Gio. Francesco Castagnola

Gesuita lavagnese, noto anche come storico e autore di un'opera sulla cometa del 1664, nel poemetto L'arrivo in Vuoè dell'Armà de Franza rievoca il bombardamento di Genova, avvenuto nel 1684, ad opera della flotta francese. Una questione di precedenza nel saluto fra navi delle due nazioni aveva offerto al Re Sole il destro per umiliare la piccola e orgogliosa repubblica genovese, con la quale erano sorti da tempo dissapori e contenziosi di vario genere. Genova non cedette, navi spagnole giunsero in suo soccorso, e i francesi dovettero allontanarsi. Tuttavia l'anno successivo, in una mutata situazione politica, il Doge Lercari dovette recarsi a Versailles per rendere omaggio al Re e presentargli le sue scuse. Peraltro ricevuto con tutti gli onori, in mezzo al fasto della reggia, gli fu chiesto che cosa in quel luogo lo avesse meravigliato di più. Egli rispose con un'espressione passata poi quasi in proverbio: Mi chì. I Dogi, infatti, per tutto il tempo del loro mandato, non ponevano mai il piede fuori da Palazzo.



L'arrivo in Vuoè dell'armà de Franza
- Ziena insendià da ra mesma


Vegne donca ra seira, e à ben che andeto
fosse sotta ro sò, parve o nascesse
stante che dra sò luxe ro retreto
pareiva Zena, che de sciamme ardesse.
Sacrilego ro fuoego pre despeto
finna re giexe devorà voresse,
re moneghe fuzin da ri conventi,
né fun tampoco sarvi i Sacramenti. 

Cossì Monsù Duchene i scaccorotti
fava con ri compagni; e ra sò setta
brindando o venerdì, rompendo gotti
stimava a o sabbo vei Ziena soggetta.
Ma ra festa dri perfidi Ugonotti
che no hebban ni servello ni berretta
strinò ben San Lorenzo e ro Paraso
e a ne dette dapuoe derré dro naso.

 

Venne dunque la sera, e benché il sole
fosse tramontato, parve che nascesse
poiché Genova sembrava il ritratto
della sua luce, ardendo tra le fiamme.
Sacrilego il fuoco per dispetto
volle divorare persino le chiese,
le monache fuggirono dai conventi,
e neppure furono salvi i Sacramenti.

Così Monsieur Duquesne giocava con i compagni
a chi sputava più lontano; e la sua setta
brindando il venerdì, rompendo bicchieri
stimava vedere Genova soggetta il sabato.
E la festa dei perfidi Ugonotti,
gente senza cervello,
bruciacchiò bene San Lorenzo e Palazzo
e ci dette non poche preoccupazioni.

 


 
Dopo aver lanciato seimila bombe,
l'ammiraglio Seignalay, 
ostentando compassione, 
manda un'ambasceria al Doge:

Monsù de Segnalè, chi è bravo e pio
patisce assè de vei tanto farò
dentro de Ziena; timoròu de Dio
non lascia de ciù fà quello ch'o pò.
Voi vei che chi n'à rotto ha zà scroscio
e mesa ra cittè s'insendiò.
Per urtima pietè lié ve proponne
de vorreive piggià ma con re bonne.

Ro Duxe disse de no poei responde
no essendo ciù dri atri ra sò balla,
che tanta cortexia ro confonde
ni o vorreiva da lè, tà peiso in spalla,
ma pe amostrà quanto gh'abbonde
ra bonna vorentè, che moè non falla
in ri Zeneixi, o ciamerè conseggio
pre resciorve deman tutti a belleggio.

Ò resposta da Duxe in vero degna
che ra porten in stampa d'intro cuoe
i boin Repubrichisti; e pre l'insegna
che chi sa destrezà, fa cos'o vuoe.
Inteisan ri nemixi dra sardegna
che tanto a nobiltè quanto ro puoe
no temeivan sentise a bombezà
e pù vossan ancon ra zointa fà.
 


 

Monsieur de Seignalay, coraggioso e pio,
soffre assai nel vedere un tale falò
in Genova; timorato di Dio non tralascia 
di fare quel che può per evitarlo.
Voi vedete che chi non ha colpa ci ha 
già rimesso e mezza città s'incendiò.
Quale ultimo atto di pietà lui vi propone
di arrendervi con le buone.

Il Doge disse di non poter rispondere
poiché il suo voto non valeva più degli altri,
che tanta cortesia lo confondeva,
ma non voleva assumersi una tale responsabilità,
ma per mostrare quanto abbondi in lui
la buona volontà, che mai non manca
nei Genovesi, convocherebbe il Consiglio
domani, per risolvere al meglio.

Oh, risposta veramente degna d'un Doge,
che i buoni repubblichisti portino stampata 
nel cuore; e quale insegnamento
che chi sa destreggiarsi fa ciò che vuole.
I nemici intesero l'antifona:
che la nobiltà, per quanto può,
non teme di sentirsi bombardare
eppure vollero ancora fare una giunta.


 
Accrescen ra demanda dri atre votte
con miggee de franchi per re speise
quasi à Zena vegnissen d'India frotte
comme in tributo dra nation franseise;
pretendeivan cannoin, e remmi, e scotte
pe re quattro galee, e che ogni arteise
ambisse de servì pre bonna vuoeggia
con ro sà de gabella senza duoeggia.

Ra mattinn-a seguente, che de marte
a ro nomme è dedicà, ro conseggetto
se misse insemme; descrovin re carte
hagiando i conseggé vario consetto:
atri voreivan tempo, e con grand'arte
mostrando de studià finze respetto
a ra proposition: però ri ciù
resorsan de responde a ro monsù

ch'era insolita forma de trattà
pre parte d'un Gran Re con tale istanza
che assende ira ben sì, pe o bombardà
ma che tremmà no fava ra costanza
dra Repubrica nostra appareggià
de fase retaggià prima ra panza
o tutta fuoego in senere morì
ch'a i troin, comm'unna serva partorì.

Accrebbero la domanda delle altre volte
con migliaia di franchi per le spese
quasi che a Genova venissero dall'India flotte
quale tributo alla nazione francese;
pretendevano cannoni, e remi, e scotte
per le quattro galee, e che ogni artigiano
servisse da galeotto
pagando le gabelle senza fiatare.

La mattina seguente, che era martedì,
il consiglietto si adunò; si scoprirono le carte
essendovi consiglieri di diverso parere;
alcuni volevano prendere tempo,
e con grand'arte mostrando di studiare
fingere rispetto alla richiesta: però i più
risolsero di rispondere al monsieur

ch'era insolita forma di trattare
da parte d'un gran re, con tale istanza
che accende bensì ira, per il bombardamento,
ma che non faceva tremare la costanza
della Repubblica nostra, ormai pronta
a farsi sventrare, o tutta fuoco morire in cenere
piuttosto che partorire al rumore dei tuoni,
come una serva.


 
Altre settemila bombe cadono 
sulla città. Finite le munizioni, 
e giunta in prossimità di Genova 
la flotta spagnola, 
i francesi si devono allontanare.

Cari spagnolli, mi ve voeuggio ben,
perchè sei valentommi, e cavaggeri,
no ve posso lodà quanto conven
ma sò che sei catolichi dri veri
a deferenza d'esti barbagen
Barbari, o see Turchin sempre ciù fieri,
che ai vintoeutto dro dito abbandonan
l'impreisa con dre mosche solo in man.

Non è miga che lò no fessan tutti
ri sforzi suoe per puei da fane cazze;
monti de lò a sbarcase fuin redutti
de Besagno, e Ponseivea in sciù re ciazze
stimando a nozze andà ri farabutti
tutt'atro ghe trovan che fighe pazze,
che ra gente, e ri scerti dre valadde,
ghe re ficcan sì ben, che dì n'accadde.

Ma ro veise mancà ciù d'un franseise
l'hora, e de bombe zuoemoè esse zenziggi,
conturbase ro tempo, e non doveise
con ra marinna assimentà ri ziggi:
noì forti in libertè scrignà ri offeise
de chi ne fè figiastri, e non zà figgi
dra Repubrica nostra hebbe a vantaggio
l'armà co'e veie in sacco a fà viaggio.


 
 
 

Cari spagnoli, io vi voglio bene,
perché siete valentuomini e cavalieri,
non vi posso lodare quanto conviene
ma so che siete veri cattolici
a differenza di questi barbagianni
barbari, ossia Turchi sempre più feroci
che il ventotto del detto mese abbandonarono
l'impresa con un pugno di mosche.

Non che loro non facessero tutti
gli sforzi possibili per farci cadere;
molti di loro vollero sbarcare
sulle spiagge di Bisagno e Polcevera
credendo i farabutti di andare a nozze,
e tutt'altro che fichi secchi vi trovarono,
poichè la gente e i soldati scelti delle valli,
gliele suonarono così bene, che ne restò memoria.

E allora, il vedersi mancare più d'un francese,
l'essere rimasti senza bombe,
il guastarsi del tempo, e il non sapersi
destreggiare sul mare:
noi forti in libertà spregiare le offese
di chi ci considerò figliastri e non figli
della Repubblica nostra, convinsero
la flotta a partire con le pive nel sacco.

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