Nel 1755 compariva a Genova, in due volumi, "Ra Gerusalemme deliverà dro Signor Torquato Tasso traduta in lengua zeneize", una versione in genovese del capolavoro tassiano, ad opera di un'equipe di letterati cittadini, diretti dal poeta Stefano De Franchi. Si tratta di un lavoro curioso ed insolito, poiché gli autori non intesero eseguire una fedele traduzione della Gerusalemme, come nel secolo successivo il Padre Federico Gazzo avrebbe tradotto integralmente la Divina Commedia, ma neppure una parodia, un travestimento burlesco, come già ne esistevano in vari dialetti italiani. I letterati settecenteschi vollero invece rispettare sostanzialmente gli intendimenti e la struttura narrativa dell'opera del Tasso, ma nello stesso tempo ri-crearla da un punto di vista "genovese"; l'intero poema cavalleresco è così riscritto come avrebbe potuto raccontarlo un genovese di allora. Nei traduttori non mancò neppure l'intendimento di emulare e superare le traduzioni già apparse fino ad allora in altri dialetti italiani, come si evince da un sonetto prefatorio, che ad un certo punto afferma:

"Ro Dottô, Pantalon, Xanni e Coviello
ro Tasso han sbarattaòu tutti in buffon,
e son stæti piaxùi da quest'e quello;

aoura se à dî bon'ombre è bello e bon
ro Caporâ Zeneize Darseniello
o starà à vei chi passa à ro barcon?"

Come dire che se le altre traduzioni, in bolognese (ro Dottô), in veneziano (Pantalon), in bergamasco (Xanni ), in napoletano (Coviello), hanno cambiato il Tasso in un buffone e hanno riscosso successo, la maschera genovese del Caporale, non poteva rimanere indietro, capace com'è anche lui di dire spiritosaggini. A dispetto di tale premessa, l'intonazione comica affiora solo di tanto in tanto, nella Gerusalemme in genovese, restando essa in genere molto al di sopra di altri tentativi analoghi, tipici di un dialettalismo riflesso e tutto sommato poco interessante; infatti, si può affermare che l'intera operazione si inscrive nel complesso lavoro intrapreso dal De Franchi per arricchire la letteratura di espressione genovese di opere valide e aggiornate, in un'ottica di esaltazione della patria genovese. In un'epoca di sostanziale decadenza politica per la Repubblica di Genova, quale fu il XVIII secolo, alcuni intellettuali avvertirono la necessità di ricompattare le classi sociali attorno alla nobiltà, rinfocolando il sentimento patriottico; a tale scopo, la letteratura in genovese poté sembrare uno strumento particolarmente idoneo, per l'uso identitario che ne era stato fatto nel corso dei secoli. Il De Franchi volle così essere il poeta della "Naçion Zeneise", propugnando tra l'altro moderate correzioni ad un assetto sociale e politico secolare ormai sclerotico, cui rivolge moderatissime critiche nelle sue commedie. Quella del De Franchi era certo una concezione dello Stato fortemente paternalista, ma lo stile presuntamente popolare in cui la espresse non mancò di influenzare numerosi autori, la maggior parte anonimi e di ispirazione giacobina, che sarebbero apparsi alla fine del secolo.
Quanto alla traduzione della "Gerusalemme", il movente politico è da ricercarsi in particolare nell'esaltazione del fondamentale contributo recato a suo tempo dai Genovesi alla riconquista della Terra Santa, su cui era già fiorita tutta una serie di leggende e tradizioni, legate alla figura di Guglielmo Embriaco, "il duce ligure, che pria / signor de' mari corseggiar solìa."
Rispettando rigorosamente lo stesso numero di ottave dell'originale, sette diversi poeti, Stefano De Franchi, Ambrogio Conti, Gaetano Gallino, Paolo Toso, Giacomo Guidi, Gian Agostino Gastaldi, Francesco Maria Viceti, diedero la loro versione dei venti canti della "Gerusalemme Liberata", a volte mantenendosi molti aderenti al testo, a volte abbassandone i toni per mantenersi fedeli ad uno spirito ligure tutto concretezza e praticità, a volte ancora creando momenti di poesia del tutto nuovi.
Si vedano le ottave in cui viene rievocata la figura di Colombo (XV, 31-32) nella versione di Ambrogio Conti:



 
 
 
 

Un de testa e de coeu vero Zeneize
se metterà ro primmo a sto çimento,
nì sûô, nì perigo, nì conteize
d'arie diverse, o sferradoì de vento
a st'ommo fæto apposta per st'impreize
ghe metteran ro minimo spavento.
Lê sciortirà da tutto, e per sò groria
Zena averà de ciù sta gran memoria.

Ah, Corombo, Corombo! Ti ti ê quello,
a chi deve toccâ sta bella sciorte:
ti svoeureræ per chì comm'un'oxello:
te laoderà ra famma in vitta e in morte;
a ti te toccherà sto bell'anello,
d'Ercole e Bacco t'arviræ re porte.
Dirà ro tempo sempre andando approeuvo:
Corombo ha azonto a un mondo un mondo noeuvo.
 


Un tale, vero genovese di cervello e di coraggio, 
si metterà per primo a tale prova, 
né sudore, né pericolo, né conflitti 
di correnti diverse,  o venti furiosi 
metteranno il minimo spavento 
a quest'uomo fatto apposta per tali imprese. 
Lui uscirà da tutto, e per sua gloria
Genova avrà in più questa gran memoria. 

Ah, Colombo, Colombo! Tu sei quello, 
cui deve toccare questa bella sorte; 
tu trasvolerai da qui come un uccello; 
ti loderà la fama in vita e in morte; 
a te toccherà questo bell'anello, 
di Ercole e Bacco aprirai le porte. 
Dirà il tempo futuro: 
Colombo ha aggiunto a un mondo un mondo nuovo.

 

Nel canto VII tradotto da Stefano De Franchi, la similitudine delle anguille catturate nelle valli di Comacchio viene resa più vicina all'esperienza dei genovesi, con un'ambientazione rivierasca, facendo riferimento alla tonnara di Portofino.

Giusto comme là verso Portofin,
ri tonni intr'a marinn-a fan bombæa,
accompagnæ da un stroeuppo de Delfin,
che ri pòrtan prexon là intr'a tonnæa;
e comme ri han ghiæ, fin a i confin,
ri lascian sença accorzese in bregæa;
e coscì lì serræ bon pro ghe fasse,
poeuran sunnâ luçia con quattro casse.
Proprio come laggiù verso Portofino,
i tonni in mare si accumulano,
accompagnati da una torma di delfini,
che li portano prigionieri nella tonnara;
e appena li hanno guidati fino ai confini,
li lasciano nella rete senza che se ne accorgano;
e così lì chiusi, buon pro gli faccia,
possono suonare la lucia con quattro mestoli.

Dal canto XII (ott. 62-69) la morte di Clorinda, nella versione di Paolo Toso, dove la drammaticità della situazione è resa correttamente, con profondo sentimento:
 
 

Torna l'odio intr'i coeu, e ri trasporta
senza poei ciù stâ drïti à ra battaggia,
dove l'arte, e ra forza è quæxi morta,
dove combatte in loeugo sò ra raggia.
O quanto grande e spaventosa porta
fa l'unna, e l'âtra spâ, s'a ponze, o taggia
re arme, o pù ra carne! e se non moeuran
l'é che ro sdegno e ro venin non voeuran.

Comme ro mâ, quando çessaòu ro vento,
che primma ro scommosse in âto in basso,
non se queta però, ma ro spavento
conserva ancon dro moto, e dro fracasso;
così quantunque con ro sangue spento
allò ghe manche ro vigô dro brasso;
pù dall'ira animæ tornan sti chìe
a refâ ciù profonde re ferìe.

Ma zoeu moæ arriva ro fatale fin
a ra brava Clorinda destinaou.
Ra spâ ghe ficca in mezo dri tettin,
che in passâri se fa de sangue un sciaou,
e ro vestî traponto d'oro fin
tutto resta de questo imbernissaou.
Ra poveretta, che sta in pê ciù appenna
ro coeu sente mancâse, e ghe ven penna.

Lê segue ra vittoria, e de tâ menna,
strenze Clorinda senza usâ pietæ,
che ra meschinna cazze, e poeu ciù appenna
l'ùrtima profferî sò vorentæ,
che allora in mente un bon penscêo ghe menna
de Fede, de Speranza e Caritæ,
Virtù, che Dio gh'infonde, e se unna liggia
fu mentre a visse, ra voeu in morte figgia.

Te daggo ro perdon: ti hæ vinto, amigo:
perdonname ti assì: non ro demando
per questo corpo, che n'importa un figo,
l'annima sola mi te raccomando,
dagghe battæsmo, e lévera d'intrigo.
In questa voxe, che lê va formando
o sente un non so che, che l'odio franze,
e fa che questo se converte in cianze.

Poco lontan de lì scorre da un monte
tutto fresco d'argento un rianetto:
gh'andò Tancredi e l'elmo impì intr'ro fonte,
e tornò a fâ l'uffizio benedetto
sentì tremâ ra man, mentre d'in fronte,
per battezzâra ghe levò l'elmetto.
Ra vidde, ra conobbe: ah, restò senza
e voxe e moto! Ah, vista! Ah, conoscenza!

Non morì zà, che tutta in quell'instante
ra forza addoeuverò che ghe restava,
e se misse unna vitta ciù constante
a dâ con l'ægua a chi ra morte o dava;
mentre che o dixe re parolle sante,
lê tutta d'allegrezza giubbilava,
e pâ, che tanto de morî ghe piaxe,
che a dixe, votta in çê, mi vaggo in paxe.

Ra pallidezza sciù ra gianca cera
pâ un intreçço de livii, e viovetta.
In çê a ten fissi ri oeuggi, e ra carera
ro Sô per veira in poco manco affretta:
e verso quello alzando in ra manera
che a poeu ra bella man freida, e smortetta,
ghe dà pegno de paxe, e in queste forme
passa ra bella donna e pâ ch'a dorme.
 
 

Torna l'odio nei cuori e li trasporta / anche se non si reggono più, alla battaglia, / dove l'arte e la forza son quasi morte / e al loro posto combatte la rabbia. / O quanto grande e spaventosa porta / fa l'una e l'altra spada, se punge o taglia / le armi, o la carne! e se non muoiono / è perché lo sdegno e l'ira non vogliono. // Come il mare, quando cessa il vento, / che prima lo sconvolse in alto e in basso, / non s'acquieta però, ma lo spavento / conserva ancora del moto e del fracasso; / così, quantunque con il sangue spento / prima che gli manchi il valore del braccio; / pur dall'ira animati tornano costoro 7 a rifare più profonde le ferite. // Ma ormai arriva la fatale fine / destinata alla brava Clorinda. / La spada le ficca in mezzo alle mammelle, / e trapassandole si fa un fiotto di sangue, / e il vestito trapunto d'oro fino / ne rimane tutto insudiciato. / La poveretta, che si regge appena, / sente che il cuore le manca e soffre. // Lui persegue la vittoria e in tal modo / stringe Clorinda senza usare pietà, / che la misera cade, e può solo più / esprimere la sua ultima volontà, / poiché allora in mente un buon pensiero le porta / di Fede, Speranza e Carità, / Virtù, che Dio le infonde, e se scapestrata / fu mentre visse, la vuole in morte innocente. // Ti dò il perdono: hai vinto, amico: / perdonami anche tu: non lo domando / per questo corpo, che non conta nulla, / l'anima sola io ti raccomando, / dalle il battesimo e liberala. / In questa voce, che lei va formando, / lui sente un non so che, che infrange l'odio, / e fa che  questo si converta in piangere. // Poco lontano da lì scorre da un monte / tutto fresco d'argento un ruscelletto: / vi andò Tancredi e l'elmo riempì nel fonte / e tornò a compiere l'ufficio benedetto / sentì tremare la mano, mentre dalla fronte / per battezzarla le levò l'elmetto. / La vide, la riconobbe: ah, restò senza / voce e movimento! Ah, vista! Ah, conoscenza! // Non morì già, che tutta in quell'istante / adoperò la forza che gli restava, / e si mise una vita più costante / a dare con l'acqua a colei cui dava la morte; / mentre dice le parole sante, / lei giubilava tutta d'allegrezza, / e sembra che tanto le piaccia di morire, / che dice rivolta al cielo: io vado in pace. // La pallidezza sul viso bianco / sembra un intreccio di gigli e di violetta. / In cielo tiene fissi gli occhi, e la strada / il Sole per vederla in poco meno affretta; / e verso quello alzando, nel modo / che può, la bella mano fredda e palliduccia, / gli dà pegno di pace, e in queste forme / trapassa la bella donna e sembra che dorma.





Antologia Genovese