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Il 2 aprile Baricco partecipa a Foggia, su invito della Provincia, alla seconda edizione di 'Sette giorni al verde', la manifestazione organizzata dalla Provincia di Foggia incentrata sui temi ambientalisti e di sviluppo sostenibile; Baricco affronta il tema "Abitare il mondo", trattando di globalizzazione, guerra e delle differenza fra nord e sud del mondo. 

E' possibile rivedere in streaming video il filmato del suo intervento cliccando qui.
Ecco di seguito l'articolo-intervista apparso in merito sulla Gazzetta del Mezzogiorno.

 

Baricco, a Sud il mondo si apre ai sogni
di Oscar Iarussi 
data di pubblicazione: 2 aprile 2003

Alessandro Baricco domani a Foggia su invito della Provincia. Sarà la prima volta pugliese, in pubblico, per lo scrittore di Torino che grazie ai suoi romanzi, ma anche agli spettacoli teatrali, ai reportage giornalistici, alle esperienze di didatta delle scritture creative con la Scuola Holden, insomma grazie a un sapiente protagonismo multimediale preferito alle mere apparizioni in tv, è da anni ormai ben più che un autore. 
Il quarantacinquenne Baricco, folletto dalla fantasia straordinaria (Geno Pampaloni dixit), è una star che brilla perché si nega, quasi un guru ma timido e controvoglia, comunque un punto di riferimento soprattutto per le giovani generazioni. 
E non solo in Italia, visto che il raffinato settimanale Usa «New Yorker» un paio di mesi ha tradotto e pubblicato integralmente il suo ultimo romanzo breve o racconto lungo, Senza sangue (Rizzoli ed.), per molte settimane in classifica sia in Italia sia in Francia a dispetto di parte della critica che non ne ha gradito l'evocativa rivisitazione del genere d'azione in chiave «pacifista», giudicandola artificiale e furbesca (Baricco è fra i pochissimi a essere stroncato con la regolarità con cui i suoi titoli entrano nei best-sellers: non ci sarà sotto sotto una faccenda d'invidia?). 
Ora il Nostro sta lavorando al prossimo romanzo sul quale naturalmente è «vietato» porre domande, mentre è reduce dalla ripresa in palcoscenico, nello scorso weekend, del suo monologo Novecento, da cui Tornatore trasse il film La leggenda del pianista sull'oceano: due serate romane per Telepiù, col vecchio Arnoldo Foà indomito protagonista. 
E intanto, musica! Per non rinnegare il primo amore (esordì quindici anni fa con un saggio su Rossini), Alessandro è la voce recitante di un cd appena uscito dei francesi Air, City Reading, che propone brani del romanzo City (1999) su sofisticate musiche elettropop: roba da mandare in solluchero le universitarie di una mezza dozzina di facoltà di una mezza dozzina di paesi del mondo. 

Baricco, in molti le fanno la corte per dibattiti un po' dappertutto. Lei risponde quasi sempre picche. Perché a Foggia sì? 
«Non ci sono mai stato. Sono curioso». 

Il tema scelto per le due conferenze di domani è «Abitare il mondo». Così, una bazzecola. 
«Sì, in effetti hanno ristretto molto il tema...». 

Scherzi a parte, la globalizzazione era l'argomento del suo «Next», un «piccolo libro sul mondo che verrà» nato dallo choc dei fatti di Genova del luglio 2001 e pubblicato da Feltrinelli pochi mesi dopo l'11 settembre. Vi erano raccolti e rielaborati quattro ampi articoli, in cui fra l'altro lei sosteneva che la globalizzazione, qualunque cosa significhi effettivamente (le definizioni che le fornirono i suoi interlocutori erano variegate), ha bisogno della pace. Come la mettiamo con la guerra in Iraq? È uno stop del mondo globale o dobbiamo cambiare idea? 
«La guerra va controcorrente rispetto alla globalizzazione, che, ribadisco, necessita della pace. La fabbrica di McDonald's che stai costruendo o il film che stai producendo per il mercato globale non si avvantaggiano affatto di confini incerti né della possibilità di attentati terroristici. Il mercato soffre se la gente ha paura di prendere un aereo. Dopo le Torri Gemelle, tutto il mondo ha solidarizzato con gli Stati Uniti. C'era la percezione collettiva di un intero pianeta, con rare eccezioni, che s'identificava con l'America e si schierava contro Osama bin Laden. Oggi è radicalmente diverso: neppure tutti gli americani s'identificano in questa guerra, che definirei piuttosto come un ritorno all'imperialismo, alla legge del più forte. Quella di Bush è una guerra vecchia, obsoleta, che viene da lontano, tutt'altro che moderna». 

Globalizzazione è... In «Next» c'erano risposte tipo «acquistare pannolini on line» e «i monaci tibetani collegati a Internet». Definizioni un po' «leggendarie», spesso imprecise. Abbiamo fatto dei passi in avanti? Due anni dopo sappiamo un po' di più e un po' meglio che diavolo sia questa globalizzazione di cui tutti parliamo? 
«Ogni giorno che passa lo sappiamo meglio. L'esperienza aiuta e ci andiamo adeguando alla parola che non è ininfluente sulla cosa. Dire la globalizzazione contribuisce a crearla. Ma non c'è dubbio che il processo sarebbe stato molto più rapido senza l'11 settembre. La sfiducia e la paura hanno fatto vacillare le forze che spingevano per la globalizzazione». 

E i «no global»? Pazzi o profeti? Lei li definì come quelli che non ci stanno, i ribelli che non accettano la fine delle garanzie e l'orizzonte del nuovo West dominato dalla legge del più forte, e quindi saltano giù dal treno lanciato verso la California delle Borse e dello sfruttamento. Oggi, due anni dopo Genova, come li vede? 
«I no global stanno perfezionando la loro identità. Sono più puntuali sulle cose del mondo, ma ancora lenti per scelta. Laddove prima c'era l'adesione istintiva a una lotta, ora sempre di più si coglie una voglia di pensare che è preziosa per tutti». 

Ma per «abitare il mondo», il tema foggiano, dobbiamo per forza ragionare in termini di «global/no global»? 
«Assolutamente no. La gente ha problemi più immediati, fa gesti quotidiani che non scomodano alcuna scelta di fondo. Abitare il mondo per me significa avere il senso della responsabilità etica e il senso della comunità cui si appartiene, lavorare e interpretare il proprio tempo, essere fedeli ai desideri, alla voglia di esplorare. Sono pratiche semplici eppure molto difficili». 

Ci sono modi diversi di «abitare il mondo» al Sud e al Nord? Intendiamo, nei tanti Sud e Nord del pianeta? 
«Senza dubbio. Sud e Nord sono due modi radicalmente diversi di stare al mondo, due civiltà a confronto. Il Nord del mondo è avviato verso un'esistenza supertutelata, al riparo dal rischio, che adotta il lavoro come unico valore o quasi, scontando un degrado per il gusto, per la sapienza della vita. Quanto ai divertimenti, il Nord si accontenta di riassumerli in poche parole d'ordine che cambiano con le stagioni. Il Nord ha un flirt con la tecnologia, che serve a lubrificare vite fatte solo di lavoro, veloci, ricche. E pretende che il resto del pianeta si adegui ai suoi standard». 

E il Sud? 
«Il Sud è immensamente più aperto, è un mondo in divenire, non fissato in pochi valori, non ossessionato da tre o quattro princìpi. L'Italia è privilegiata, tutta l'Italia, perché è la parte più meridionale di un mondo settentrionale. L'Italia è una specie di terza via». 

E alla richiesta di adeguarsi agli standard nordici il Sud, secondo lei, cosa sta rispondendo? 
«Non si adegua. Per fortuna resta un mondo a parte, un altro mondo. L'Andalusia, Marsiglia, la Calabria sono qualcosa di molto diverso da semplici parti della Spagna, della Francia, dell'Italia. Sono Sud». 

Baricco, e la letteratura? 
«La letteratura cosa?» 

Ci aiuta ad abitare il mondo? 
«È strano. Noi siamo in generale molto attenti alla difesa del pianeta dal punto di vista ecologico, ma non riserviamo la stessa disponibilità alla difesa del patrimonio culturale. Chiudere teatri o deforestare l'Amazzonia è altrettanto grave, anzi forse è peggio chiudere i teatri. Per non parlare dei libri. I libri sono le nostre foreste, sono ossigeno per sopravvivere». 

Beh, veramente certi fondamentalisti del verde sostengono che si pubblicano troppi libri e che la carta viene pur sempre dagli alberi. Esagerano? 
«Proprio perché distruggono gli alberi non si possono fare libri brutti. I libri sono memoria collettiva e la cultura è una forma di ecologia fondamentale, ma poco sentita dalla gente che ne ha una percezione vicina allo zero. Io credo che lo spreco del denaro pubblico nella cultura, o d'altro canto l'assenza di investimenti oculati, dovrebbero suscitare almeno lo stesso sdegno dei gas di scarico delle automobili non catalitiche. Oltretutto le scarse risorse per la cultura vengono investite in difesa dell'esistente, in maniera conservatrice, invece che puntate su approcci nuovi, sulla produzione di senso, sulla creatività».


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