Film:” Il più bel giorno della mia vita.”

 

 Il titolo esprime insieme ad un noto luogo comune anche un paradosso :è infatti da sempre che consideriamo nell’ambito di una educazione cristiana il giorno della prima comunione come quello più bello della vita perché Cristo viene dentro di noi ad illuminare il nostro cammino con la luce della verità; il paradosso invece  è espresso dalla storia che il film ci narra, di come cioè il periodo di preparazione alla comunione corrisponda per la piccola protagonista alla acquisizione della consapevolezza che la verità che riguarda il mondo dei grandi della sua famiglia è caratterizzata da ipocrisie,disagi, paure, e che la stessa coppia dei suoi genitori vive una crisi esistenziale profonda che li porterà alla separazione.“ i miei parenti li vedo tutti così strani, Gesù aiutami a trovare la verità.” E’ lo sguardo scrutatore della bambina che svela i misteri che i grandi non riescono a celare perché la loro inquietudine,l’incapacità di comunicare in modo aperto e schietto,l’ insoddisfazione,il malessere profondo che li accompagna in ogni istante, avvelena i momenti più belli della vita Ci sono riunioni domenicali dove tutta la famiglia si ritrova per un faticoso ma immodificabile rituale dove ognuno preso dai suoi problemi è incapace di un vero contatto con gli altri e dove però si continua a nascondere la verità di ciascuno dietro una facciata di perbenismo e di negazione dei problemi: in questo è maestra la nonna, per la quale la finzione dell’immagine della famiglia viene sostituita alla realtà.

I temi del film sono: il malessere esistenziale, l’assenza di comunicazione autentica, un’attenzione trasandata o all’opposto ossessiva rispetto ai figli.Questi stessi sono i problemi che più di frequente mi trovo ad affrontare, nell’ambito del mio lavoro professionale, con le persone che si rivolgono a me per un aiuto psicologico Lo spunto che potremmo sviluppare insieme, tra i molti che il film offre, potrebbe essere quello di chiederci se veramente siamo sempre scrutati dall’obiettivo della cinepresa puntato su di noi dei nostri figli, se mentre noi li aiutiamo a crescere, magari distratti da tutti i problemi quotidiani e non particolarmente attenti a capire i loro disagi e le loro inquietudini, loro invece non ci guardano con molta attenzione e si interrogano sui nostri comportamenti spesso incongruenti, frettolosi, infastiditi,quando non arrabbiati e maldisposti.

Non so se ci sia proprio così facile far apprezzare ai nostri figli, la vita, far sentire loro che nonostante tutte la difficoltà la vita è degna di essere vissuta pienamente.

Queste sono le domande che ho pensato di rivolgervi perché voi possiate riflettere insieme.

Quesiti:

- riteniamo che la vita sia “ bella”?

- Se si: in che modo passiamo questo messaggio ai nostri figli?

- Se no: quale altro messaggio forte ci proponiamo di trasmettere?

 

Sofferenza o disagio mentale : La patologia del benessere            ( Vedere schema)

 

C’è una teoria molto esplicativa della nozione di dolore mentale:

 

Ogni persona possiede uno stato reale di Sé e uno stato ideale.La situazione di benessere è costituita dall’avvicinarsi dello stato reale all’ideale.

Se il mio livello di aspirazione non è troppo elevato rispetto alle possibilità che possiedo ( risorse materiali, opportunità che mi sono cercato o mi sono capitate, qualità  personali che possiedo, stato sociale ecc.) lo stato reale si può avvicinare molto e in parte sovrapporsi allo stato ideale.

Se viceversa i miei obiettivi non tengono sufficientemente conto delle mie condizioni: fisiche, intellettive, economiche, sociali, estetiche ecc., il divario che si apre fra lo stato reale e quello ideale corrisponde ad una situazione di sofferenza. Quanto più lo spazio è ampio tanto maggiore è la sofferenza, data da insoddisfazione, malessere esistenziale, senso di pesantezza nell’affrontare la quotidianità, sensazione di impotenza, insicurezza nelle proprie capacità, ipersensibilità rispetto ai giudizi degli altri, difficoltà a comunicare il proprio disagio a chiunque ed altro ancora. Essa si insinua nella nostra esistenza e ci impedisce di stare bene.

Tutto questo non ha a che fare direttamente con la perdita di qualcuno o di qualcosa, almeno non in modo diretto, come del resto neanche col dolore fisico o la malattia, che pure allontanano lo stato reale della persona dallo stato di benessere e di confortevolezza. Lo stesso si può dire per altre fonti di dolore. Se si è offesi da qualcuno, se si è umiliati a scuola, al lavoro, a casa, se si è delusi per il fallimento di qualcosa su cui si aveva contato, se non ci si sente sufficientemente amati o per niente amati, se si vivono forti sensi di colpa, vi sarà necessariamente  un divario doloroso tra rappresentazioni reali ed ideali del Sé. Oggi questo avviene più frequentemente e con intensità maggiore perché le cose sono investite di significati che non hanno fino a sostituirle con gli affetti. I figli spesso crescono in un regime di perenne gratificazione consumistica ma spesso privi di una solida base affettiva.

La risposta depressiva non è l’unica risposta possibile al dolore o all’anticipazione del dolore, ma è una risposta particolare nella quale, oltre al sentimento di non poter ripristinare o raggiungere lo stato desiderato compare anche uno stato affettivo caratterizzato da sentimenti di impotenza, disperazione, , un’attitudine che è essenzialmente rassegnata,di capitolazione e di ritirata.

La reazione depressiva ha un significato adattivo, nel senso che attenua il dolore sia fisico che psicologico, è una specie di coperta affettiva gettata sopra il sensorio dell’individuo. Così se tale reazione non può essere adattiva a lungo termine, nell’immediato è un tentativo di rallentare, isolarsi affettivamente per attenuare l’acutezza del dolore, per prevenire la disillusione e conseguentemente provare a contenersi da soli. Facciamo il semplice esempio del bambino che affronta per la prima volta l’asilo e vive con rabbia, disperazione, impotenza la sofferenza della separazione: dopo le proteste e i pianti l’impossibilità di poter cambiare le cose causa un senso di perdita dell’amore materno e l’annichilimento fa assumere un comportamento di chiusura di isolamento di apatia che rappresenta un autocontenimento rassegnato, prima risposta adattiva cui succederà un adattamento vero alla realtà del distacco.

Molti bambini tristi ma che si lamentano non si sono arresi perché il lamento contiene sempre un elemento di speranza, anche se la loro può sembrare una reazione depressiva, ma tali bambini possono entrare ed uscire dallo stato affettivo depressivo.

A quale età vi chiederete a questo punto si può parlare di infelicità, di stato dell’umore instabile o molto basso da potersi definire depresso?

Non sono molti anni che si parla e si studia la depressione infantile per una resistenza dell’adulto a riconoscere un’autentica sofferenza depressiva prima dell’adolescenza, resistenza dovuta alla difficoltà che abbiamo di abbandonare l’illusione di un’infanzia felice.

 

Difese per superare lo stato di disagio esistenziale, malessere, infelicità

Se il dolore è dato dalla distanza che c’è fra la realtà e l’ideale le difese contro il dolore mentale hanno lo scopo di avvicinare i due stati:

Una possibilità è quella di rifugiarsi nella fantasia: si può fingere di essere superman e di affrontare vittoriosamente tutte le difficoltà, si può immaginare di vincere tutti i nemici con il coraggio, l’audacia, la forza fisica, l’astuzia le abilità personali, con la fantasia ci si può anche identificare con il personaggio che ha le caratteristiche del vincitore. Questo entro certi limiti è terapeutico e può aiutare un bambino a recuperare fiducia, fintantoché la realtà non gli darà prove utili a fargli superare il momento depressivo. Il gioco è uno speciale stato intermedio fra la realtà e la fantasia, mi permette di identificarmi con ciò che sto facendo, ha come unico scopo il piacere di farlo, posso lasciarlo in qualunque momento, non c’è tanto il piacere del risultato ma il piacere dell’esecuzione, si svolge fuori del tempo perché si esaurisce nel presente, lo dilata, , può essere fatto con altri ma anche da soli. Assomiglia al sogno o all’attività creativa In forme diverse si continua a giocare tutta la vita, ogni volta che ci dedichiamo ad un’attività per il solo piacere di farla, ogni volta che superiamo i vincoli posti dalla realtà. Il gioco confina con l’arte, lo sport, coi quali condivide la dimensione espressiva. Il gioco è un momento importante per portare gioia nella vita di un bambino: nei campi di accoglienza dell’Asia dove i bambini scioccati dalla tragedia dello Tsunami stanno faticosamente ritornando a vivere si utilizzano giochi di gruppo come terapie indispensabili. Il gioco consente di raccontare, di esprimere quel che hanno vissuto in modo semplice, adatto alla loro età, con il linguaggio che è loro più consono

Diversa è la situazione se della fantasia si abusa e la fantasia diviene il rifugio costantemente ricercato per trovare una via di fuga alle frustrazioni della vita. Qui  ci è facile pensare a bambini ed adolescenti immersi davanti alla tv, affascinati dai videogiochi, che vivono in uno stato psichico che può andare dal torpore all’eccitazione, ma che comunque si sottraggono per parecchio tempo ad una realtà che non li soddisfa abbastanza o che li impegna  e che quindi rischia di essere frustrante per loro. Una difesa potente è anche la regressione: se il bambino può tornare a sperimentare se stesso come un bambino più piccolo e questo in qualche modo è legittimato attraverso la malattia o comunque la comparsa di sintomi fisici, il suo sé ideale può regredire e così il divario col sé reale. Inoltre c’è anche il vantaggio di essere curati e di sperimentare magari che sei sempre amato anche se pensi di avere deluso chi ti ama.

Naturalmente tutto questo può avvenire anche nell’adulto: i processi e i meccanismi sono gli stessi. Pensiamo alle quantità e varietà di sintomi fisici di natura psicosomatica che utilizziamo inconsciamente in situazioni difficili della vita, quante volte la malattia o l’incidente vengono a modificare per necessità una situazione che in nessun modo riuscivamo ad affrontare. Certo è un prezzo molto alto da pagare per uscire da un conflitto.

La capacità di tollerare il dolore e di sopportare una reazione depressiva temporanea è proporzionale alla maturità della persona. Per arrivare a questo comunque bisogna prima accettare di regredire, permetterselo, darsi il tempo per poter utilizzare i vantaggi secondari che derivano da questo stato per recuperare le forze e modificare gli stati del sé.

Tra le possibilità c’è naturalmente quella di affrontare il divario doloroso in modo attivo mobilitando tutte le risorse disponibili e trovando nuove forme di adattamento: non dimentichiamo che situazioni di frustrazione e di paura possono essere anche superate dalla mobilitazione delle proprie energie vitali, dall’incoraggiamento di qualcuno che crede nelle tue possibilità, dall’aiuto di qualcuno che può mostrarti che ci sono altre vie oltre a quelle che finora hai percorso, dalla semplice vicinanza affettuosa di una persona cara o un buon amico. In questa fase si può coraggiosamente ridimensionare il proprio stato ideale dandogli una misura più consona che quindi si avvicini di più alle possibilità reali 

Queste soluzioni rappresentano il modo di risolvere il divario della persona sana e sufficientemente matura.

 

 

Caso clinico

- Maria è una giovane donna sposata da due anni e con un bimbo di meno di un anno, delusa profondamente dalla situazione matrimoniale e dall’uomo che ha sposato.Quando lo ha conosciuto è rimasta affascinata dal fatto che fosse un uomo riservato e di poche parole, le ricordava, sia per l’aspetto che per l’introversione ricca di interiorità un attore che la intrigava molto e che rappresentava sin dall’adolescenza l’uomo dei suoi sogni. Non ci volle molto a capire che in realtà non c’erano in quest’uomo reale né profondità da esplorare né spessori nascosti, era silenzioso e riservato perché non aveva nulla da dire, nulla da raccontare, nessuna intuizione o emozione da comunicare. Come mai Maria, donna intelligente e sensibile, è caduta in una trappola di questo tipo?

Perché da molto tempo, forse fin dall’infanzia, aveva coltivato nella sua mente la fantasia di una bella storia da vivere e attendeva l’occasione per realizzarla. Al primo incontro, tratta in inganno da alcune caratteristiche di superficie ha creduto di aver trovato il protagonista del suo sogno.

Molte incomprensioni e delusioni nei rapporti di coppia nascono dalla difficoltà di far combaciare gli ideali con la realtà concreta, il sogno con la vita. Molto spesso abbiamo in mente un modello idealizzato che siamo andati costruendo nel tempo mettendo insieme come in un mosaico una serie di caratteristiche di persone del nostro passato con cui abbiamo avuto dei legami, da cui siamo stati attratti o affascinati o anche dei personaggi virtuali con cui non abbiamo mai avuto rapporti diretti, come ad esempio personaggi del cinema o della tv. A volte quanto più il personaggio è irraggiungibile tanto più lo utilizziamo per costruire una storia ideale.

Le storie ideali possono determinare non soltanto le nostre scelte ma anche la possibilità di essere o non essere felici. Quando avvertiamo degli indizi che ci sono delle coincidenze tra la nostra storia ideale e la realtà siamo improvvisamente presi da emozioni e da uno stato di soddisfazione e di euforia che spesso ci impedisce di vedere bene, siamo come abbagliati e anzi ci impegniamo in una operazione di mistificazione della realtà vera e usiamo anche delle forzature per far combaciare le due storie.

Le storie ideali dunque possono determinare non soltanto le nostre scelte ma anche la possibilità di essere o non essere felici.

 

Qual è la ricetta per riuscire a trasmettere il messaggio che “ la vita è bella?”

Fino ad ora abbiamo parlato soltanto dell’infelicità e di come è possibile affrontarla, e non è un compito facile, ma ancora più difficile sembra essere, guardandosi semplicemente intorno, osservando le persone vicine a noi e soprattutto noi stessi, riuscire a godersi la vita.

In Africa ci sono ancora delle tribù che da 4000 anni credono in una divinità che sostiene il parto e rimane accanto al bambino per 40, 50 giorni, fino a quando non ride perché soltanto allora si considera veramente nato. E’ ovvio che il sorriso o il riso ha una funzione sociale, è cioè in risposta ad una presenza, quindi è in funzione di qualcuno, perché certo i bambini lasciati a giacere nella loro culletta negli orfanotrofi non hanno alcun motivo di sorridere e si lasciano morire di depressione. E’ dal momento in cui inizia a sorridere che il bambino si mostra disposto ad apprezzare la vita e se c’è qualcuno capace di rispondere o sollecitare il suo sorriso sarà per tutti una gioia.

Al contrario un famoso depresso come il poeta Giacomo Leopardi esprimeva invece in versi sublimi tutta la tristezza del vivere, evidente a parer suo fin dalla nascita,interpretando il pianto del neonato come la disperazione per essere entrato a far parte del mondo e vedendo i genitori da subito affannati a consolarlo d’esser nato:”Nasce l’uomo a fatica ed è rischio di morte il nascimento. Prova pena e tormento per prime cosa; e in sul principio stesso la madre e il genitore il prende a consolar dell’esser nato. Poi che crescendo viene, l’uno e l’altro il sostiene, e via pur sempre con atti e con parole studiasi fargli core, e consolarlo dell’umano stato: altro ufficio più grato non si fa da parenti alla lor prole”.( “Canto notturno di un pastore errante dell’Asia”).

Certo, per alimentare la gioia naturale di essere in questo mondo non è detto che si debba sempre evitare  in ogni caso il pianto, la protesta, il disappunto, non è detto che ogni segnale di bisogno debba essere immediatamente messo a tacere tappando la bocca con il seno, il biberon o il ciuccio passatempo. Come non è detto che ogni desiderio debba essere soddisfatto, ogni conquista facilitata,ogni preoccupazione risolta, ogni dolore fisico immediatamente scomparire con un analgesico.

Quello che ci manca è la capacità di accettare che ci voglia un tempo sufficiente per capire e il metodo più efficace è riuscire a mettersi nei panni di…immedesimarsi,riuscire ad immaginare lo stato d’animo, i sentimenti, le emozioni dell’altro ma soprattutto darsi il tempo di capire quel che proviamo noi stessi.

Il tempo che passa fra una richiesta e il soddisfacimento della stessa è riempito da sogni, fantasie, alimenta il desiderio, attiva strategie utili a soddisfarlo, riempie la mente e il cuore ed è così che, quando finalmente raggiungo l’oggetto del mio desiderio, persona o cosa o evento che sia, apprezzo veramente e provo la sensazione così rara del pieno appagamento.

 

drssa Amelia Orlando, psicoterapeuta

 

Eraclea, 28 febbraio 2005