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Alessandro Baricco
Data di pubblicazione: 26/04/02

Viaggio dalla Spagna all'Inghilterra per i match di Champions League in cerca delle emozioni perdute

MANCHESTER - A volersi fare l'Europa da sud a nord, da Barcellona a Manchester, c'era il calcio degli altri, da vedere, questa settimana, messo in vetrina da due semifinali di Champions League. Spagnoli, inglesi e tedeschi. Real Madrid, Barca, Manchester United e Bayer Leverkusen. Dato che è un anno che faccio penitenza guardando Comotto dribblare, ho pensato che era l'occasione buona per vedere che ne è del calcio sui campi dove, dice Platini, ancora sanno giocare e riescono a divertirsi. Così sono andato. E ho visto. A me affascina il prima. Quello che c'è prima del fischio di inizio. Per dire: incomincio a capire che calcio è se vedo come la gente arriva allo stadio e soprattutto: cosa mangia. Al Nou Camp, a Barcellona, delusione. Senza tante cerimonie si incolonnano in un'orgia di auto e motorini, arrivano all'ultimo, buttano giù un hot dog senza storia (chioschi globalizzati, non una fetta di jamon neanche a pregare), e, se gli resta un po' di tempo, finiscono ingoiati da uno store della Nike (sponsor del Barca), dove c'è molta Nike e poco Barca. 

A Manchester, lì, è un'altra storia. La partita è qualcosa che inizia tre ore prima. A casa, si vestono: maglia rossa, bella tesa sulla pancia birrosa, e via. Poi dritti a stiparsi come giapponesi in un tram che sballotta fino allo stadio. Venti minuti da incubo, per un claustrofobico (io), ma puro divertimento per loro, che, invece di svenire, cantano, aspettano le frenate per fare la ola, e ruttano la prima birra. Quando scendono, alcuni recuperano i bambini persi nel parapiglia, altri no. Non importa. Tutti si avviano verso lo stadio, e se ti stai chiedendo perché siano già lì due ore prima del fischio di inizio, la risposta ti arriva sotto forma di zaffata molesta. Prima pensi che ci sia nei dintorni una raffineria: poi inquadri i chioschetti degli hamburger, e capisci. L'ultimo incrocio, prima dello stadio, è un capolavoro. Se ne stanno a centinaia, finalmente a mollo in un tempo vuoto, appoggiati ai muri o seduti per terra, a sfidare piattini di roba micidiale: niente globalizzazione: cucina inglese (ossimoro): la cosa più leggera è una patata sepolta di fagioli. Il resto sono fritti semivivi, coperti da salse lubrificanti e varati in allegria su un fiume di birra. Ci vuole un fisico bestiale. Loro ce l'hanno. 

Intanto che smaltiscono (eufemismo), i dintorni gli versano addosso il mito dei red devils. Dalla spilla al vecchio calzino di Best, trovi tutto. Magari il calzino è falso, ma che importa? Il mito rumina incantamenti, ed è chiaro che quando tutto inizierà non sarà solo un pallone che viaggia, ma fantasie in libertà nella teste di bambini e assicuratori in pensione. Quello che capisci è che la partita in sé è una parte del rito, non necessariamente la più significativa. E il rito è puro divertimento, una cosa infantile e semplice. Un certo modo di giocare, nasce da lì, dalle fritture e dalle spilline. Come ha degnamente sintetizzato una volta Ryan Giggs, ala sinistra dei red devils: "Se lavori tutta la settimana, quando vai allo stadio lo fai per divertirti: per questo noi giochiamo sempre all'attacco: se attacchi, la gente si diverte". Magari un po' riassuntivo, ma efficace. 

Poi, gli stadi. Altra faccenda che modifica uno sport. Il Nou Camp, a Barcellona, è un mostro di cemento da 98 mila persone. Niente pista d'atletica, gradinate a picco sul campo. Non so cosa vedano quelli appollaiati nelle ultime file in alto, ma se sei giù, quello è calcio. Potrei dire che deodorante usava il guardalinee. E la finta con cui Overmars va sul fondo (sempre) ancora un po' e potevo toccarla. Stessa cosa all'Old Trafford: anzi, meglio. Più piccolo e con una pendenza morbida degli spalti, una roba dolce da collina inglese. Tutto coperto, lì, per cui la musica della folla torna giù con una violenza che stordisce, applausi o fischi che siano, un rimbalzo sonoro che stecchisce. Metti che sei un terzino col piede di Delli Carri e ti arriva uno spiovente da stoppare, e tutto l'Old Trafford sta cantando non so che canzonaccia vertiginosa: auguri. 

Già, la musica della gente. Quella ti colpisce. Niente a che vedere con gli stadi italiani: in quello è davvero un altro calcio. Questi commentano tutto. Il disimpegno, la zuccata dello stopper (ops, il centrale), perfino la rimessa laterale, basta che la fai un po' lunga. All'Old Trafford non fanno passare una scivolata da terzinaccio senza un'ovazione. A Barcellona, per un tunnel rischioso e inutile ti ringraziano in centomila. Il risultato è una musica diversa. Da noi è tutta una strisciata di rumorosi silenzi che si trascina, condita da imprecazioni varie, fino a quando la palla entra in area e, allora, boato. Lì è una cosa che non si ferma mai, applausi, poi ululato, poi un ooooohhhh da bambini (centomila bambini, però), un altro applauso (stop di petto), fischi, altro ululato (colpo di tacco), un secondo di silenzio (cross), boato (zuccata e palla fuori). Applausi. Un'altra musica, dico. 

In campo, un altro calcio. Potrebbe essere diverso, date le premesse? Al Nou Camp c'era un classico. Barca contro Real Madrid. Partita del secolo, dicevano i giornali, sdrammatizzando. Dopo dieci minuti si erano già viste cinque palle gol, e sembrava passata mezz'ora. Niente partita a scacchi: lì è chiaro che se tieni la posizione, bene, se invece preferisci giocare, meglio. E allora via con il dribbling al limite dell'area (tua), tocchetti al volo a centrocampo, mai un colpo senza fintare il contrario, scatto sistematico a dettare il passaggio, e poco importa se poi non ce la fai a rientrare. Risultato: palle gol a raffica e gente in delirio. Immagino che poi, vincere, gli freghi anche qualcosa: ma devono essersi messi d'accordo che o lo si fa in quel modo o non vale la pena. 

In quello squinternato mare di giocolieri pazzi, galleggia, immenso, Zidane. Passo dinoccolato di uno che prova le scarpe, sguardo sempre un po' preoccupato (di che?). Il Barca gli ha appiccicato addosso Motta, una specie di Tacchinardi con la classe di Albertini. Zidane la prende con calma, ricama controlli con tutte le parti del corpo, esce palla al piede da ingorghi indecifrabili, ogni tanto pianta accelerazioni che spengono l'audio del Nou Camp. Quando è il caso, mena. Cartellino giallo, al 28', per una bella ramazzata alle caviglie di Motta. Per chi ama il calcio, lui è un enigma non tanto per quello che fa, ma per dove lo fa. Il numero 5 sulle spalle non dice niente. L'ho visto partire davanti alla difesa, a dirigere il traffico. Poi però era anche sull'ala a crossare e in mezzo all'area a raccogliere il cross di testa (non il suo, a quello non è ancora arrivato). Allora la gente dice che gioca a tutto campo. Ma descritto così sembra un grullo che gira a casaccio. La cosa è più sottile. A me ricorda Michael Jordan. 

Non è che loro cercano il gioco: è il gioco che cerca loro. Loro sono il baricentro, il resto gli gira attorno, secondo una logica che ha qualcosa di irrazionale, perfino di magico. E se qualcosa accade, accade dove sono loro. Così, ad esempio, all'inizio del secondo tempo mi sono ritrovato Zidane proprio davanti, un po' defilato sulla sinistra, sulla linea degli attaccanti. Sonnecchiante. Come uno andato lì a cercarsi l'ombra. Forse non ne poteva più di Motta. Forse era stufo? Me lo stavo chiedendo quando il gioco se l'è andato a cercare. In quel posto abbastanza assurdo, che fin lì era sembrato poco più che un ricovero. Taglio di Raul e scatto di Zidane, tramutatosi di colpo in un specie di Overmars big size. 

Palla al piede taglia verso il centro con Cocu a sferragliare dietro, in recupero esterrefatto. Entra in area, dal vertice sinistro, ci pensa un istante e tra le tante cose che potrebbe fare sceglie, coerentemente a quel calcio lì, la più assurda: pallonetto di interno destro. Provateci, in camera vostra. Sei lì, a sinistra, in corsa, e stacchi un pallonetto di interno destro. Pallone nel sette, dall'altra parte, e Nou Camp allocchito. Il giorno dopo, sul "Mundo Deportivo", leggo la ricostruzione più precisa di quel gesto. "Una vaselina de Zidane cuando los azulgrana llevaban 55 minutos...". Non so, nel gergo calcistico spagnolo, cosa voglia dire "vaselina", e non voglio saperlo. Ma era quella cosa lì. 

A Manchester, altra storia. Perché il Leverkusen macina un gioco che sa di Italia, e i red devils ci rimangono appiccicati. Il mister dei tedeschi deve aver studiato i nostri: piazza giocatori sul campo come fagioli sulla scheda della tombola: come una vecchia signora dai capelli viola copre tutte le caselle e alla fine si alza e grida Bingo. Che per lui è un 2 a 2 di lusso. Dall'altra parte, i red devils: che hanno in mente un altro calcio ma lì sembravano bagnanti rimasti ingorgati sull'autostrada sognando il mare. Dalla palude di una partita tattica riescono giusto un paio di volte a staccare la loro mossa preferita, quasi un marchio di fabbrica, una cosa che, con quella esattezza, sanno fare solo loro (e, ogni tanto, il Chievo). Svuotano un pezzo di campo. Lo ammazzano. Non so come facciano ma riducono un pezzo del prato a zona deserta: non ti stupiresti di trovarci una famiglia a fare il picnic ("un posto così tranquillo..."). Quando l'hanno ben bene svuotato, ci fiondano dentro uno dei loro, partito chissà da dove, chissà quanto tempo prima, quando lo vedi è già in piena velocità, tipo fuga per la vittoria: e, sorprendentemente, ha anche la palla tra i piedi. Poi cross, zuccata y apoteosi final, comunque sia andata: fish and chips permettendo, tutti a scattare in piedi ululando gioia per un calcio che chissenefrega, I love this game.

La Repubblica, 26 aprile 2002.

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Ultimo Aggiornamento_Last Update: 10 Nov. 2001