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Il 4 aprile 2003 Baricco partecipa a Milano alla conferenza dei DS, con un intervento incentrato sul tema della guerra e del senso che ha oggi il pacifismo.
Ecco di seguito il testo dell'intervento

 

Appartengo a una generazione che è stata formata da questo Paese nel rispetto assoluto e incondizionato di alcuni valori precisi. Non erano idee che si potessero discutere, erano semplicemente il paesaggio morale e culturale e anche politico dove saremmo cresciuti. Su questo non avevamo dubbi, erano certezze. E, in quella gamma variegata di valori, ne spiccavano due con l’aria davvero di essere i capisaldi intoccabili del sistema che avrebbe ospitato la nostra crescita. Erano due parole: democrazia e pace.

Ho ancora il ricordo limpido di quanto quelle due parole entrassero in continuazione nella nostra vita quotidiana, con l’ossessiva ubiquità che hanno in qualsiasi propaganda le parole d’ordine. Democrazia e pace. Ovunque ci voltassimo c’era sempre un portavoce del nostro paese che stava scandendo quelle parole. Così diventarono nostre. Negli ultimi dieci, quindici anni ci è accaduta una cosa strana.

Quello stesso Paese da cui eravamo stati formati ha iniziato a suggerirci, in diverse occasioni e di fronte a situazioni affatto differenti, che, contrariamente a quanto pensavamo, tutto sommato, la guerra poteva ance considerarsi di tanto in tanto un gesto sensato, doloroso ma sensato. Soprattutto là dove si presentava con nomi tipo guerra umanitaria, guerra pulita, guerra di liberazione, guerra appoggiata dall’Onu. Voglio ricordare che quando eravamo ragazzini la guerra aveva un solo nome: guerra. Ed era il nome di quello che mai avremmo fatto. Era tutto molto semplice. È dopo che si è complicato. Non siamo più ragazzini e quel nome che era unico e indivisibile è diventato una galassia strana di cose alle volte brutte ma alle volte anche belle, spesso vietate, ma alle volte anche legittime, e secondo una divisione che risponde a una logica che francamente sembra piuttosto arduo decifrare.

Quello stesso Paese che sembrava aver fatto di me un bambino pacifista in questi anni mi ha proposto acrobazie logiche non facili da condividere, tipo: la guerra è necessaria per difendere la pace. E ripetutamente quello stesso Paese mi ha invitato a riflettere sul fatto che la guerra oggi ha raggiunto un livello tecnologico capace di ridurre al minimo il prezzo di sofferenza e di morte. Io sono cresciuto con l’incubo del macello nucleare. Adesso mi stanno riprogrammando, spiegandomi cosa sono i bombardamenti chirurgici. Non so se riesco veramente a ricostruire che impressione strana sia per noi che eravamo cresciuti in quella formazione, ma se posso far riferimento all’altra idea caposaldo che era la democrazia, sarebbe un po' come se oggi qualcuno si presentasse qui e ci suggerisse che, in fondo, in alcune situazioni, di fronte a certe situazioni di crisi, alla democrazia - sarebbe doloroso - ci si potrebbe anche rinunciare, quanto meno parzialmente. E forse un paio d’anni di totalitarismo potrebbero essere un buon sistema per difendere la democrazia. Suonerebbe strano, ne converrete. 

Nella mia testa e in quella di molti altri della mia generazione suonano strani questi discorsi quando sono riferiti alla parola «pace». Così mi sono chiesto cosa mai è potuto succedere in questi anni per far girare questa storia della pace, in questo modo perverso e scomodo. Però confesso che non ho una risposta. Quello che capisco, quello che questi anni di piccole - chiamiamole così - guerre lecite mi hanno insegnato, è che quando ero piccolo il mio paese mi ha preso in giro, faceva finta di educare un pacifista ma stava molto più semplicemente educando un cittadino a una mitezza di fondo, a una generica quanto ovvia propensione alla pace. A un galateo del sentimento che sarebbe stato utile per arginare eventuali tentazioni di violenza ma che non avrebbe poi dato molto fastidio nel momento - se fosse mai arrivato - di dover, magari per ragioni umanitarie, menar le mani. A ripensarci è perfino buffo: tanta fatica, tanto lavoro speso dal mio paese per ottenere un’ovvietà. Cittadini che preferiscono la pace alla guerra. A ripensarci quello è l’errore o la truffa, vedete un po’ voi. Un errore che oggi stiamo correndo il rischio di ripetere. 

Abbiamo intorno moltitudini di persone che di fronte a questa guerra puntano i piedi. La loro è potenzialmente una forza immensa. E qualcosa che non so cosa sia deciderà se quella forza finirà incanalata e diluita in un ovvio sentimento comune di propensione alla pace o se, invece, aiuterà tutte le coscienze a un salto culturale duro e definitivo verso un reale pacifismo. Vorrei dire, riassumendo in poche parole un pensiero peraltro piuttosto confuso (cioè il mio), che è importante in questo momento separare ciò che è generica propensione alla pace e ciò che è pacifismo. Non lo è stato per la mia generazione ma dobbiamo impedire che questo riaccada adesso. È importante, così importante che qualcuno dica che il pacifismo non c’entra con l’essere pacifico, e perfino non c’entra con l’essere buoni, credetemi, o sensibili. Non è una ritrosia generica a considerare la guerra come una soluzione attuabile: è qualcosa di più profondo, violento e radicale. 

Per quel che ne ho capito io, il pacifismo è un istinto della nostra intelligenza, un istinto a pensare la guerra impossibile. Non tecnicamente, sarà sempre possibile tecnicamente la guerra. Moralmente impossibile. Qualcosa che non faremo più e che non saremo mai più capaci di fare. 

Non c’è altra scelta se vogliamo la pace veramente e non in quel modo ridicolo a cui il mio paese mi ha educato. Non c’è altra scelta che questo salto, oltre qualsiasi discussione, oltre qualsiasi contingenza o caso particolare, oltre tutto questo. Io posso sbagliarmi ma, al contrario di altri pacifisti, non credo veramente che, se si accetta di discuterne, le ragioni della pace possano prevalere su quelle della guerra. Fatalmente si finisce per essere spinti spalle al muro. Mi sembra più leale pensare che fino a quando la guerra sarà una della possibilità, la faranno, la faremo. Solo quando la guerra sarà impossibile, moralmente impossibile, ci potrà essere una pace. Per quanto possa parere rischioso, e perfino angoscioso per certi versi, ciò che abbiamo a portata di mano è la possibilità reale di formare altri ragazzini, i nostri figli, in questa istintiva, intelligente convinzione che la guerra è e sarà impossibile. Saremo capaci di immaginarla impossibile. Esattamente quello che non hanno fatto per me e per la mia generazione. Eppure noi siamo a un passo dal poter provare a farlo. E che delitto nei confronti della speranza sarebbe oggi fermarci per paura o per stanchezza o per eccesso di realismo.

Io ho un’età per cui ho ancora sentito girare in casa mia un’espressione che ora mi pare così mansueta e bella e che in qualche modo mi sembra il nome della nostra speranza. La usavano i vecchi, i nonni, quelli che di guerre ne avevano fatte due e se erano stati molto fortunati erano ancora lì a raccontarcele. Era un’espressione di quelle che usavano loro e che io adesso non sento da tanti anni, e non solo perché loro sono spariti ma perché non è più nel nostro lessico, e la speranza sarebbe per noi riavere quell’innocente espressione. Mio nonno quando parlava della seconda guerra mondiale diceva «l’ultima guerra». Che possa diventare di nuovo una frase che suona nelle nostre case, nella mia, nella vostra e in quella di tutti gli uomini di buona volontà.

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