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Alessandro Baricco
Data di pubblicazione: n.d.
Biblia.it

Con una scelta che non mancò di lasciare sconcertati i suoi contemporanei, Rossini smise di comporre per il Teatro, e dunque di fatto chiuse la sua carriera di compositore di successo, all’età di 37 anni. Aveva lavorato, fino ad allora, a ritmi forsennati: 36 Opere in meno di vent’anni: per quanto fosse maestro nel riciclare il suo lavoro e trasferire pagine di musica da un’Opera all’altra, resta un tour de force sorprendente. Gli valse una immensa fama e, probabilmente, lo status di compositore più ricco mai apparso prima sulla scena dello star system musicale. Le ultime Opere che scrisse le scrisse per i teatri parigini, concedendosi il lusso di conquistare la Francia dopo avere ottenuto tutto ciò che voleva in Italia.

Chiuse in bellezza con l’immane fatica del Guillaume Tell, andato in scena all’Opéra di Parigi il 3 agosto 1829. Poi, inaspettatamente, il ritiro. Nei 39 anni che la vita ancora gli concesse compose due soli lavori di una certa dimensione e ambizione: lo Stabat Mater (estortogli quasi con la forza da un editore irriducibile) e la Petite Messe Solemnelle. Il resto è un’assurda, fantastica raccolta di centinaia di piccoli brani da salotto: paginette di musica in cui gioco, genialità, noia, parodia, si mescolano a caso, con un unico, granitico, obiettivo comune: evitare di fare qualcosa di serio, o di grande, o di vero. E’ come se oggi Spielberg (il padre di E.T., per capirsi) smettesse di fare film e si ritirasse nel Vermont a scrivere, di tanto in tanto, piccole e assurde storie a fumetti.

Questo disco raccoglie alcune di quelle sconcertanti paginette (per alcune di esse Rossini coniò il titolo di Péchés de vieillesse: ed è un nome che può valere per tutte). Rossini avrebbe molto riso al pensiero che qualcuno si mettesse lì a studiarle seriamente, e a scrivere un testo per spiegarle. E in effetti, se solo uno accenna a farlo, si sente immediatamente ridicolo. Un po’ meno insensato sembra provare ad ascoltarle, e capire che strana e affascinante avventura umana, oltre che artistica, esse nascondano nella loro scandalosa leggerezza.

 

Rossini non spiegò mai, in modo consapevole e esauriente, le ragioni del suo prematuro ritiro. Coltivava il vezzo di minimizzare tutto, e anche in questo caso si limitò a lasciar cadere qualche battuta lasciata a metà. "Ho esercitato troppo la fantasia, e per la mia sensibilità così fragile..." Cose così. Di certo, il vero perno su cui ruotò la sua vita, la vera cerniera su cui si chiuse la sua carriera, fu l’esperienza della malattia. E qui, il termine malattia va spiegato. Rossini soffriva di diverse patologie che le cure fantasiose dei medici del tempo contribuirono a rendere più penose ed esasperanti del dovuto. Ma il vero male che accompagnò la sua vita, fu indubbiamente di matrice nervosa. Una diagnosi a posteriori è possibile, ed è anche stata fatta: ma qui non è tanto importante capire clinicamente, nel dettaglio, di che tipo fosse la non sanità di Rossini. Qui è più importante capire che la sua vita, e la sua musica, caddero interamente sotto il cono d’ombra di una fragilità (come la chiamava lui), di una condizione di debolezza nei confronti del reale, che segnò ogni suo gesto. L’immagine gaudente, solare e molto "italiana" con cui si è per lungo tempo tramandato il suo personaggio, contrabbanda un personaggio che non rende giustizia alla complessità del vero Rossini: e impedisce di avvicinarsi davvero alle ragioni segrete di quel che fece e di quello che, a un certo punto, si dedicò a non fare. Bisogna essere disposti a pensarlo come un uomo malato: e a pensare alla sua musica come a una musica malata. Allora, è incredibile quanto si possa scoprire, di lui.

 

C’è un particolare che viene tramandato a proposito degli anni del silenzio rossiniano (gli anni che videro nascere le pagine contenute in questo disco) che sembra particolarmente emblematico: lui non poteva più ascoltare la sua musica. Ne era a tal punto emozionato da non poterne sostenere lo choc. Bizzarro paradosso: un uomo che non è più in grado di percepire se stesso. Non andava a teatro a sentire le sue Opere, non gradiva neppure che nel suo salotto si cantassero le sue Arie più celebri. Dovette passare molto tempo prima che tornasse capace di sedersi al pianoforte e di accompagnare un cantante: si dice che pretendesse di farlo, comunque, a luci spente: come per proteggersi più possibile da qualsiasi insidia percettiva. Era come un uomo sopravvissuto ad un’esplosione.

 

Quell’esplosione la conosciamo bene: tutta la musica che aveva scritto in vent’anni di trionfi. Una musica che sistematicamente incendiava tutte le convenzioni dell’Opera, portandole a un grado più alto di intensità nervosa, e di emozione, e di choc. Il suo successo nacque in gran parte proprio da questo tratto esplosivo: il pubblico sentiva lo schiantare dei vecchi steccati, e l’irrompere fragoroso eppur controllato di un universo sonoro mai udito prima. Una musica estrema, si direbbe oggi. Il segno di una forza e di una sicurezza suoeriori, si sarebbe tentati di dire. E invece è vero piuttosto il contrario: quell’esplosione era il sismogramma di una debolezza vertiginosa, lanciata in fuga, a velocità mai vista, lontana dal reale. C’è qualcosa di nevrotico, di ossessivo, o anche semplicemente di esagerato, in quasi tutta la musica di Rossini, che parla il linguaggio di una vera e propria "follia organizzata". Se la tecnica compositiva riusciva a confezionare il tutto in contorni apparentemente stabili, l’essenza di quella intensità era caos puro, smarrimento, fuga schizoide. Rossini se ne scappava da tutto: dalle parole dei suoi librettisti, disegnando nell’aria vocalizzi che le polverizzavano, dalle storie che raccontava, bruciandole tutto dove poteva in fiammate musicali fini a se stesse, dall’ideologia del suo tempo, schizzando via per la tangente del belcanto là dove il dramma gli chiedeva a gran voce la libidine del romanticismo. Scappava. E scappando tracciava traiettorie elettrizzanti, ipnotiche. Simulavano una forza senza paure: erano la forza della paura.

 

Se quella musica era malattia in atto, la repentina decisione di non scriverne più cessa di essere un fatto inspiegabile o anche solo inaspettato: fu un passaggio naturale, quasi prevedibile, di un cammino iniziato molti anni prima. Fu semplicemente, e molto logicamente, un modo diverso di abitare lo stesso identico paesaggio della malattia in cui avevano dimorato quei vent’anni di musica esplosa. Non cambia il paesaggio: cambia il modo di abitarlo. Quando non hai più la forza di fuggire, quel che puoi fare è nasconderti, mimetizzarti, schivare i colpi. Gli anni del silenzio rossiniano sono il diario di questa astuta guerriglia contro la paura: combattuta con una strategia esattamente opposta a quella adottata fino a quel punto. Nascondersi, mimetizzarsi, darsi una struttura così fragile da diventare pressoché impossibili da colpire: tradotto in termini musicali: una nebulosa di piccole pagine inafferrabili, scritte prefribilmente declinando qualsiasi responsabilità. Il Rossini del silenzio è un Rossini che scrive musica per poterci sparire dentro. Usava l’ironia perché se scantoni nell’orizzonte del comico godi immediatamente di una certa impunità: ed è un modo per rievocare le cose senza che possano farti male. Amava imitare e fare il verso agli stili altrui (vedi il Petit Caprice) perché non poteva desiderare di meglio che mascherarsi fino a rendersi irriconoscibile. Scriveva pezzi minuscoli per scrivere musica evitando di scrivere Musica. E senza tanto pudore faceva trapelare, più o meno consapevolmente, le orme della malattia: scrivere tutta un’Aria su una nota sola (scrisse anche un’Ave Maria, su due note, quella), o musicare per decine di volte lo stesso testo (Mi lagnerò tacendo): gesti maniacali e ossessivi che sarebbero stati dolore puro e orrendo, e che lui riusciva, in questo modo, a cristallizzare in giocattoli che non facevano più paura. Ci vuole del genio, per mettere su certe strategie di difesa. Lui lo era.

 

Così, uno può anche pensare che pagine come quelle ascoltabili in questo disco siano sciocchezze bell’e buone, e domandarsi come abbia potuto, uno come Rossini, ridursi a disperdere il proprio talento facendo duettare due gatti. Può farlo. Ma sarebbe un modo di rigettare un’eredità preziosa. Quella musica è testimonianza e memoria di un paesaggio assai importante: il paesaggio della malattia. Sono il distillato di un viaggio per paesi che spesso sono i nostri. Hanno una leggerezza che suona come le parole dei vecchi: in qualsiasi idiozia, è mimetizzata una vita e crepita una forma di saggezza.

Grazie a Biblia, sul cui sito è stato reperito questo scritto di Baricco.  

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Ultimo Aggiornamento_Last Update: 10 Nov. 2001