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Alessandro Baricco
Data di pubblicazione: n.d.
La Repubblica

Mario Vargas Llosa ha 63 anni. E’ uno dei dei maggiori scrittori viventi. Per capirsi: uno di quelli in zona Nobel. E’ nato in Perù, adesso vive un po’ a Lima, un po’ a Londra, un po’ a Parigi. Nel 1990 è stato candidato alla presidenza del proprio Paese (fu sconfitto, abbastanza a sorpresa, da Fujimori): lo dico per far capire che non è uno che ama nascondersi, non è uno scrittore ascetico e non ha bisogno di stanze foderate di sughero per scrivere. Narratore generoso e alluvionale, ha la stessa disponibilità quando si tratta di parlare, di sé o del mondo. Incontrarlo non è difficile. Io l’ho fatto a Parigi. Voce allegra, nessuna stanchezza in giro tra le sue parole o sulla sua faccia. Capelli da ragazzino pettinati con la riga e risata contagiosa. Chiedergli un po’ di cose è stato piacevolmente semplice.

Parliamo un po’ di libri?
"Volentieri, di questi tempi agli scrittori si chiedono sempre cose sul mondo, sulla politica..."

Ci sono scrittori che lei sente come suoi compagni di viaggio? O pensa che la sua parabola di narratore sia solitaria?
"No, io ho avuto moltissimi maestri, libri che mi hanno insegnato molto. Quando ero giovane leggevo i peruviani per dovere, ma la vera passione ce l’avevo per i francesi, i russi, i nordamericani. Mi ricordo Malraux... quando lessi La condizione umana, fu una rivelazione. E Faulkner. Da lui ho imparato il senso del tempo, l’idea di forma, l’ambizione a strutturare i libri in modo non ovvio... quella sua capacità di cambiare la voce narrante... mi ricordo che fu il primo che lessi con carta e penna di fianco al libro: leggevo e prendevo appunti. Una lezione. E poi Sartre, ma a dire il vero non come scrittore, piuttosto come maestro di pensiero... diciamo che lui tracciava la linea, lui era la linea filosofica da seguire... erano gli anni 60 e lui era la linea, capisce? "

Credo di sì.
"Lui era la linea. E poi... beh, Nabokov, ad esempio, Lolita, un libro straordinario, o Joseph Roth, La marcia di Radetzky, quello è uno straordinario romanzo storico, il racconto del disfacimento di un impero, passo dopo passo, una meraviglia. Ma anche Balzac, o Flaubert, o Melville, li leggevo e imparavo l’ambizione a scrivere romanzi ambiziosi".

Qualche italiano?
"Il Gattopardo, sì, Il Gattopardo, anche lì la storia di un mondo che muore, scritta benissimo. Mi ricordo che a un certo punto seppi che Vittorini ne aveva parlato malissimo, o forse si era rifiutato di pubblicarlo, adesso non ricordo, però mi ricordo che in quel momento decisi che non avrei più letto Vittorini, basta, cancellato" (ride).

Però son tutti morti. Voglio dire, qualche compagno di strada vivo ce l’ha?
"Beh sì, tanti... Enzensberger, ad esempio, forse lui è quello che sento più vicino a me, anche lui, come me, è una specie di cittadino del mondo... lui è un amico".

Lei di solito scrive in modo spettacolare ma sostanzialmente piano, semplice. Quando ha scritto Conversazione nella "Catedral", invece, ha scelto una scrittura molto complessa, che mette in difficoltà il lettore con cambi di ambiente, di voce narrante, di tempi... uno legge e spesso si perde. Le piace la complessità? O era solo un esperimento?
"Sa, in quel libro volevo raggiungere una visione per così dire sferica della storia che raccontavo... volevo raccontare otto anni di dittatura e pensai che bisognava riuscire a raccontare tutti i livelli di quella esperienza, tutti simultaneamente, lo stesso mondo vissuto dai poveri e dai ricchi, dagli intellettuali e dai servi... Va anche detto che era una storia tragica ma contemporaneamente grottesca, sentivo che per darle una certa verità occorreva una scrittura in qualche misura oscura, non limpida. Cercavo un linguaggio opaco, mi sembrava che fosse immorale usare per quella storia una scrittura limpida, brillante. E poi, sa, quando si è più giovani si è portati a credere che una certa oscurità sia in qualche modo una garanzia di profondità... E’ solo col tempo che si scopre che è vero il contrario".

Lei è ormai da anni uno scrittore affermato. Le interessa ancora cosa dicono i critici da lei?
"Io sono curioso. Per cui li leggo. Ogni tanto mi interessano, ogni tanto no. Non amo la critica accademica, filologica, esoterica. A me piace la critica creativa. Voglio dire mi piacciono i critici che usano i libri degli altri come uno scrittore usa la realtà: come un punto di partenza per creare propri mondi, proprie interpretazioni. Ma non è che ne siano rimasti molti di critici così".

La imbarazza se io le dico qualche nome di scrittore contemporaneo e lei mi dice cose le viene in mente?
"No".

Don De Lillo.
"Ho letto un paio di libri... ce n’era uno con una trama non male... come diavolo si intitolava..."

Philip Roth.
"Il primo libro era divertentissimo, Il lamento di Portnoy, lì mi ero molto divertito. Penso che sia uno scrittore un po’ diseguale... il suo rischio è che scrive troppo facilmente, voglio dire, gli riesce troppo facile, si vede, e io credo che uno scrittore debba fare un po’ di fatica a scrivere".

Pynchon?
"Mai riuscito a finire un suo libro. Devo dire la verità. Mai arrivato alla fine".

Sepúlveda. Da noi è amatissimo.
"Beh, c’è molto García Márquez in quei libri, no?, un po’ troppo..."

Isabel Allende?
"Stesso discorso".

E Umberto Eco?
"Beh, lui è uno spettacolo vivente, è una specie di icona contemporanea, non è solo uno scrittore, è qualcosa di diverso. Il nome della rosa mi era molto piaciuto, sembrava un Borges postmoderno, bellissimo libro. Poi Il pendolo di Foucault, quello non l’ho finito, mi ci sono un po’ perso..."

Saramago?
"No, Saramago no". (ride)

Okay. Fine del gioco. Volevo sapere cosa ne pensava di alcune parole d’ordine, o luoghi comuni, che regnano in questi tempi. Ad esempio: lei è convinto che difendere la civiltà del libro dall’aggressione della civiltà dell’immagine sia un battaglia sensata, e necessaria?
"Sì, assolutamente. Non possiamo sapere se il libro sparirà, fatto fuori dalle nuove tecnologie, ma finché c’è bisogna difenderlo. Io non riesco a immaginare nessun umanesimo capace di far a meno dei libri. La letteratura produce desideri, ribellione, attenzione per le differenze. E’ indispensabile. E poi sono convinto che la cultura dell’immagine sia sostanzialmente una cultura conformista, molto controllata, sottoposta a troppe regole. La letteratura invece è libertà. Per cui, sì, penso che si debba difenderla a oltranza".

Un’altra parola d’ordine è democrazia. Anche quella bisogna difenderla a qualsiasi costo, anche a costo di smarrirne il significato originario?
"Guardi, io ho vissuto due terzi della mia vita sotto la dittatura e un terzo in democrazia. Posso dire questo: non ci sono dubbi che la democrazia è l’unico modello che permette il progresso economico nel rispetto della dignità e della libertà dell’individuo. I modelli alternativi hanno tutti fallito: comunismo, fascismo, franchismo... solo fallimenti. Bisogna però capire che la democrazia è per sua stessa natura imperfetta. Non esistono democrazie perfette. Ci sono diversi gradi di imperfezione. Ad esempio la democrazia inglese mi sembra meno imperfetta di quella francese, ma a sua volta è più imperfetta di quella di certi paesi nordici, la Svezia, ad esempio. E devo anche dire che nessuna forma di democrazia può sopravvivere al cinismo, alla disillusione, alla stanchezza. La democrazia ha bisogno di passione, se no muore".

E la globalizzazione? La spaventa o la affascina? O tutt’e due?
"Mi affascina. Penso che sia la cosa migliore che poteva succedere al mondo. Non capisco ad esempio i francesi che hanno terrore di essere invasi da Hollywood o dagli hamburger... è un atteggiamento tribale, obsoleto. Vede, io ho una ferma convinzione: che tutte le apocalissi dell’umanità sono state generate, in passato, da due cause precise: la religione e il nazionalismo. E la globalizzazione è un ottimo antidoto contro entrambe. E’ un vaccino. Per cui non ne ho paura, anzi. Certo mi rendo conto che in certi casi produce effetti negativi, ma sono convinto che questo si potrebbe evitare se solo si capisse che alla globalizzazione è necessaria la democrazia: sono due forze che si completano. In assenza di democrazia, la globalizzazione può in effetti generare guasti enormi. E’ il problema del Terzo Mondo". 

Senta, lei con i suoi libri è diventato ricco, ormai...
"Beh, ricco forse è una parola un po’ grossa..."

Volevo sapere come le piace spendere i suoi soldi.
"Ah, spendo tutto (ride). Sa, io ho tre figli. Faccio di tutto per assicurare loro un’educazione migliore possibile. Ma l’idea di lasciare un’eredità mi ripugna (ride). E comunque... i soldi ti danno libertà, puoi viaggiare, puoi decidere di fermarti a scrivere un libro per anni... ma io non sono mai stato schiavo del denaro, anche quando sono arrivato a Parigi, negli anni 60, e non avevo un soldo in tasca, si campava con un panino al giorno, ma non mi importava nulla. Poi è successo quel che è successo, ma è stato giusto un accidente straordinario".

Lei a un certo punto ha deciso di impegnarsi nella politica, in modo anche molto diretto e clamoroso, candidandosi alla presidenza del suo paese. Lo fece perché ne sentiva il dovere, o c’entrava anche il piacere per il potere, l’ambizione...
"Tutt’e due. Pensavo che potevo essere utile a difendere la democrazia in Perù. E però c’era anche la fascinazione per la politica... sa, il gusto per l’azione. Uno scrittore non ha questa emozione dell’azione. Lì c’era. Poi tutto è stato molto difficile... violento e ingrato... fu un’esperienza tremenda, ma non me ne pento, fu una grande lezione di realtà, io credevo di conoscere il mio paese e poi, quando cominciai a girarlo da capo a fondo scoprii un paese che non conoscevo. Una lezione di realtà".

Lei in Europa è considerato un uomo di destra. Si riconosce in questa definizione?
"Il fatto è che io mi son messo a criticare il comunismo, o Cuba, in anni in cui questo non si poteva fare. O almeno: era impensabile che lo facesse un intellettuale. Mi ricordo che proprio in Italia, ad esempio, erano gli anni 60, beh lì era categoricamente impossibile che uno fosse un intellettuale e che non fosse comunista (ride, anzi ride molto). In realtà io sono un liberale, in quegli anni difendevo cose come le privatizzazioni, o un’idea più leggera di Stato, o i diritti dell’impresa privata... erano tutte cose inaccettabili dalla sinistra. Adesso sento parlare Blair, o i socialisti spagnoli, e ci trovo le stesse cose. Adesso abbassare le tasse è diventato di sinistra (ride). Lo ripeto: sono un liberale. E se la gente mi definisce in altro modo, non mi importa".

In Italia esce in questi giorni un suo romanzo intitolato La festa del caprone. Cosa le piace di più di quel libro?
"Ci ho speso tre anni della mia vita, questo mi piace. Tre anni per ricostruire il periodo della dittatura di Trujillo, nella Repubblica Dominicana. Era una dittatura emblematica, quella, il ritratto quasi simbolico di qualsiasi dittatura: tragica e grottesca. Una farsa feroce. In quel libro ho cercato di raccontarla". 

Adesso sta scrivendo?
"Sì, una storia che amo molto. E’ la storia di Flora Tristan, la conosce?"

No.
"Lei era un donna straordinaria. Era francese di origine peruviana, vissuta nell’800. Lei adottò praticamente tutte le utopie del suo secolo, Owen, Saint-Simon, Fourier... fu una delle prime femministe... ebbe una vita davvero avventurosa. Racconti la sua storia e finisce che racconti tutto un secolo, o meglio: i sogni di tutto un secolo".

 

La Repubblica, 11 novembre 2000

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Ultimo Aggiornamento_Last Update: 10 Nov. 2001