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Alessandro Baricco
Data di pubblicazione: 23/10/01
La  Repubblica

Dunque, dicevo. C'è una strana tendenza collettiva a definire la globalizzazione ricorrendo a esempi palesemente falsi (i monaci tibetani che navigano in Internet), o veri a metà (la liberalizzazione del mercato finanziario) o veri ma quantitativamente irrilevanti (l'indiano che beve la Coca, quelli che comprano i pannolini in rete). Se mi si passa l'immagine, sarebbe un po' come dire che due che fanno l'amore sono definibili come un'orgia a cui tutti gli altri non sono ancora arrivati. Curioso modo di pensare. Dove nasce questa innaturale vocazione all'acrobazia logica? Come è successo che il realismo della gente abbia accettato una simile incursione dell'immaginario?

Proviamo con una storiella. Siete a passeggio, in centro, il sabato pomeriggio, in mezzo a un sacco di gente. Improvvisamente vedete quattro persone (non di più: quattro) mettersi a correre all'impazzata gridando di terrore. In una frazione di secondo vi trovate a dover decidere tra queste due possibilità: sono quattro pazzi o sono quattro persone che hanno visto qualcosa che voi non avete visto: una casa che sta crollando sulla vostra testa, o un pazzo che impugna un mitra e sta per sparare. Se optate per la prima, continuate la vostra passeggiata scuotendo la testa. Se scegliete la seconda, iniziate a correre e a gridare. Mentre state pensando a tutto questo, altri umani, più veloci di voi, hanno già deciso e stanno già correndo. I quattro sono diventati magari venti. Il vostro cervello lavora, e giustamente inizia a inclinare per la fuga. E' sorprendente come in una circostanza simile ciò che fanno in quattro, o in venti, conti più di quello che non fanno gli altri mille. Ma è così. Prima o poi, c'è da giurarlo, vi mettete a strillare e a correre anche voi. Influenzando, a vostra volta, altri umani ancora più irresoluti di voi.
Se, in quel momento, qualcuno vi fermasse e vi chiedesse "Cosa sta succedendo?", voi, in realtà, non sapreste esattamente cosa rispondere. Probabilmente direste: stanno fuggendo tutti. Se qualcuno vi ferma e vi chiede "Cos'è la globalizzazione?", facilmente voi dovreste ammettere che non lo sapete. Ma fareste degli esempi: posso comprare tutto in Internet, la Coca Cola è dappertutto, i monaci tibetani navigano in rete, e posso comprare azioni in tutte le Borse del mondo. Stanno fuggendo tutti. In realtà quelli che stanno fuggendo sono ancora solo venti su mille, e magari non stanno nemmeno fuggendo, stanno solo correndo, o magari sono pazzi, o magari sta solo arrivando il pullman: ma quello che vi ritrovate a dire è: stanno fuggendo tutti. E' tutto ciò che potete dire. E ciò che è più importante: mentre state fuggendo.

E' ciò che sta succedendo nella testa della gente a riguardo della globalizzazione? Credo di sì. Un meccanismo del genere si sta macinando il mondo, o quanto meno l'Occidente. Il che ci introduce al cuore del problema. Che è una domanda: chi ha organizzato il gioco? Chi ha fatto crollare la casa sulla testa della gente o ha assoldato i primi quattro che scappavano? Non è pensabile che tutto sia iniziato per caso, e neanche che tutto possa andare così liscio, dopo, come una slavina. C'è troppa forza di inerzia, nello scivolare del pianeta verso la globalizzazione, per credere che non sia un cammino guidato, perfino controllato, passo dopo passo, e costantemente alimentato. Non basta capire come funziona il motore: sarebbe utile sapere chi sta continuando a metterci la benzina.
Allora una cosa che può essere utile è pensare semplice. Come sempre, quando le cose sono troppo complicate. Pensare semplice. Qual è il propellente della globalizzazione? I soldi. Forse non è inutile ricordarlo: ridotta all'osso e privata degli orpelli, la globalizzazione è una faccenda di soldi. E' un movimento del denaro. E' il denaro che cerca un campo da gioco più vasto, perché confinato nel solito terreno non può moltiplicarsi più di tanto e muore d'asfissia. Se voi producete stracchino, e siete diventato il leader del settore, e non potete pretendere che la gente della vostra città spenda ancora più soldi per comprare stracchino di quelli che già spende, allora, se volete continuare ad arricchirvi, avete una sola possibilità: vendere il vostro stracchino nella città vicina, e magari andarlo a produrre là, mungendo le vacche altrui. Per secoli, praticare questo trucchetto ha significato una sola cosa: fare la guerra. Invadere la città vicina. Comunque ve l'abbiano raccontata, la guerra è sempre stata fatta per rimettere in movimento i soldi, per conquistare altri mercati, per entrare in possesso di risorse altrui. Per far respirare il denaro.

La globalizzazione ha questo, di rivoluzionario: è un modo per far respirare il denaro attraverso la pace. Non solo non le serve la guerra: ha bisogno della pace. Non venderete mai stracchino in un Paese che è in guerra col vostro; né andrete a produrlo in un posto che rischia di essere bombardato, neanche se vi regalano il latte. Anche solo come ipotesi, la globalizzazione non sarebbe mai potuta nascere se non in un mondo senza guerra. Non voglio dire che il denaro è diventato improvvisamente buono, e ha deciso di non usare più lo strumento della guerra: voglio dire che in questo momento gli sembra tecnicamente più facile usare la pace. Il prezzo della guerra è diventato talmente alto, in termini di sofferenza e di destabilizzazione del sistema, da suggerire un'altra tecnica. Il denaro occidentale ha conquistato i Paesi comunisti sostanzialmente comprandoli: la soluzione si è dimostrata infinitamente più pratica che sganciare un paio di bombe atomiche. Solo cinquant'anni fa, sganciare le stesse era ancora l'unico sistema conosciuto.

Non è difficile capire come questa sia una svolta vertiginosa, e, in un certo senso, una "prima volta" nella storia dell'umanità. Il denaro che decide di muoversi non usando la guerra ma usando la pace. Il minimo che si possa immaginare è che i problemi siano molti e che tutto ciò sia realizzabile solo a condizione di una decisione collettiva, di una adesione di massa, anche irrazionale, al progetto. Ed è qui, in questo esatto punto, che nasce la parola globalizzazione e il suo mito. Se posso fare un paragone, quello che mi viene in mente è il West. Anche lì l'obbiettivo era di allargare il terreno di gioco del denaro per permettergli di riprodursi. La cosa si presentava in termini molto elementari: il West era l'allargamento ideale del campo da gioco: chilometri di terra solo da andare a prendere e da riempire di consumatori. L'unico problema era, per il mondo di allora, la distanza. Ed ecco la soluzione: la ferrovia.

Un po' come Internet oggi, la ferrovia riduceva gli spazi e il tempo. Avvicinava quello che era lontano. Faceva di uno spazio enorme un unico Paese. Bisognava però costruirla, e per farlo occorreva denaro, e per trovarlo bisognava che un po' di gente ci rischiasse i propri soldi, e ancor di più bisognava che un sacco di gente pensasse realmente di salire su quel treno e di andarsi a rifare una vita a migliaia di chilometri di distanza. Bisognava che un sacco di gente credesse che il West esisteva davvero. Bisognava spingere la gente al di là di quello che poteva ragionevolmente verificare, e portarla a credere senza toccare, a fidarsi senza avere le prove, e desiderare qualcosa senza nemmeno sapere bene cos'era. Bisognava rendere il West reale nella testa della gente, prima ancora che diventasse qualcosa di vero nella realtà. Non sarebbero mai partite, quelle ferrovie, se non fossero riusciti a metterci sopra, prima ancora di costruirle, la fantasia della gente. Non avrebbero nemmeno trovato i soldi per farle. In questo senso il West è un prototipo perfetto di una particolare situazione: qualcosa che non esiste ma che può diventare reale a condizione che tutti credano che esista.

Dieci anni fa, la globalizzazione era esattamente una cosa del genere. Una cosa che non esisteva ma che poteva diventare reale: a patto che tutti si convincessero che esisteva. I capitali hanno costruito le ferrovie: sono andati a produrre in Paesi lontani, hanno imparato ad usare la pace per poter accedere a mercati fino ad allora preclusi, hanno abbattuto gli steccati che asfissiavano i mercati finanziari, hanno cavalcato la rivoluzione di Internet, hanno moltiplicato le possibilità di consumo, hanno rischiato capitali immensi per costruire binari dappertutto. Ma per far partire effettivamente il treno bisognava che il mondo ci salisse sopra. Per mettere in movimento il denaro, bisognava che si muovessero i soldi di tutti. Per costruire un nuovo campo di gioco era necessario che tutti avessero voglia di scendere in campo. In un certo senso era necessario che l'immaginazione collettiva saltasse al di là dei fatti, per poi tirarseli dietro. Quel salto nell'immaginario, ha un nome: globalizzazione. Il nostro West.
Globalizzazione è il nome che diamo a cose come internazionalismo, colonialismo, modernizzazione, quando decidiamo di sommarle ed elevarle ad avventura collettiva, epocale, epica. Chiedersi se esiste o no, è una domanda senza risposta perché è una domanda mal posta: dipende. Contrariamente alle apparenze, gli esempi che la gente fornisce per definire la globalizzazione non sono scemi, ma mirabilmente esatti, e aiutano proprio a pronunciare quella domanda in modo più corretto. Proprio perché sono falsi, o veri a metà, o irrilevanti, colgono nel segno: dicono che la globalizzazione è una proiezione fantastica che, se considerata reale, diventerà reale. Prendete i soliti monaci. I monaci tibetani non navigano in rete, ma se tutti pensano che lo facciano, e tutti si comportano di conseguenza, tutti finiranno per produrre un mondo in cui i monaci tibetani navigheranno effettivamente in rete. C'è una definizione più esatta di globalizzazione?

La globalizzazione è un paesaggio ipotetico, fondato su un'idea: dare al denaro il terreno di gioco più ampio possibile. Chi ha inventato quel paesaggio, e chi lo sponsorizza ogni giorno? Il denaro. Quello dei grandi capitali, certo, ma anche il nostro, il piccolo denaro di chi lavora normalmente e se ci pensa bene si accorge che la struttura in cui lavora sta spingendo verso la globalizzazione, magari soltanto aprendo un sito WEB, o tentando l'e<\->commerce, o pubblicando una notizia piuttosto che un'altra, o muovendosi, nel proprio piccolo, come se la globalizzazione fosse già in atto. Un lavoro meticoloso che alla fine ha ottenuto il suo scopo.

C'è da stupirsi? Non tanto. In passato, e ripetutamente, il denaro è riuscito a convincere milioni di umani a farsi ammazzare in prima linea: perché non dovrebbe riuscire a convincerli di abitare il Paese del Bengodi? Per la sola misera ragione che quel Paese non esiste ancora? No. Deve stupire, se mai, che tutto non sia andato liscio come poteva. Ed è questo il punto in cui entra in scena il movimento dei no-global. I no-global sono quelli che, d'improvviso, son scesi dal treno. Il West gli puzzava. E sono scesi. E hanno detto che il re è nudo. E hanno detto che la nuova frontiera non era la loro nuova frontiera. Era un sogno di altri. E un sogno nemmeno tanto pulito.

Cosa pensare di loro? Son dei pazzi o son gli unici rimasti lucidi? Son dei luddisti o dei profeti? Condannano i poveri del pianeta alla miseria, o li difendono? Visto che un'idea bisogna farsela, proviamoci.
(2. Continua)

La Repubblica di martedì 23 ottobre 2001, sezione Cultura.

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Ultimo Aggiornamento_Last Update: 10 Nov. 2001