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___ MENU ___ Tra Gore e Mastella - La montagna di Al Gore e la ragazza di Paducah
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Alessandro Baricco
Data di pubblicazione: 17/08/00
La Repubblica

LOS ANGELES - Convention dei Democratici, metà pomeriggio di un giorno qualunque. Sul palco c'è una Kennedy, ramo laterale, comunque una che può dire mio zio Jfk. Applausi. Poi arriva uno che dalla stazza potrebbe essere una guardia del corpo e invece va al microfono e invita tutti alla votazione. Si tratta di approvare la Platform, il programma. Mi aspetto una qualche procedura piuttosto noiosa e quindi mi alzo.

CHI è favorevole dica yes, dice la guardia del corpo. Yes. Chi è contrario lo dica. Silenzio. Bene, approvata, e la guardia del corpo se ne va. Il tutto è durato dieci secondi.

Mi risiedo. Sullo schermo gigante parte un film. C'è una guida alpina che racconta di quando ha portato Al Gore sulla vetta di non so che montagna. Dice che a metà se la son vista brutta, una tormenta li aveva fregati, e così lui decise che era il caso di tornare indietro. Fu a quel punto che Al Gore disse: no, si va avanti, siamo qui per salire lassù e lo faremo. We will. E lo fecero. Fine del film. Applausi. Al microfono arriva il governatore delle Hawaii. Dice che i suoi avi giunsero in America, dal Giappone, cento e uno anni fa. Non avevano nemmeno i soldi per pagarsi una casa. E adesso lui è lì, governatore e felice. Thank you e aloha. Una voce che non si sa dove arriva dice che bisogna fare la foto, e che i delegati sono pregati di alzarsi, guardare in un certo punto e possibilmente stare immobili. La cosa dura un po'. Smile, dice la voce, ironica, a migliaia di persone che nella foto saranno puntini colorati. Tutti immobili, comunque. Dura più della votazione. Applausi e via a un nuovo filmato: Missy Jenkins era una ragazza carina e piena di vita: il primo dicembre 1997, dei ragazzi si misero a sparare, nella sua scuola, a Paducah, Kentucky. Lei fu ferita e rimase paralizzata dalla vita in giù. Centinaia di ore spese in cure massacranti, ma al momento di ritirare il diploma lo ha fatto in piedi, camminando sulle sue gambe. Finisce il filmato e lei è lì sul palco, di fianco al suo dottore. Abbozza qualche passo. I democratici sono per disarmare l'America. Per Missy Jenkins parte un'ovazione.
Cercavo un posto per pensare un po' a cosa diavolo sta diventando la politica in Italia. È un po' fuori mano, ma l'ho trovato.
Ad esempio: questa storia della corsa al centro. In Europa è una cosa che ormai abbiamo imparato a conoscere molto bene: cadute la grandi fedi, tutti ad ammassarsi in centro. Qui in America è una cosa abbastanza recente. Aveva iniziato Clinton, otto anni fa, andando a stanare i votanti repubblicani sul loro terreno. Bush ha imparato la lezione, ha messo nel cassetto le tirate da uomo di destra e parla come un kennediano convinto. Il risultato è che, a livello di programmi, la distanza tra i due poli si è ridotta al lumicino. Qualcosa di più che la sfumatura che divide Mastella da Casini, ma comunque sempre lumicino è. Sembra una faccenda di pura strategia politica, ma purtroppo non lo è. Semplificando il panorama politico con la teoria del bipolarismo e spostando i due poli al centro la politica non va, semplicemente, in un luogo: lo crea. Mentre insegue gli elettori, in realtà anche se li trascina dietro, fa del centrismo l'ideologia unica, innalza il buon senso a unica intelligenza rispettabile, impone la logica del moderatismo come sola strategia per governare il reale. Il centro diventa, pensa tu, un valore. IL valore.
La pressione, in questo senso, è talmente forte che la gente, in assenza di vere posizioni alternative, ormai percepisce le scelte politiche come obbligate, quasi che il pianeta avesse una sorta di pilota automatico e il problema fosse solo quello di trovare un pilota che tenga per finta il volante in mano e che, tutt'al più, sia in grado di intervenire se qualcosa si rompe. Qui in America, ad esempio, gli otto anni di Clinton hanno portato il Paese a un livello di ricchezza mai raggiunto prima. Dice Bush: alla guida poteva esserci chiunque, sarebbe accaduto lo stesso. Lo dice perché gli fa comodo dirlo, ma in certo modo interpreta un sospetto che è di molti. L'idea è che cavalchiamo onde che nessuno sa da dove vengono, quando finiranno, come funzionano. Il luogo delle decisioni diventa un punto invisibile, una qualche autorità sommersa, probabilmente banche e multinazionali, ma poi chissà. Da noi è stata la creazione dell' Unione Europea ad assolvere con eleganza questo ruolo di fantasma. L'alibi di doversi allineare all'Europa risolve, nel bene e nel male, qualsiasi conato di dibattito. È un totem indiscutibile a cui si sacrifica ogni immaginazione. Ed è un totem che si pone come necessità oggettiva: dalle norme sul fumo ai diagrammi del Pil, le regole piombano dall'alto come verità ovvie che da sempre stavano lì, solo aspettando che qualcuno decidesse di applicarle. La politica cessa di essere invenzione del possibile e diventa gestione del necessario.


In questo modo tutta la complessità di un'intera civiltà, quella occidentale, si coagula intorno a un unico asse, in un' orgia di omologazione che con un colpevole eufemismo si spaccia per pacifica corsa al centro. Non è che si corre al centro: è che non c'è più terreno, altrove. Politicamente, intorno hanno fatto terra bruciata. Si sta lì perché non c'è nessun altro posto dove stare.
Lì è un posto che, se sei un elettore, non richiede grande intelligenza. Se devi scegliere il pilota di un aereo che va praticamente da solo, finisce che accondiscendi alla scemenza, e scegli quello che ha la faccia simpatica, la pettinatura che ti va e un bel modo di fare. Per cui diventa fondamentale il ruolo dei media. L'apparenza diventa (quasi) tutto. Fino a che punto si può scivolare, mettendosi su una china del genere? Una convention democratica, ho effettivamente verificato, è il posto giusto per sapere la risposta.
Il luogo è lo Staple Center, cattedrale nuova di pacca consacrata all'entertainment e ai grandi raduni. Qui giocano gli splendidi Lakers di Shaq e Kobe. Qui, da ogni parte degli Stati Uniti sono venuti a giocare la loro partita decine di piloti che fanno volare, sempre a pilota automatico, milioni di persone. Salgono in processione sul palco e hanno tre minuti e mezzo per dire la loro. La loro è un discorsetto smerigliato, una lezione per qualsiasi politico italiano. Di solito è costruito in tre parti. Prima: euforia e fierezza per essere lì. Seconda: incupimento del tono, e breve momento di preoccupazione per i destini del Paese. Terza: trionfale indicazione della strada per vincere y apoteosi final (God bless you). Certe cose non smettono mai di funzionare. Allegro, Adagio, Allegro: lo schema di tante Sonate di Beethoven, per dire. Comunque. La prosa è secca, evita troppe subordinate, esclude qualsiasi metafora, si concede una breve citazione, non di più (più gettonato: Kennedy). Battute, poche: una battuta che non fa ridere distrugge più di quanto una battuta riuscita possa costruire. Gesti: pochissimi: fanno troppo ispanico e poi tanto le telecamere, che restano sul primo piano, li perderebbero. In compenso la voce accenta almeno una parola ogni due frasi. Se annoi, sei finito. L' esecuzione, in tutti, è perfetta. Ho dovuto aspettare due giorni per vedere finalmente una simpatica signora del Maryland farsi andare di traverso qualcosa, incespicarsi e tossire. Ho applaudito solo io. Gli altri: impeccabili. Te li immagini che studiano e ristudiano il loro discorso a casa, in ufficio, in macchina, lo ripetono alla moglie e ai figli in pigiama, in memorabili dopocena finita la partita di baseball. Ma la realtà è meno poetica. In realtà leggono. Hanno un gobbo di fronte e due ai lati su cui scorre il testo: tutti invisibili ai più. La cosa fa sì che praticamente loro abbiano solo tre posizioni possibili: guardano dritto, guardano a sinistra, guardano a destra. Naturalmente guardano con uno sguardo piuttosto strano: fanno finta di guardare il pubblico o la telecamera, ma in realtà gli occhi ce l'hanno sul testo che scorre, a grandi lettere, con le parole da accentare sottolineate. Così c'è sempre qualcosa di minuscolo che non funziona, in quello sguardo. Qualcosa di artificiale. Abbinato a quei tre movimenti obbligati, genera l'effetto automa. Pochi sono quelli riescono a far filtrare, da quella maschera da replicanti, una carica umana, una comunicativa vera. Non ci riesce Hillary, che fa il compitino e poco di più. Ci riesce qualche vecchio senatore che ne ha già viste di tutte, o qualche giovane di talento. Lunedì sera, ho visto il migliore: niente da dire: il migliore. È arrivato al microfono, ha ringraziato, poi si è sporto un po' verso la gente e con un sorriso da avance al bar se ne è uscito con un: bello essere tutti qui in California eh?

Chi si vede. Bill Clinton.

Link originario

La Repubblica di mercoledì 12 settembre 2001.

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Ultimo Aggiornamento_Last Update: 10 Nov. 2001