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Alessandro Baricco
Data di pubblicazione: 28/05/95
La Stampa

Prima vai su per la Gravellona Toce, la gentile creatura del Nicolazzi, tre corsie quasi regolarmente deserte, uno dei tanti monumenti alla Prima Repubblica, un'autostrada della nostalgia, ormai. Poi giri a destra e arrivi a Varese, che detto così non promette niente di straordinario, e infatti.

Se però poi segui le frecce per Monte Sacro, lì è diverso, perché superi lo stadio (ricordo improvviso e veltroniano: ma una volta il Varese era forte, ci giocava anche qualcuno di speciale, forse Anastasi, prima di andare alla Juve, possibile? Anastasi, che nome, sembra una figura retorica, l'anàstasi, però lui accentava sulla a dopo, veniva dal Sud e doveva andare in Messico, ai Mondiali, dove non andò mai perché lo fregò l'appendice, qualche giorno prima, potrei andare avanti ore, mi fermo qui), superi lo stadio e incominci a salire in uno di quei posti tutto.
Boschi e ripetitori, roba da eremìti, diresti, o di caccia ai cinghiali. La strada monta su come il sogno di un grimpeur spagnolo, e a un certo punto ti deposita in un paesino, tutto aggrappato alla collina per non cascare nel nulla di sotto. Bel posto. Se guardi a destra intravedi un lago, se guardi a sinistra forse ne intravedi un altro (foschia, sorry), se guardi davanti ti sembra di essere sulla cima di un trampolino da salto con gli sci, solo che non c'è ghiaccio ma ciottoli, per terra, e alla fine, dove il saltatore dovrebbe spiccare il salto per poi planare su Varese, c'è una chiesa, a salvarti, una chiesetta niente di speciale ma bella nella sua modestia: e, sul sagrato, un palcoscenico.

La sua voce scende
e si allarga
come un'alluvione

E' per il palcoscenico che sono andato fino a li (tutto il resto mi è arrivato in regalo, ed è sempre una bella impressione): perché su quel palcoscenico davano una cosa strana, che si chiama Missa Luba, uno di quegli ingorghi religioso-etnico-musicali dove mi piace rimanere inbottigliato. Il testo è quello, in latino, del rito cattolico: Kyrie, Gloria; Credo e così via. Però la musica è africana (congolese), l'hanno scritta nei mitici Anni '60 e viene su da secoli di danze canti melodie tribali, dal cuore del tempo. C'è anche qualche inflessione da gregoriano, ma affogata nell'ondeggiante salmodia afro, e, sballottata, con dolcezza, da un piccolo complesso di percussioni. Fa effetto, sentire il tutto. Intanto è l'unica Messa in cui stai tutto il tempo a battere il tempo e a ondeggiare sulla sedia, mentre la senti.
E poi c'è 'sta storia delle parole latine - quelle dure del Credo, ad esempio - che evaporano su quella danza continua, cambiando colore, per così dire: e quel che ti sembra, se riesco a spiegarmi, è che non fanno più paura, ma danzano alla buona, senza tutta quella solennità, tanto che alla fine ti sembra una cosa da nulla dire quel Credo, che invece è un'enormità, ma non lì, sembra una cosa naturale e da uomini, non da santi. Strana impressione.
A renderla un po' più emozionante, nella circostanza, c'era una voce in più oltre alle cinquanta del coro Cantosospeso: quella di Miriam Makeba, a fare da solista. Lei è un mito ormai, una specie di bandiera delle lotte di liberazione dei neri africani. Fa anche un po' effetto vederla a Varese. Ma in effetti era lì. Capelli cortissimi, vestito da regina africana, nero e oro, bellissimo. Viso senza età, sorriso infinito. Ha una voce che in alto potrebbe essere relativamente normale, ma quando scende raccatta colori da tutte le parti, si allarga come un'alluvione, e non ne vedi più il fondo. Dietro, da qualche parte, ha una specie di cenere dentro il suono, come un ricordo di catastrofi.

Tra fedeli danzanti
l'allegra Missa Luba

di Miriam Makeba

 

Dopo aver griffato la Missa Luba si è portata sul palco i suoi strumentisti e ha staccato un tre quarti d'ora di show, dal Calypso ai canti dì liberazione, un'unica strisciata di sound nero. Non fa molta differenza se canta le parole politiche di una canzone per il Mozambico o sculetta alla grande sul motivetto idiota di una musichetta da Henry Belafonte: c'è sempre dietro quella specie di inossidabile, invincibile vocazione all'allegria, che a noi proprio non appartiene, che forse è la forza di quella gente, forse il limite, è difficile capirlo. Comunque ballavano tutti, lì a Varese, e non solo perché faceva un freddo dell'ostia, ma perché proprio non potevi evitare di farlo, avrebbe ballato anche Cioran, valga come un saluto, adieu maestro, chissà la fatica, fare il nichilista, in Paradiso.

La Stampa, 28 maggio 1996.
Un grazie al sito Cantosospeso

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Ultimo Aggiornamento_Last Update: 10 Nov. 2001