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di Angiola Codacci Pisanelli e Mirella Serri
Data di pubblicazione: 03/06/1999
L'Espresso

La sostenibile pesantezza del nulla. 
Goliardate. Vacuità. Apparente modernismo. I critici stroncano l'autore di "City". 
Ma il libro è già best seller 

Niente di meglio che una bella polemica per far partire bene un libro. Ma questa sicuramente non era preparata a tavolino. È successo proprio nei delicati giorni del lancio di "City" (Rizzoli), il nuovo romanzo, dopo tre anni, di Alessandro Baricco. Mentre i lettori si entusiasmano portandolo in testa alle classifiche e i critici lo recensiscono con lodi, il "Corriere della sera" riporta con grande evidenza la controversa avventura delle traduzioni tedesche dei romanzi precedenti. L'editore di Baricco in Germania, la Piper di Monaco, ha mandato al macero migliaia di copie dei libri già stampati per non pagare all'autrice della versione quella piccola fetta di diritti a cui i traduttori tedeschi - a differenza di quelli italiani - hanno diritto quando il libro supera un certo numero di copie vendute. 

L'incidente ha dato l'occasione ai recensori tedeschi per scagliarsi contro il quarantunenne narratore: "È un "kitschautor" che si vende in maniera brillante", ha scritto Gustav Seibt sulla "Berliner Zeitung". "I suoi libri, come i suoi titoli, sono setosi, lucenti, in qualche modo oceanici. Sono libri facili". Insomma, una bella "pappa setosa". Per di più Baricco, con una caduta di stile, ha alimentato le polemiche non prendendo, come tutti si sarebbero aspettati, le difese della traduttrice Karin Krieger, ma lavandosene le mani: "Mi dispiace per Karin ma per me, se il testo è buono, la traduzione non conta", ha dichiarato. "Io per esempio ho letto Adorno e Steinbeck in pessime versioni italiane, ma mi sono piaciuti lo stesso".

Una gaffe sorprendente per il riccioluto scrittore torinese che ha costruito gran parte della sua fortuna sul culto della sua immagine sostenuta da un indovinato protagonismo televisivo: tra tanti autori che si affannano per una comparsata, Baricco in tivù ci va solo da conduttore (prima con "L'amore è un dardo", poi con "Pickwick", adesso con il meno riuscito "Totem"). Di autopromozione, insomma, se ne intende: non per niente, dopo gli studi di filosofia, ha cominciato a lavorare come pubblicitario. Ogni tanto però anche lui scivola, e sono scivoloni clamorosi. Come quando, tre anni fa, in una puntata di "Linea 3" di Lucia Annunziata, lo scrittore, entusiasta supporter della sinistra al governo, si lasciò andare a lodi sperticate, tali da mettere in imbarazzo l'allora vicepresidente del Consiglio e ministro dei Beni culturali Walter Veltroni: da lui definito come il primo e l'unico in grado di "costruire un paesaggio culturale attorno a quelli che in questo paese sono bravi". 

All'ossequio per i politici si contrappone la scarsa solidarietà per i colleghi: nel '93, fresco di vittoria del Viareggio, Baricco dichiara che i finalisti dell'altro grande premio letterario, lo Strega, sono tutti dei "pitocchi" e bolla la palude della mediocrità in cui sguazza la cultura italiana con due sole eccezioni: Stefano Benni e Gesualdo Bufalino. Anche la sortita come drammaturgo è stata una macchia sul suo curriculum di grande affabulatore, capace di cimentarsi con successo in diversi generi narrativi, dal romanzo, al teatro, al saggio musicale ("Il genio in fuga", "L'anima di Hegel e le mucche del Wisconsin"). Ma "Davila Roa", messo in scena due anni fa da Luca Ronconi, ha raccolto più fischi e stroncature che approvazioni. 

Malgrado incidenti di percorso come questi, Baricco resta la superstar della narrativa-spettacolo. Ogni sua apparizione in pubblico - a fiere, dibattiti o presentazioni di libri - si risolve in un bagno di folla. Entrare alla sua scuola di scrittura, la Holden, è il sogno di tutti gli aspiranti narratori anche se finora solo uno di loro, Andrea Garello, è approdato alla pubblicazione con "Alo melograno". 

Pure la decisione di non rilasciare interviste per l'uscita di "City", presentandolo però in un sito Internet (http://www.abcity.it), è apparsa a molti come una brillante trovata per ravvivare il culto che lo circonda. "Fuggo sulla Rete perché non me la sento più di parlare dei miei libri", ha dichiarato il romanziere. "Lo trovo disonesto". Quanto a "sparire del tutto", ha spiegato ai suoi fans telematici, "non sono abbastanza onesto - o forte - per farlo. Mi spiace. Un'altra volta, magari". Il silenzio stampa, comunque, riguarda solo l'Italia: su "El País" nei giorni scorsi Baricco ha accettato di parlare del nuovo libro e soprattutto di se stesso: "Ero molto vanitoso anche prima di avere successo", ha ammesso. E ricordando il suo passato di correttore di bozze, in cui rivedeva gli svarioni degli altri, ha confessato: "Anche i miei romanzi sono pieni di errori di ortografia. L'italiano è una lingua difficile".

C'è molto divismo in questo offrirsi e negarsi agli appetiti del pubblico. E infatti per alcuni critici il segreto del successo di Baricco non è nello scrittore ma nel personaggio. "La letteratura non è fatta solo di libri ma è anche un fantasma, un idolo, una droga", dice Alfonso Berardinelli. "Baricco attira ed è amato per la sua immagine televisiva. È un tipo di star culturale che si fonde con l'idea del fascinatore e del pedagogo. I suoi libri vengono comprati come feticci. Ma, diciamoci la verità, piacciono sempre meno". 

I lettori, in realtà, l'idolo Baricco lo adorano senza riserve. È vero che alla Fiera del libro di Torino Andrea Camilleri lo ha surclassato nelle vendite, ma "Novecento", il monologo rilanciato dal kolossal di Giuseppe Tornatore, è in classifica da 35 settimane, e "City" vende in una settimana circa seimila copie: molti romanzi italiani non ci arrivano nemmeno in un anno. Una decorazione al merito della celebrità è stata anche la parodia "Setola", pubblicata da Sperling & Kupfer, che rifaceva il verso al manierismo di "Seta" trasformando in fraseggio pecoreccio le sottili elucubrazioni del romanzo. All'estero Baricco è uno degli autori italiani più amati: "Giovane, bello, sorridente, pianista, critico musicale, animatore di una scuola di scrittura e soprattutto romanziere", lo presenta, forse con un filo d'ironia, il "Nouvel Observateur". Del resto quando ancora il suo romanzo d'esordio, "Castelli di rabbia" era in Italia un libro per pochi estimatori, la Francia gli ha attribuito il suo premio più prestigioso, il Médicis.

Anche i critici italiani lo apprezzano. Almeno quelli dei tre giornali con cui Baricco si è costruito legami di ferro che gli hanno permesso di risparmiarsi i feroci attacchi lanciati invece a una scrittrice approdata a un grande successo di pubblico, Susanna Tamaro. Editorialista per "la Repubblica", lo scrittore torinese è pubblicato dallo stesso editore del "Corriere della Sera" ed è stato lanciato come commentatore da "La Stampa" che gli aveva affidato "Barnum", rubrica di varia umanità. Al di fuori da queste tre testate, come vedremo, i giudizi sono ben diversi.

"City", la storia del tredicenne Gould, piccolo genio solitario che rifiuta un destino da Nobel per diventare custode di cessi, riceve l'approvazione di Enzo Siciliano. Su "Repubblica" lo scrittore parla di "un complesso esercizio di maniere letterarie" che unisce il "canone settecentesco per eccellenza" del romanzo di formazione e l'"aroma New Age". I modelli? "Li scovi in Vonnegut, in Pynchon, magari nei dialoghi di Aldo Giovanni e Giacomo". Lorenzo Mondo, su "Tuttolibri" della "Stampa", esalta "l'ammiccante impassibilità rappresentativa, tutta pause e rimpalli, naturalissimi e insieme deliziosamente artificiosi, che fanno venire in mente una stagione della narrativa americana, quella che ha incantato la nostra giovinezza". E per Giovanni Pacchiano, critico del "Corriere", City è "un'iridescente, enorme bolla di sapone in cui la vista rischia di smarrirsi", raccontata "con una scrittura fra le più belle, sciolte e all'apparenza naturali della nostra narrativa di oggi".

Tutta un'altra musica sarebbe stata se la recensione del nuovo romanzo fosse stata affidata a un'altra firma di spicco del "Corriere", Franco Cordelli. Che considera Baricco "non uno scrittore ma un comunicatore. Un narratore eminentemente gestuale senza nessuna profondità storico-letteraria: quando è apparso in tivù piaceva molto alle ragazzine: escludo che qualcuno possa appassionarsi o imparare qualcosa dalla lettura di un suo libro, ivi compresi i saggi musicali. La sua scrittura sembra alimentata con gli estrogeni come gli atleti di oggi: è troppo gonfia anche quando sembra magra". Rimanendo al "Corriere", anche il giornalista e scrittore Antonio Debenedetti esprime perplessità: "Tra i best-seller di questi giorni trovo divertentissimo e appassionante "La mossa del cavallo" di Camilleri. Sarà una questione generazionale, ma con "City" sono fermo a pagina 20".

I vezzi colloquiali e il finto slang di "City" non convincono tutti. ""Tu vo' fa' l'americano, 'mericano, 'mericano, ma sei nato in Italì"", ironizza sull'"Unità" Andrea Carraro che vede nel fraseggio casual del libro anche una trasposizione dello stile televisivo di Baricco: "Sembra quasi di assistere alle performance televisive dell'autore, con le sue pause craxiane e i suoi assoli. Insomma, nel romanzo si sente sempre e solo la voce di Baricco, mai quella dei personaggi ch'egli rappresenta". Su "Panorama", Roberto Rossi bolla l'alternanza tra "sentenza faceta" e "facezia goliardica" di un romanzo in cui "l'apparente modernismo" non è altro che "una mano di tinta superficiale". E sull'"Avvenire" Alessandro Bonura stronca "lo stile, buono per tutti gli usi, per tutte le trame" e "la maniera vezzosa e ruffiana di raccontare" di Baricco. A ben guardare, anche i recensori più favorevoli indicano la forza del libro nell'"ottenere il nulla": "È difficile vincere l'insidia del nulla, del vacuo vortice sidereo che strega un narratore", nota Siciliano. Ci vuole proprio Baricco Superstar per trasformare il nulla in un successo.




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