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Alessandro Baricco
Data di pubblicazione: 10/05/00
La Repubblica

BARCELLONA - GRIGIO il cielo, marrone la sabbia, niente a che vedere con quelle abbacinanti Plazas andaluse, arene gialle sotto soli giaguari, e donne flamenke in cieli vergognosamente blu. Sul marrone della sabbia, in un angolo, un toro da 485 chili non ne vuole sapere di morire. Se ne sta sdraiato su un fianco, a muggire ogni volta che lo trafiggono nella nuca con un piccolo pugnale: una scossa in tutto il corpo, ma non stramazza.

Qualche fila davanti a me c'è un omino. Sessant'anni veri o quaranta trasfigurati dalle disillusioni: difficile dirlo. Magro magro, camicia di nylon, cravatta, giacca colore senza nome. Ha i capelli brillantinati, perfettamente regolati da una riga laterale che da anni fa l'amore con un pettine finto tartaruga (lo posso immaginare, sonnolento, nella tasca interna della giacca). L'omino ha pelle olivastra e un sorriso mite, odontoiatria anni cinquanta, ponti metallici a vista e capsule un po' fanè. Lo guardi ed è la Spagna che sta sparendo. Tiene in mano una cartelletta con dei fogli bianchi, e scrive. Guarda il toreo e scrive.

Il foglio è accuratamente diviso in tre parti. Lui scrive con calligrafia minuta ed esatta, in righe irragionevolmente ordinate, e fitte. Come se pettinasse anche loro. O è un pazzo o è un critico taurino. Senza escludere la possibilità che sia entrambe. E' a due file da me, e decenni lontano. Non trovano il punto giusto, nella nuca del toro, e lui continua a guizzare e a non morire. Odore di sigaro greve come torba bruciata, la gente fischia, e sciabolate di voci dicono in spagnolo cose che sanno di orrendo. Avrei una domanda: che ci faccio io qui? Risposta: sono venuto a vedere El Juli. Il Mozart del toreo. Il più grande, dicono.

El Juli ha diciassette anni. Molti, se nuoti a rana e vai alle Olimpiadi. Niente, se ammazzi tori. Nel panorama un po' imbolsito delle corride, è arrivato lui, e si è spalancato un mondo. Fa venire in mente la storia di Tiger Wood, il campione di golf: giovane, nero, arrogante, spettacolare. Era un gioco titic e titoc, per grassottelli stempiati e bianchi, e lui ne ha fatto uno sport per gente tosta e divertita. Da El Juli tutti si aspettano un po' la stessa cosa: si aspettano che sdogani il toreo, consegnandolo alle nuove generazioni e sottraendolo al mio amico e al suo pettine. Lui ci prova, inventando corride e rischiando la vita.
Dicono che sia bellissimo. Ma non è vero. Faccia grassottella da bambino cresciuto in zone residenziali, acne d'ordinanza, capelli meno biondi di quanto potrebbero essere, occhi meno azzurri di quello che potrebbero essere. Tipica faccia dimenticabile. Suo padre era torero, dimenticabile anche lui, un corno gli ha portato via un occhio e la voglia di continuare. Oggi fa il manager del figlio. Spreme la rapa, per così dire. Per avere El Juli bisogna scucire, pare, duecento milioni. Ci sono toreri che toreano da anni, rammendati ovunque sotto i vestiti, che non hanno mai visto la metà di quella cifra tutta in una volta sola. El Juli fa ottanta-novanta corride all'anno. Più la stagione in Sud America. Gli hanno fatto i conti in tasca. Più di venti miliardi, l'anno scorso. Li vale? Nessuno ha dubbi. Li vale. Ci sono le corride, e poi ci sono le corride col Juli. Tutt'un altra cosa. Il bambinello fa sognare, non c'è santo. E non c'è prezzo, per i sogni.

Il toro vede poco. Vede, e male, una corsia davanti a sè. Non sa cosa sia la coda dell'occhio. Questo significa che se vuoi farti vedere da un toro c'è un unico posto giusto, per te: esattamente davanti, in mezzo alle corna. Non è un bel posto, nemmeno se sei a venti metri di distanza. Ma se non vai lì non inizia niente. Quando poi è iniziato, quello che devi fare è sparire. Il toro vede male: vede ciò che si muove. Non gli importa del rosso, del viola, quelle son tutte balle. Lui vede quello che si muove. E lo attacca. Se quello che si muove è una cappa, lui incorna la cappa. Se quello che si muove sei tu, lui incorna te. Il torero perfetto è una statua quasi invisibile. A voler essere esatti, se hai fatto tutto giusto, quando alla fine ti metti davanti al toro per la estocada finale, quella è le prima volta che il toro ti vede da vicino. Ti ha sfiorato, magari, per decine di volte, ma non ti ha mai visto. Ha combattuto con un nemico fatto d'aria. Oppure: ha danzato con un angelo. Manolete, angelo triste e grandissimo, ogni tanto diventava una statua con una perfezione tale che quando gli scivolava accanto il toro lui non lo seguiva con lo sguardo, ma immobilizzava gli occhi nel nulla davanti a sè, il mento sollevato, la faccia di pietra. Ho visto lo stesso sguardo - un misto di arroganza e incurabile lontananza - negli occhi di fantastici ballerini di rock, a Los Angeles. Li ho visti in quelli che ballano da noi nelle sagre di Paese, senza sbagliare un passo, e nei ballerini di tango argentino, che si sfiorano le labbra riuscendo a non guardarsi. Anni fa ho visto Wilhelm Kempff suonare Bach, era vecchio y final, non guardava mai la tastiera, aveva lo sguardo di Manolete, ma stanco, scivolava sotto il coperchio del pianoforte e viaggiava chissà dove. E una volta ho visto Estiarte, stella spagnola della pallanuoto, battere un rigore con gli occhi fissi tutto da un' altra parte, senza girare la testa: adesso so chi sognava di essere. Manolete se lo portò via un toro Miura di nome Islero, il 18 agosto 1947.

Potrei sbagliarmi, ma il rigore di Estiarte si stampò sul palo.

La prima volta che sono andato a veder toreare El Juli sono finito in un posto che si chiama Brihuega, a un centinaio di chilometri da Madrid. Pioveva grosso così e non se n'è fatto niente. La cosa mi è sembrata quasi magica. Bisogna sapere che Brihuega non è un posto qualunque: lì, durante la guerra civile spagnola, i soldati italiani mandati da Mussolini a fiancheggiare Franco, si presero una batosta storica. Nei libri la chiamano la battaglia di Guadalajara, ma in realtà tutto successe proprio a Brihuega. Gli italiani avevano studiato tutto per bene. In una guerra che spesso era barbaro corpo a corpo, per l'occasione avevano studiato qualcosa di moderno, pulito, e scientifico. Colonna motorizzata appoggiata da artiglieria e aviazione. Con la stessa tecnica i tedeschi si sarebbero da lì a poco divorati l'Europa. Loro contavano di sbranarsi velocemente un bel pezzo della strada per Madrid. Però successe una cosa. Si mise a piovere. Vedi come la Storia, alle volte, è legata a un filo. Da quella parti la terra è argillosa. Ci pisci sopra ed è già fango. Le piste da cui gli aerei dovevano decollare erano in terra battuta. Non riuscirono a staccarne uno da terra. L'artiglieria si vide un muro di nubi basse davanti e rinunciò a sparare. La colonna motorizzata andò avanti, ma il fango era dappertutto, e la passeggiata si convertì in tortura. Fecero fuori un po' di avamposti repubblicani che neanche avevano capito quello che stava succedendo. Poi si impantanarono definitivamente. I soldati avevano freddo, non c' era più niente d'asciutto, e la strada era un ingorgo tipo Raccordo Anulare la domenica sera. Il comando italiano decise che era meglio sostituire gli uomini con un nuovo scaglione riposato e asciutto. Immaginarono che si potesse fare: quelli bagnati tornavano indietro e quelli asciutti li sostituivano là davanti. Il tutto senza che i repubblicani, dall'altra parte, si accorgessero di niente. Ne venne fuori un ingorgo biblico. Su cui i repubblicani si avventarono senza pietà. Disfatta.

Dico tutto questo non per far lezione di storia, ma perché la pioggia di Brihuega, quel giorno, mi ha ricordato una cosa. Che non riuscirei a spiegare a nessuno cos'è la corrida senza parlargli della Guerra Civile spagnola (parlargli di che guerra furono capaci di fare), così come senza prima avergli fatto vedere una Semana Santa in Andalusia, o un quadro di Velasquez, o i pascoli delle ganaderie, dove crescono i tori, o il colore che ha la sabbia dell'arena a Siviglia. Non saprei spiegare perché, ma è così. Sono le diverse tessere di un'unica icona. Fai a pezzi l'icona e non capisci più niente.

Sono le sei e mezza de la tarde, l'omino scrive, la puzza di sigaro cova bestemmie in spagnolo. El Juli indossa un traje de luces color lilla e oro. Lo ammetto, sembra bellissimo. Lo sembra dal primo passo che fa, dal primo gesto che accenna. Il bambolotto fotografato davanti alla sua bella casa, in jeans e maglietta, è misteriosamente sparito. Qualcosa d'altro misura l'arena a passi lenti e si piazza esattamente in centro. Il toro è vicino alla barrera, fermo, stupefatto. E' entrato da poco e ha poco tempo per capire un sacco di cose. Anche il torero, in quel momento, ha quel problema: deve capire il toro, capire come corre, capire da che parte preferisce incornare, capire se è matto o vile o coraggioso. Capire se e dove è pericoloso. Per questo, le prime mosse del torero, sono, in genere, prudenti. Si fa passare il toro sotto gli occhi per studiarlo. Niente di più. In genere. El Juli, lui, ha un'idea diversa, su quei preliminari. La prima cosa che gli vedo fare, dal vivo, è mettere giù un ginocchio e inchiodarsi in una posizione che non prevede fuga da nessuna parte, e nessuna chance se il toro deraglia. Poi dà una scossa al capote, e getta un urlo al toro. Il toro si gira. Vede. Ha due corna, molta paura e mezza tonnellata di forza da sparare contro quello che vede. E lo fa.

(1.Continua)

La Repubblica, 10 maggio 2000.

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Ultimo Aggiornamento_Last Update: 10 Nov. 2001