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Alessandro Baricco
Data di pubblicazione: 05/01/00
Corriere della Sera

 - Grandi squilibri e frizioni sociali fanno da contraltare ai "giardini" del benessere -
Pubblichiamo parte della prefazione di Alessandro Baricco al volume "Quel che resta del mondo - 25 testimonianze sugli inganni dell'ambientalismo" (Baldini & Castoldi, pagg. 359, L. 18.000), a cura di Davide Demichelis, Angelo Ferrari, Raffaele Masto, Luciano Scalettari.

Lo sdegno ha smesso da tempo di essere un gesto facile. Per un occidentale, oggi, i marciumi dell'ingiustizia, dell'ineguaglianza, dello sfruttamento, della guerra sono sempre piu' spesso detriti abbandonati in discariche strategicamente collocate l ontano dalle linde pareti di casa. Il giardino incantato di un benessere ormai stabilizzato e blindato ospita frizioni sociali e morali innegabili, che raramente, pero' , esorbitano dalla medieta' di eventi periferici sostanzialmente tollerabili dal sistema. Vagamente intontiti dal gran festino collettivo, i Paesi ricchi si trovano a gestire, a casa loro, disequilibri e ferite per cui non sembrano necessarie rivoluzioni ne' lotte particolari: il buon senso di un moderatismo blandamente sinistrorso sembra piu' che sufficiente a dominare o prevenire le incrinature di una convivenza sociale in cui piu' o meno tutti sembrano trovare il proprio vantaggio. 

Un virtuoso riformismo e' stato riconosciuto come lo strumento migliore per una efficiente conservazione dell'esistente. Grande fiducia si e' deciso di riporre nei banchieri, a cui, senza alcun senso del ridicolo, si e' assegnato il seggio che un tempo spettava ai profeti. Gli intellettuali sonnecchiano. I mercanti guadagnano. Il circo de i media fa il tutto esaurito ogni sera. Parrebbe davvero il migliore dei mondi possibili. In realta' non lo e': ma ricordarselo e', appunto, meno facile che un tempo. Occorre uno sguardo capace di guardare oltre il giardino incantato. Se non guardi lontano non capisci. E se non guardi da vicino cio' che e' lontano, non vedi niente. Poiche' non e' da tutti prendere le valigie e andare a guardare da vicino, quel che si puo' fare e' stare ad ascoltare chi l'ha fatto. Leggere questo libro e' un modo, tra i tanti, di mettersi in ascolto. Come istigazione al caro vecchio sdegno, e' formidabile. Questo e' un libro che nasce da un mondo particolare. Il mondo della solidarieta' internazionale. Gente che lavora un po' ovunque, nel pianeta, a curare ferite. Si sono scelti gli interlocutori con cui sentivano una certa complicita' e li hanno invitati a raccontare. O a pensare. Per dare testimonianza del marciume. Alcuni sono giornalisti, altri studiosi, altri testimoni puri e semplici. Raccontano. A leggere questo libro, come altri, analoghi, apparsi in giro per il mondo, mi son fatto un'idea. 

La lettura del mondo prodotta, direttamente o indirettamente, dagli ambienti vicini alla solidarieta' e al volontariato, e' una lettura parti colare, non immediatamente assimilabile a quella dei media e neppure a quella, ufficiale, delle grandi istituzioni internazionali. Una voce appassionata, vagamente insicura, profondamente disincantata e sostanzialmente anomala. Dice cose strane, se cosi' posso semplificare. come se la frequentazione quotidiana con le piaghe del pianeta li avesse vaccinati da forzature irrazionali o esageratamente strumentali: c'e' un disincanto e una lucidita' di sguardo che difficilmente trovi altrove. Alla fine, se proprio voglio capire qualcosa - ad esempio, dello sfruttamento del lavoro minorile, oppure del ritardo patologico dei Paesi sottosviluppati, oppure delle guerre africane - se voglio capire qualcosa di non preconfezionato, allora e' in quel tipo di voce che trovo quel che cerco. Non la verita', magari. Questo non posso dirlo. Ma almeno una verita' che non puzza di risposta sintetica, e di comodo. 

C'e' un particolare, in quel tipo di voce, che mi e' sempre sembrato una certificazione della sua attendibilita': di rado pronuncia risposte. Ma quasi sempre si sforza di formulare le domande in modo che risultino poste con correttezza e con rigore: alle volte fino al cinismo. Di rado suggerisce cure precise: ma la diagnosi, quella, e' lucidissima. Con il tempo mi e' sembrato di capire che alcune certezze ce l'hanno: magari enunciate con sfumature diverse, ma sostanzialmente condivise da tutti. La prima e' che la responsabilita' oggettiva delle ferite del pianeta e' attribuibile , senza mezzi termini, alle tecniche di dominio dei Paesi ricchi. La seconda e' che l' esportazione pura e semplice del modello di sviluppo occidentale non risolve i problemi della parte debole del mondo ma anzi, spesso, li aggrava. La terza, e per c erti versi piu' spaventosa, e' che qualsiasi realta' , per quanto agghiacciante, uno possa incontrare nel pianeta, riposa su un suo collaudato e perfino funzionale equilibrio: in termini di sofferenza umana non e' detto che migliorare i tasselli di quel quadro migliori le cose invece che peggiorarle. Esempio classico: se in certe zone del pianeta eliminiamo il lavoro minorile, ricacciamo intere fasce della popolazione in una miseria insostenibile. 

Se sono verita', sono verita' scomode. Ma indubbiamente contribuiscono a spazzare alibi vigliacchi e a disarmare la fumosita' di domande che solo se chiare fino alla crudelta' diventano urgenti: se restano fumose lasciano spazio a qualsiasi tipo di rinvio. Lontane dalle necessita' spettacolari dei media, e parzialmente impermeabili alle pressioni politiche che ingessano le grandi istituzioni internazionali, le voci che arrivano dal mondo della solidarieta' hanno spesso una laicita' che aiuta a scrollarsi di dosso la pigrizia e a dissolvere p arte del cinismo collettivo. Seminano disagio. Sono campi coltivati a sdegno... (continua)

Corriere della Sera, 5 gennaio 2000.

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Ultimo Aggiornamento_Last Update: 10 Nov. 2001