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22 febbraio 2002

Un piccolo assaggio  di Next sul tema dei brand e un paio di bonus tracks correlati, per farvi un'idea dell'approccio...


"Incominciamo con i brand. Nella polemica contro il loro potere si fondono due critiche distinte: la prima è più circostanziata: le grandi marche fanno affari sfruttando il lavoro dei paesi poveri. Come sempre, è meglio partire da una domanda elementare: è vero? Devo sintetizzare, e così abbozzo una risposta: sì, è vero, anche se una certa propensione a non farsi troppe domande e a concludere sbrigativamente le indagini è rilevabile in tutti i tentativi di dare una descrizione dei fatti. La faccenda è probabilmente più complessa di quanto piaccia pensare, ma in definitiva non è errato affermare che molte multinazionali producono enormi profitti anche in virtù del fatto che le loro merci sono prodotte, nei paesi più poveri, a costi bassissimi, in certo modo illogici, e probabilmente immorali.
Seconda critica: i grandi brand si sono impossessati dell’immaginario collettivo, lo gestiscono a loro piacimento e trasformano gli individui in consumatori lobotomizzati. Dato che nessuno sbarra loro la strada, la loro presenza è ormai talmente invasiva da farli individuare come il vero Potere, assai più efficace, capillare e onnipresente dei poteri politici, religiosi, o civili. Com’è ovvio, qui l’obiezione suona più irrazionale ed evanescente. Ma, va detto, non è campata per aria. Una bella ricostruzione di tutta la faccenda la potete trovare effettivamente nel fortunato libro di Naomi Klein, No logo: leggete le prime duecento pagine e vi farete un’idea. Abbastanza lucidamente vi si raccontano i fatti, puri e semplici. Non tutto sarà vero o ben compreso, ma se solo metà di quello che c’è lì dentro fosse reale, ce ne sarebbe già abbastanza per crederci.
Ora: di fronte a fatti del genere l’istinto, ovviamente, è quello di puntare i piedi e resistere. Muro contro muro, e poi si vedrà. Come sempre accade, per semplificare la lotta si irrigidiscono le definizioni delle parti in conflitto: il complesso mondo del brand viene riassunto in pochi tratti deprecabili, e demonizzato; e la gente viene riassunta come un unico indistinto animale aggredito, indifeso e destinato a soccombere. Ma, ancora una volta, conviene chiedersi: è davvero così? Possibile che la passione civile ci induca a uno sguardo così semplificatore da vedere un puro e semplice duello là dove, com’è evidente, accade un incrocio assai più complesso e difficile da comprendere? Possibile. 
Un esercizio da fare sarebbe quello di prendere quei fatti e guardarli da vicino, e provare a pensarli da capo. Senza pregiudizi, possibilmente. E con un certo coraggio, anche. Se ne vedrebbero delle belle. Ad esempio: si ricomincerebbe a vedere questo semplice assurdo, oggetto di una delle più spettacolari rimozioni del nostro tempo: noi pensiamo le cose peggiori dei grandi brand, eppure ce ne serviamo senza nessun problema. Curioso, no? Se non siete dei militanti no global, è probabile che abbiate delle scarpe Nike o Adidas, che fumiate Marlboro o Philip Morris, che portiate i vostri bambini a vedere i film della Walt Disney, che mangiate da McDonald’s e che in questo momento abbiate addosso delle mutande Calvin Klein. Cerco di dirlo in modo più esatto: è probabile che alla gran parte di noi il mondo allestito sulla rete delle grandi marche non sembri affatto un luogo inumano, ma al contrario, un mondo vivo, in qualche modo ricco, e comunque interessante da abitare. È abbastanza normale che ci appaia come un mondo sostanzialmente libero, una specie di giostra su cui saliamo quando vogliamo, scendiamo quando vogliamo, saliamo pensando Che boiata, scendiamo pensando Torno domani. Dobbiamo concludere che siamo ormai così lobotomizzati da non capire più niente? Sarebbe comodo. Ma temo che la verità sia diversa. 
La verità è che siamo solo blandamente lobotomizzati. Siamo lucidi, quando partecipiamo alla grande festa, lo facciamo con il cervello innestato, con una parte del nostro cervello che non possiamo sminuire, ma dobbiamo se mai capire."

Scarpe 
Per capirci meglio, potete provare a fare un giochetto. Dovete avere un po’ di pazienza e ascoltare una piccola storia. Quando io ero piccolo (si parla della fine degli anni sessanta) c’era un giorno in cui si andava a comprare le scarpe da ginnastica. Il negozio in cui si andava era lo stesso negozio in cui si compravano le galosce o le scarpe della domenica, solo che in un angolo aveva il minuscolo reparto delle scarpe da ginnastica. Di solito era un po’ defilato, comunque lontano dalle vetrine. Era molto piccolo. Stava al resto del negozio come l’ora di ricreazione a una giornata di scuola dai preti. 
A quei tempi, dovendo comprare una scarpa da ginnastica, la scelta era praticamente circoscritta fra: Superga beige e Superga blu. Cioè: nella mia famiglia si usava così. In realtà delle altre possibilità, almeno teoricamente, c’erano. I più fighi e/o ricchi compravano le mitiche Adidas, tre strisce sul lato, suola sagomata, rinforzi davanti e dietro. Ne esistevano tre o quattro tipi: mi ricordo che io andavo matto per una che si chiamava Rom. Adidas Rom. O era Room? Non so. Comunque ci andavo matto. Ancora più elitarie erano le Puma, che avevano in pochissimi, e che erano guardate con grande rispetto ma anche con una punta di diffidenza (erano considerate le rivali delle Adidas, e questo non deponeva a loro favore). Infine c’erano le All Star, ma davvero rarissime: attirava il fatto che ci fossero anche rosse, ma sostanzialmente erano considerate da grulli, era difficilissimo trovarle, e praticamente le avevano solo quelli che giocavano a basket. Al di sotto di questo olimpo, c’era il mare indistinto delle patacche. Erano scarpe dai nomi spiritosi tipo Tall Star, Luma, Addas. Ci provavano. Senza pudore, sfoggiavano le mitiche strisce sul lato: solo che erano quattro, o due. Costavano poco, e le vendevano al mercato. Comprare le scarpe al mercato era strano perché ti ritrovavi in calze in mezzo alla strada. Insomma, dovendo comprare le scarpe da ginnastica, a quei tempi la scelta, a voler essere generosi, era limitata a sette, otto modelli. 
Va anche ricordato che le scarpe da ginnastica si mettevano quando si andava a far ginnastica, e in nessun’altra occasione (perché rovinarle?). In casa c’erano le pantofole, e per camminare c’era altra roba. Non ricordo di aver mai visto mio padre con le scarpe da ginnastica (e giuro che era un tipo abbastanza sportivo: a me sembrava molto simile a Kennedy, a parte Dallas, e Marilyn). Non ricordo nemmeno di aver mai visto un mio idolo dello sport sfoggiare le stesse scarpe che avevo io nei piedi: erano due universi separati, e neanche mi immaginavo potessero comunicare. Aggiungo un particolare agghiacciante. Quando compravi le scarpe da ginnastica, la signora del negozio ti regalava una pallina di gomma. 
La cosa agghiacciante è che quello era un evento, era una cosa che ricordavi per settimane, era una cosa che raccontavi. Era quello un mondo in cui se il negoziante ti regalava una pallina di gomma, tu lo raccontavi in giro. E un’altra cosa. Agghiacciante anche quella. Mi ricordo che dato che tutti avevano le Superga, e insomma in palestra giravamo tutti con le stesse scarpe che sembravamo dei cinesi, a parte i due o tre privilegiati con le Adidas o le Puma, ma erano pochi, gli altri erano tutti uguali – insomma mi ricordo che alcuni di noi, quelli più originali, un po’ ribelli, quelli un po’ più svegli, non la digerivano ’sta cosa che fossimo tutti uguali, e allora, per cercare di essere diversi, per sconfiggere la monocultura della scarpa, decidevano di ribellarsi, e quello che facevano precisamente era: disegnare qualcosa con una biro sulle loro Superga. Magari una piccola scritta. O cuoricini, fiori, cose così. Era quello un mondo in cui, per inventarti le tue scarpe, quello che potevi fare era disegnartele con la biro. Bene. 
E adesso un bel salto nella macchina del tempo. Immaginatevi di avere un figlio di una dozzina d’anni e di portarlo a comprare le scarpe da ginnastica. Gennaio 2002. Non c’è bisogno che ve la racconti io. Potete benissimo ricostruirvi la scena da soli. Ma guardatela bene, guardatela tutta. Il tipo di negozio, le facce dei commessi, la musica che c’è, i colori, i manifesti sulle pareti, le scritte in inglese, le cose che non sono scarpe e che pure vendono lì dentro, il sorriso di Michael Jordan, o di Ronaldo, o di Baggio, o della Kournikova, le centinaia di scarpe che stanno attaccate alle pareti, le decine di idee diverse di scarpa che stanno appese lì, la presenza rassicurante delle mezze misure (36 e mezzo, finalmente), il sedile su cui vostro figlio si siede per provare le scarpe, lo specchio in cui si guarda, le calze che comprate in sovrappiù perché sono appese alla cassa e lui le vuole, la scatola dove mettono le scarpe nuove, il sacchetto, la faccia di vostro figlio che se ne esce con le sue scarpe nuove. Già che ci siete date anche un’occhiata ai vostri piedi. Probabilmente: scarpe da ginnastica. Siete un padre (una madre) con le scarpe da ginnastica. Mio padre era Kennedy, ma non era così. 
E adesso, un bell’esercizio: avanti e indietro, con la macchina del tempo, tra il bambino con la pallina di gomma e quello del 2002. Avanti e indietro. Un po’ di volte. Fine dell’esercizio. Innestare il cervello. Pensare. Domanda: che nesso c’è tra quello che in questo momento avete in testa e il vostro disprezzo per il consumismo, il vostro sdegno per le fabbriche in cui quelle scarpe sono prodotte, e la vostra allergia ai brand? Auguri. 

Fornitori 
C’è la scritta levi’s sulle fabbriche che producono i jeans in Indonesia? No. Sono fabbriche della levi’s? No. Per usare le parole di Naomi Klein (il mitico No logo), quelli che negli usa erano posti di lavoro "vengono rimpiazzati da qualcosa di totalmente diverso, ‘ordini’ da commissionare a un fornitore, che li può girare a sua volta ad almeno dieci sub-fornitori, i quali possono trasferire una parte di questi contratti a una rete di lavoratori a domicilio che portano a termine il lavoro nelle cantine e nei soggiorni di casa". 
Alla fine di questa catena è logico immaginare qualcuno che lavora davvero per una cifra scandalosa, in condizioni scandalose, e con un’assenza di diritti scandalosa. Ma è anche vero che ogni anello della catena prende il suo tornaconto, e che la cifra iniziale viene spolpata, per strada, a poco a poco. In altri termini, non è più possibile dire tout court che la levi’s sfrutta dei lavoratori: sarebbe corretto dire, piuttosto, che una certa politica della levi’s contribuisce ad allestire un sistema di produzione in cui le possibilità di arrivare allo sfruttamento del lavoro di qualcuno sono di nuovo reali, dopo che le si era neutralizzate nel mondo occidentale con la moderna legislazione sul lavoro."

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Ultimo Aggiornamento_Last Update: 10 Nov. 2001