedie
scomode
e dure
mentre
angosciato
attendeva,
gli
riaffiorarono
alla
mente.
Quella
volta si
trattava
del
padiglione
lavanda,
quello
di
medicina
interna.
“Siamo
qui per
le
denunce
a
proposito
dei casi
di
sparizione
di
sangue.
Dal
momento
che tre
sono
state
sporte
da lei
negli
ultimi
due anni
con la
cadenza
all’incirca
semestrale,
vorremmo
avere
più
dettagli
in
merito”
cominciò
La
Roche.
“Dunque,”
spiegò
prontamente
il
medico
quando
ormai
erano
sopraggiunti
nel suo
ufficio
“non
sono
neanche
tre anni
che
lavoro
per il
Saint-Loius
e già mi
sono
capitate
tre
gravi
detrazioni
di
sangue
intero
dai
nostri
frighi.
Il mio
sospetto
è che
precedentemente
al mio
arrivo
si
fossero
verificate
altre
sparizioni
misteriose,
ma che
nessuno
le abbia
denunciate”.
“Precisamente
quanto
personale
è
impiegato
in
reparto
e quanti
letti
sono
predisposti
per le
degenze?”
continuò
La
Roche,
mentre
Leroux
ascoltava
con
attenzione.
Il
dottore
si
mostrò
da
subito
disponibile
alla
collaborazione.
Evidentemente
era un
tipo
scrupoloso
e aveva
a cuore
che si
risolvesse
la
questione.
“Vediamo,
dovrei
avere un
plico
con i
numeri
che ci
interessano”.
Dal
cassetto
di una
scrivania
tenuta
morbosamente
in
ordine,
estrasse
un
fascicolo
che
mostrò
enfaticamente.
“Nell’ematologia
adulta,
quindici
posti
letto e
sedici
tra
infermieri
e
dottori;
nell’ematologia
biologica
dove si
effettuano
le
analisi,
quattro
dottori
e sei
assistenti;
nell’ematologia
pediatrica
ventidue
posti
letti,
dodici
infermieri
e otto
medici,
ma
quest’ultima
si trova
nel
padiglione
“Papavero”,
vicino
al
nostro
…”
Pierre
Luc
cercava
in tutti
modi di
stare
attento
alle
parole
del
dottore,
ma due
labbra
rosa
dietro
una
scrivania
adiacente
attiravano
la sua
attenzione.
Gilbert
se ne
accorse
e
fingendo
di
voltarsi
per dare
un’occhiata
alla
stanza,
strattonò
la
spalla
del
tenente,
il quale
mosse le
palpebre
come
ridestato
da un
assopimento
breve,
ma
trasognante.
“Quindi
parecchia
gente ha
accesso
ai
reparti,
senza
considerare
anche
gli
addetti
alla
manutenzione,
il
personale
dell’impresa
di
pulizia,
i
pazienti
e i loro
parenti”.
“Esatto
commissario,
però se
può
esserle
utile,
da
quando è
avvenuto
l’ultimo
furto
sono
riuscito
a far
aumentare
la
sicurezza
tramite
telecamere
ed
allarmi.
Infatti
da quel
momento
non è
successo
più
nulla”.
“Evidentemente
qualcuno
che
entra
abitualmente
in
contatto
con
questa
ala
dell’ospedale,
potrebbe
essere
direttamente
o
indirettamente
implicato
con il
furto!”
“E’
quello
che ho
pensato
anch’io
commissario,
infatti
sto
cercando
di
indagare
un
pochino
sulle
persone
che
hanno
rapporti
quotidiani
o
comunque
frequenti
con noi
…”
Bernard
arrossì
leggermente,
in
imbarazzo
a
decantare
le sue
capacità
di
investigatore
di
fronte
ad un
commissario
famoso
per la
sua
bravura,
ma andò
ugualmente
avanti a
dire
quello
che
pensava
“… sa, è
difficile
che mi
scappi
qualcosa,
deformazione
professionale
credo,
anni
passati
a
studiare,
schedare
dati,
scovare
soluzioni
a nuove
patologie,
mi hanno
reso
estremamente
propenso
alla
ricerca
dell’impossibile
…”
Dalla
luminosa
vetrata
in
faccia a
Gilbert
un
gruppo
di
passeri
cinguettava
allegramente,
non
curante
della
sofferenza
che
traspirava
dai muri
di
quell’edificio
che
tanto
rigogliosamente
li
ospitava.
L’ufficio
del
Dottor
Bernard
dava
proprio
su un
bel
giardino,
il Carrè
de
Saint-Louis,
un
quadrato
verde
con
panchine
sparse,
in cui
era
possibile
trascorrere
un po’
di tempo
all’aperto.
Il
commissario
di tempo
ne aveva
passato
veramente
parecchio
a
guardare
le
fronde
delle
betulle
muoversi
ai tenui
soffi di
vento
estivo,
mentre
pensava
al
padre,
ormai
senza
speranze
nella
sua
camera.
Erano
scorsi
parecchi
anni da
allora,
ma gli
uccellini
che
popolavano
quel
giardino
sembravano
riconoscere
il suono
della
sua
voce,
tanto
acuto
era il
cinguettio
che
emettevano,
quasi
volessero
attrarre
la sua
attenzione,
proprio
come
vent’anni
prima.
Questo
ricordo
lo
trasportò
lontano
dall’ufficio
al
momento
in cui,
uscito
dall’ospedale
dopo
l’avvenuta
morte
del
padre,
era lì
ad
attenderlo
all’ingresso
Adrianne,
bella
come non
mai.
Ripensò
al
vestito
bianco
di lino
che le
lasciava
intravvedere
la
lingerie
intima
di pizzo
bianco e
fu
assalito
da un
brivido
inaspettato
di
piacere.
Per
fortuna
La Roche
intervenne,
smorzando
i
bollenti
spiriti
del
tenebroso
commissario.
“Potremmo
vedere
questi
celebri
frighi
del
sangue?”
“Ma
certo,
seguitemi”.
Le porte
delle
stanze
degenti
erano
quasi
tutte
aperte,
Leroux
cercava
in tutti
modi di
disperdere
lo
sguardo,
ma
nonostante
l’impegno,
non ci
riusciva.
Non
c’erano
più di
due
letti
per
camera.
Il
colore
ocra la
faceva
da
padrone
e
certamente
non
rallegrava
un
ambiente
che già
di per
sé di
felice
non
aveva
proprio
nulla.
Osservò
alcuni
malati
che
discorrevano
sdraiati,
mentre,
ad alto
volume,
la
presentatrice
del Tg
di
France2
blaterava
inascoltata
le sue
notizie.
Si
ricordò
di come
anche
suo
padre
amasse
seguire
lo
stesso
telegiornale,
nonostante
lui
fosse lì
per
chiacchierare.
Finalmente
raggiunsero
una
porta
azzurrognola,
Bernard
tirò
fuori
dalla
tasca un
tessera
magnetica
e digitò
un
codice
su un
dispositivo
situato
sopra la
maniglia
d’acciaio.
Dopo un
bip
prolungato,
la
serratura
scattò e
i tre
poterono
entrare.
La
stanza
era
grossa
ed
illuminata
artificialmente,
lungo il
perimetro
le
frigo-emoteche
si
succedevano
l’un
l’altra
senza
interspazi.
“Alla
vostra
destra
c’è la
serie
BR, le
banche
del
sangue,
per
intenderci.
Ho fatto
sostituire
quelle
che
c’erano
prima
con
queste
che sono
più
sicure,
infatti
sono
dotate
di
chiusura
con
serratura,
allarmi
acustici
e
visivi,
trasmissione
remota
d’allarme
e
memoria
di
allarme
in caso
di
mancanza
di
corrente,
qui a
sinistra,
invece,
ci sono
i
congelatori
rapidi
per
eritrociti
e
plasma,
ma non
dovrebbero
interessarvi
dato che
finora è
sparito
soltanto
il
sangue
intero.
Lì in
alto …”
ed
indicò
un punto
appena
sopra lo
stipite
della
porta “…
una
telecamera
a
circuito
chiuso”.
“Bene”
disse
Pierre
Luc “mi
sembra
che a
sicurezza
ci
siamo!
Potrebbe
aprire
un
frigo?”
Il
dottore
infilò
una
chiave
che
teneva
nel suo
mazzo
personale
e aprì
la
serratura,
all’interno
pile di
sacche
tutte
etichettate
per
gruppo e
data di
immissione
erano
conservate
ad una
temperatura
compresa
tra i
due ed i
sei
gradi
centigradi.
Il
commissario
ne prese
una in
mano,
era
fredda e
sembrava
contenere
colla
liquida.
“Dunque
solo lei
possiede
la
chiave,
giusto?”
“Sì
commissario.
Prima
però,
chiunque,
una
volta
aperta
la porta
principale
dotata
di
serratura
normale,
poteva
accedere!”
“Potremmo
avere
una
copia
delle
registrazioni
delle
telecamere
a
circuito
chiuso?”
“Potrei
farvele
avere al
più
presto
se
riteniate
possano
esservi
utili.
Ma le
ripeto
che
ultimamente
non è
più
successo
nulla”.
“Le
vorremmo
ugualmente.
Grazie
per la
disponibilità,
ci
faremo
vivi
presto”.
Si
stavano
ormai
allontanando
quando
La Roche
notò
tre,
quattro
scatole
blu
appoggiate
per
terra in
un
angolo.
“E
quelle
cosa
sono?”
“Ah,
sono i
contenitori
per il
trasporto,
ne
abbiamo
anche di
quelli
refrigerati
per le
lunghe
percorrenze”.
“Quindi
si
possono
fare
viaggi
lunghi
senza
utilizzare
l’aereo
ed
evitare
così i
controlli”.
“Certamente,
anche in
treno
per
esempio”.
Gilbert
riesaminò
mentalmente
ogni
singolo
dettaglio
di
quello
che
aveva
appena
visto,
ripensò
al
rigore
di
Bernard,
alla
telecamera
a
circuito
chiuso,
al
sangue
di
chissà
quale
essere
umano
che
aveva
tenuto
nelle
sue
mani.
“Ah … ok,
la
saluto,
a
presto”
disse il
tenente.
Uscirono
con le
idee
meno
chiare
di
quando
erano
entrati.
Arrivati
alla
macchina
Gilbert
disse:
“Adesso
portami
davanti
al liceo
Montaigne,
oggi è
il
compleanno
di
Adrianne
e ho
voglia
di farle
una
sorpresa!”
IV
L’ospedale
San
Paolo
era
situato
su
un’altura
da cui
si
poteva
godere
dell’intera
visuale
del
porto.
Aveva un
ingresso
a porte
scorrevoli
che
davano
accesso
ad un
atrio
con un
lungo
bancone
nel
mezzo.
Quattro
operatori
fornivano
informazioni
alle
persone
che via
via si
avvicendavano
con un
flusso
del
tutto
irregolare.
Maurizio
si
presentò
come un
amico
del
dottor
Arvieri.
L’uomo
piccolo
e
brizzolato
che si
trovò di
fronte
aveva
un’espressione
simpatica
ed un
aspetto
buffo,
che
influenzava
positivamente
chiunque
gli
parlasse.
Con la
sua voce
da
papera
disse
che il
dottore
era
ricoverato
in
terapia
intensiva,
e indicò
brevemente
il
percorso
per
raggiungere
il
reparto.
Passando
difronte
al bar,
Maurizio
vide un
gruppo
di
uomini
con il
camice
bianco e
i tipici
zoccoli
traspiranti.
Fu
assalito
dal
nostalgico
ricordo
di
quando
anche
lui,
allora
studente
universitario,
si
camuffava
tra il
personale
medico.
Nostalgia
che si
tramutò
in
rabbia
quando
visualizzò
mentalmente
la
faccia
goduta
del
rettore
dell’università
di
Genova,
l’unico
responsabile
di
quella
punizione
troppo
severa e
a solo
scopo
dimostrativo
che gli
era
stata
inferta.
L’espulsione
dal
corso di
studi di
uno
studente
così
brillante
e
competitivo
era
stata
una vera
ingiustizia,
forse un
futuro
danno
per la
società.
Allontanò
questo
pensiero
perché
si rese
conto
che non
l’avrebbe
condotto
a niente
e,
mentre
attraversava
i lunghi
corridoi
ospedalieri,
cercò di
rilassarsi
e di
isolarsi
dal
mondo
circostante.
Canticchiando
sottovoce
la
grandiosa
sonata
Chiaro
di Luna
di
Beethoven,
mentre
scorreva
stanze
di
sofferenza
con
malati
anche
molto
gravi e
parenti
più o
meno
sinceri
nella
loro
compassione,
si rese
conto di
essere
innamorato
proprio
di
quella
parte
più
folle
del suo
essere,
quella
che
spesso
presagiva
un’intuizione
geniale
di pura
creatività.
Era in
perfetta
forma e
non
capiva
il
motivo
di
quell’eccitazione
improvvisa.
Si
trattenne
dal
ridere
estasiato
dall’elevazione
del suo
stato
mentale,
ma non
cercò di
controllarsi
oltre,
scivolando
curioso
nelle
strane
vicissitudini
della
sua
vita. La
sonata
era un
pezzo
per
pianoforte
che
amava
moltissimo,
anche
perché
aveva
impiegato
un anno
per
riuscire
ad
eseguirla
alla
perfezione,
con quel
vecchio
strumento
acquistato
per
pochi
soldi da
un’anziana
vicina
di casa
che,
altrimenti,
l’avrebbe
buttato
via.
Il
reparto
di
terapia
intensiva
non era
un luogo
dove
passeggiare
spensierati.
Maurizio
si
rivolse
ad
un’infermiera
per
avere
delle
informazioni
su
Arvieri.
Un
dottore
poco
distante
e con in
mano una
cartella
clinica,
gli
venne
incontro.
“Buongiorno,
sono il
dottor
Franco
Moncalvo,
lei è un
parente?”
“Buongiorno
dottore.
Sono un
amico
del
dottor
Roberto.
Vorrei
sapere
come
sta”
rispose
Maurizio,
mentendo
sul suo
rapporto
con il
paziente
al
semplice
scopo di
semplificare
quella
conversazione.
“Di
solito
comunico
informazioni
sullo
stato di
salute
dei
degenti
solo ai
familiari,
ma, dato
che fino
ad ora
lei è
l’unica
persona
che è
venuta
per far
visita
al
malato,
questa
volta
farò
un’eccezione
…”
Moncalvo
fece un
lungo
sospiro
e il suo
sguardo
si fece
più
concentrato
e con la
fronte
corrugata
“… il
corpo
estraneo
estratto
dal
paziente
non ha
lesionato
nessun
organo
interno,
il solo
muscolo
addominale
era
perforato.
Nonostante
ciò, mi
dispiace
doverle
comunicare
che il
suo
amico ha
riportato
anche un
grave
trauma
cranico,
che è la
causa
dello
stato di
coma
profondo
in cui
si
trova.
L’intervento
chirurgico
è stato
necessario
per
rimuovere
un
grosso
ematoma”.
“Ci sono
possibilità
di
ripresa?”
“Sarò
sincero,
non
vorrei
risultare
brutale
dicendole
che
nella
migliore
delle
ipotesi
il suo
amico
potrebbe
risvegliarsi,
ma le
conseguenze
saranno
gravi.
Visto il
danno
celebrale,
sarà
impossibile
un
recupero
completo
e le
difficoltà
motorie,
intellettive
e
psichiche
risulteranno
permanenti.
La
durata
del coma
è
impossibile
da
determinare
e il
risveglio
potrebbe
portare
ad uno
stato
vegetativo
continuativo”.
Maurizio
si rese
conto
che non
stava
fingendo
di
essere
interessato
e
dispiaciuto.
Il suo
sentimento
era
autentico,
stavano
pur
sempre
parlando
di un
essere
umano
fatto di
emozioni
e
desideri.
Moncalvo,
infine,
indicò
la
stanza
alla
loro
destra e
diede
commiato
dopo una
silenziosa
stretta
di mano
con
pacca
sulla
spalla.
Roberto
Arvieri
sembrava
morto.
Era
bianco
in volto
e nero
sotto
gli
occhi.
Un
respiratore
automatico
garantiva
il
giusto
afflusso
d’aria e
un
monitor
controllava
continuamente
i suoi
parametri
vitali.
La testa
era
completamente
fasciata.
Un
lenzuolo
bianco
era
macchiato
di
sangue
in
alcuni
punti e
lo
copriva
da collo
a piedi,
lasciando
intravedere
il
rigonfiamento
delle
fasciature
sparse
qua e là
su tutto
il
corpo.
La barba
cominciava
a
spuntare
e,
nonostante
il
pallore,
conferiva
al viso
dei
lineamenti
simili a
quelli
di
Maurizio.
Era
triste
pensare
che quel
giovane
uomo
fosse
così
solo in
un
momento
del
genere,
chissà
se era
in grado
di
avvertire
la
presenza
delle
persone
intorno
a lui.
Il
silenzio
angosciante
veniva
interrotto
solo dal
rumore
regolare
dell’unità
di
pompaggio
pneumatico
del
respiratore
automatico
in
funzione.
Perso
nei
meandri
delle
sue
riflessioni
a
proposito
della
totale
assenza
di
stabilità
nell’esistenza
umana,
un’alternanza
di
eventi
incontrollati
di varia
natura,
Maurizio
pensò
che
l’egoismo
a volte
fosse
una
virtù
più che
un
peccato.
Acchiappare
la vita
e godere
pienamente
di ciò
che ha
da
offrire,
sfruttando
le
occasioni
che si
presentano.
Amava
l’idea
di non
controllarsi,
ma
piuttosto
di
vivere
d’istinto,
senza
temere
di
essere
trascinato
dalla
corrente
del
fiume
della
casualità.
Sapeva
di
essere
giovane,
ma in
lui
cresceva
la
consapevolezza
del
trascorrere
inarrestabile
del
tempo e
la
voglia
di
sentirsi
realizzato.
Si alzò
di
scatto,
rivolse
un
ultimo
sguardo
a quel
volto
che non
avrebbe
più
avuto la
vitalità
di un
tempo, e
uscì
dalla
stanza.
Nel
corridoio
di
reparto
non
c’era
più
nessuno
del
personale
sanitario,
solo
alcune
persone
in
visita
ai
malati.
“Salve,
è questa
la
stanza
del
dottor
Arvieri?”
chiese
una
donna di
mezza
età.
“Sì. Lei
è della
famiglia?”
“No,
sono una
collega
del
centro
trasfusionale.
Appena
ho
saputo
mi sono
precipitata
… è un
così
caro
ragazzo
Roberto.
Mi sono
chiesta
se
potessi
fare
qualcosa,
anche se
in
questi
casi si
può solo
aspettare”.
“Io mi
trovavo
sul
luogo
dell’incidente
e subito
dopo lo
schianto
ho
chiamato
l’ambulanza.
Non l’ho
mai
conosciuto”.
Maurizio
si sentì
gratificato
dalla
presenza
di
quella
donna
dall’aria
protettiva.
“Immagino
che non
si sia
presentato
nessun
parente,
nessun
amico?”
“Sono
convinto
che
abbia
ragione”.
“Conosco
il
dottor
Arvieri
da circa
due anni
e mi
rendo
conto di
non
sapere
praticamente
niente
di lui.
E’
sempre
stata
una
persona
molto
riservata.
Ogni
volta
che
qualcuno
ha
tentato
di
penetrare
un po’
nella
sua vita
personale,
lui si è
sempre
allontanato
dicendo
che il
lavoro
era
soltanto
lavoro.
A molte
persone
non
piaceva.
A me è
sempre
sembrato
un
tenero
ragazzo.
In lui
rivedo
tanto il
mio
povero
Simone,
sarà per
questo
che ho
sempre
avuto un
debole
per
Roberto.
E’
impossibile
accettare
la morte
di un
figlio”.
“Immagino
che sia
normale”
intervenne
Maurizio
che non
sapeva
più cosa
dire.
“Ma le
mie
torte
alla
frutta
non le
ha mai
rifiutate.
Va matto
per
quella
con la
crema
pasticcera,
i
lamponi
e le
more. I
miei
dolci
sono
stati
l’unico
punto di
contatto
con il
mondo
privato
del
dottore”.
La donna
non
finiva
più di
parlare.
Era
palese
che i
momenti
di
sofferenza
che
aveva
vissuto
per il
figlio
mancato
l’avevano
profondamente
segnata.
Se
veramente
la vita
del
dottor
Arvieri
era così
carente
di
rapporti
umani,
avere
vicino
una
persona
bisognosa
di
aiutare,
di
esternare
calore
materno,
era
proprio
ciò di
cui
aveva
bisogno
in quel
momento.
Quando
Maurizio
uscì
dall’ospedale,
si rese
conto
che si
era
fatto
coinvolgere
troppo
emotivamente,
sia dal
malato
in coma
che
dall’infermiera
in
visita
al
dottore,
al punto
di
dimenticare
di
lasciare
il
portafoglio
al
legittimo
proprietario.
Si girò
indietro
per
rientrare,
ma
l’immagine
della
stanza
di
terapia
intensiva,
che
visualizzava
ancora
nitida
nella
sua
mente,
era
troppo
opprimente
rispetto
alla
libertà
di
camminare
via
lontano
da quel
luogo.
Si
ritrovò
a
riflettere
perso
nel
grigioblu
di quel
mare
burrascoso.
Aveva
iniziato
a
camminare,
finendo
per
ritrovarsi
nella
darsena.
Di
turisti
in giro
se ne
vedevano
pochi.
Sentì il
peso
della
testa
ricurva
verso il
basso,
quasi si
staccasse
dal
corpo
per
cadere
giù,
nell’acqua
del
canale
che dava
l’accesso
al mare
aperto.
Energiche
folate
di vento
davano
vita ad
un
concerto
di
barche a
vela
tintinnanti,
e
mettevano
a dura
prova la
resistenza
di quel
ponte
levatoio
di legno
scricchiolante.
Si
ricordò
dell’appuntamento
a cena
con la
bellissima
Cristina
e
fantasticò
immaginando
il dopo
cena.
Maurizio
si
sentiva
realmente
attratto
da
quella
ragazza,
sapeva
troppo
di
buono.
Sperava
di poter
prima
baciare
quelle
succulenti
labbra
avvinghiandosi
a lei
nell’intimità
del suo
appartamento,
per poi
trascorrere
insieme
tutta la
notte.
Queste
sensazioni
lo
riscaldarono
da un
vento
non
molto
piacevole.
Si
staccò
dal
corrimano
del
piccolo
ponte
sul
porto e
prese a
camminare
per il
lungomare,
in
direzione
di
Albissola
Marina.
I rumori
della
città
erano
tenuti
lontani
da quel
forte
soffiare
che
rendeva
faticoso
il volo
di
esperti
aviatori
come i
gabbiani.
Una
nebulosa
di acqua
salmastra
si
levava
dal mare
verso di
lui. Il
panorama
umido
bagnato
lo fece
rabbrividire.
Passò la
lingua
sulle
labbra e
assaporò
il gusto
salato
di
quella
terra.
Il suo
sguardo
si
focalizzò
sugli
oblò di
una nave
che,
come
piccoli
occhi,
lo
stavano
spiando,
mentre,
dall’alto,
facce
sorridenti
salutavano
parenti
ed
amici.
Il mondo
andava
avanti
con la
sua
egoistica
temporanea
felicità.
L’energico
boato
della
partenza
sancì
l’inizio
di una
nuova
prospettiva
di vita,
la
consapevolezza
di poter
cambiare
qualcosa.
Maurizio
aveva
fatto
sua la
legge
dell’homo
homini
lupus
già nei
primi
anni di
vita, ed
era
convinto
che
quella
frase
fosse
perfetta
per
giustificare
tutti
quei
comportamenti
che
conducevano
un uomo
a
prendere
decisioni
estreme
e
crudeli
per un
fine
superiore,
o per
puro
egoistico
istinto
di
sopravvivenza.
Per un
momento
si sentì
ad un
bivio
che
poteva
dare una
svolta
alla sua
esistenza.
Avvertì
un forte
nodo
alla
gola e
fu
assalito
da
un’ansia
che andò
gradualmente
tramutando
in
eccitazione
mista a
brivido.
Doveva
mantenere
il
controllo
della
situazione.
La testa
era
un’esplosione
di
pensieri
e
ipotesi
su come
avrebbe
potuto
essere
il suo
futuro.
La sua
vita era
sempre
stata
tormentata,
spesso
aveva
commesso
dei
piccoli
reati,
fino a
quando
quell’eredità
aveva
dato
inizio
ad un
periodo
di
rinnovamento
e di
stabilità
sia
economica
che
familiare
e
sociale.
Ma il
passato
si era
insinuato
dentro
di lui e
aveva
solcato
di
inchiostro
indelebile
quello
che era
il
sentiero
del suo
destino,
creando
dei
modelli
di
comportamento
pronti
all’uso
in caso
di
emergenza
e
difficili
da
estirpare.
Si
riempì
il
polmoni
d’aria
ed
espirò
lentamente
sforzandosi
al tempo
stesso
di fare
chiarezza
nella
sua
testa.
La
vocina
nel suo
cervello
lo
stuzzicava
e, piano
piano,
l’idea
prese
corpo e
divenne
decisione:
“Sarò il
dottor
Roberto
Arvieri”.
Quella
giovane
vita non
poteva
essere
stroncata
in
maniera
così
brutale,
meritava
di
continuare
ad
esistere,
così
come
quella
laurea
valeva
la pena
di
essere
sfruttata.
Si sentì
un
giustiziere
del
destino
oppure,
più
semplicemente,
si
giustificava
con la
propria
coscienza
per
quello
che
avrebbe
finito
per
fare…