Elementi
fondamentali della spiritualità laicale
di Carmela Tascone -
29.07.2001
Riportiamo la relazione tenuta da Carmela Tascone alla settimana Adulti Giovani di Varallo Sesia dell'estate 2001
Premessa:
Vorrei introdurmi nel tema
che mi è stato affidato con qualche sottolineatura generale sul
significato di spiritualità. So che, in questa settimana, terrete sullo
sfondo, nell’affrontare i contenuti, una relazione molto significativa,
al riguardo, di Dora Castenetto, non voglio, ovviamente, sciuparla, ma mi
è molto utile fare alcune considerazioni brevi.
Innanzitutto, la spiritualità non è una parte della persona (cioè ciò
che riguarda esclusivamente il rapporto con Dio: la preghiera, la vita
liturgica, i sacramenti, ecc.), essa esprime tutta la persona, perché la
spiritualità è l’esperienza di una vita intera secondo una logica, la
logica di Gesù Cristo.
Quindi, non un fare alcuni gesti che richiamano fedeltà a quello che
Gesù ha detto, ma un assumere un modo di essere donne e uomini, alla
maniera di Gesù.
E’ un modo di pensarsi, di scegliere, di stare nelle situazioni; è il
far ritornare sempre, nella vita quotidiana, una domanda: " Ma tu,
Signore, in questo momento, in questa difficoltà, in questa situazione
cosa faresti?".
Certamente, a questa domanda non si deve dare una risposta
"copiata", cioè che ripeta in un altro contesto, in un altro
tempo, un atteggiamento o un comportamento di Gesù.
Noi non ripetiamo, ma facciamo memoria, cioè facciamo calare, in
proporzione, cioè nella nostra pochezza, una visione della vita, uno
stile, un senso delle nostre azioni, fortemente connotati dallo sguardo e
dal pensiero che il Signore Gesù ha sulla vita.
Quindi, essere donne e uomini spirituali non ha nulla a che vedere con un
astratto intimismo, assolutamente no, essere "spirituali"
rimanda alla vita concreta, alle relazioni interpersonali, alle
responsabilità familiari e sociali, all'impegno costante e continuo.
L’esperienza spirituale abbraccia ogni angolo del nostro cuore, lo
abbraccia a tal punto da renderlo docile e obbediente alla vita.
Non un’obbedienza passiva, ma propriamente l’obbedienza che arriva al
non "trattenersi", al non "difendersi dal dono", al
ricominciare ogni giorno ridando la mano a Lui, per non perderlo di vista.
Non alla maniera di vittime immolate, ma al modo di chi ha scoperto la
fonte inesauribile del senso e dei significati, alla maniera di chi non
vuole perdere nessun frammento della ricchezza umana del Signore Gesù.
La spiritualità non è un
vestito informe, senza misura, uguale per tutti. Il vissuto spirituale è
personale: vi è un modo personale di entrare nella prospettiva di Gesù;
ciascuno a suo modo.
Questo, però, non significa edulcorare le esigenze. La radicalità del
vangelo è la medesima per tutti, ma ciascuno la traduce nella sua vita.
Noi laici abbiamo una esperienza di vita cristiana diversa da quella dei
pastori o dei religiosi; non migliore, né peggiore (categorie ormai
giustamente superate), ma diversa.
Possiamo dire che essere donne e uomini spirituali significa vivere una
situazione globale di vita, tesa a fare e cercare la verità su noi stessi
e sulla realtà che ci circonda.
La verità che è Gesù; cercare la verità, quindi, significa conoscere
Gesù. Non una conoscenza solamente teorica, fatta sui libri, anche questo
per non cadere nel soggettivismo, in interpretazioni errate, ma una
conoscenza che poco alla volta porti al "saperlo".
Quando si "sa" significa che si è interiorizzato, si è assunto…..sapere
Gesù, quindi, significa assumerlo nella nostra vita, assumere la sua
"umanità", la sua mentalità, non in modo idealistico, ma a
partire dalla realtà quotidiana.
Il nostro modo di "sapere"
Gesù.
Fatta questa premessa, che mi sembrava fondamentale per partire col piede
giusto, possiamo introdurci nel tema.
Abbiamo detto che ciascuno, a suo modo, traduce Gesù nella sua vita,
cioè vive come donna e uomo spirituale.
Ciascuno, quindi, nella obbedienza di tutti, non annulla i caratteri della
propria esistenza, ma nel suo modo proprio si conforma a Gesù Cristo.
Noi laici abbiamo il nostro modo di conformarci a Cristo: stare nella
storia, assumere il contesto in cui siamo inseriti senza mai sottrarci
alla responsabilità che questo comporta.
Altrimenti sarebbe una grave omissione. Quello che vorrei dire è che il
nostro modo di "sapere" Gesù evolve, cammina, cresce dentro la
realtà del mondo.
Non perché noi siamo salvatori del mondo, il Salvatore è e rimane Lui,
neppure perché ci "chiniamo" sul mondo, Lui solo si è
"abbassato" fino alla morte. Noi siamo già "seduti alla
mensa dei peccatori", siamo in cammino con tutti gli altri: è con
questa consapevolezza che cerchiamo la santità.
L’atteggiamento fondamentale, innanzitutto, consiste nel vivere fino in
fondo la responsabilità intrinseca all’essere laici: appartenere alla
storia nel suo svolgersi quotidiano.
Un laico che si sentisse "a prestito" nella realtà tradirebbe
il modo suo proprio di conformarsi a Gesù.
Sapere Gesù, quali
responsabilità, oggi.
Ma di quale realtà stiamo
parlando?
In quale contesto ci muoviamo?
Non possiamo, qui, fare un’analisi compiuta, non ne abbiamo il tempo ed
io non ho la competenza necessaria, ma alcune sottolineature le vorrei
fare per aiutarci a calare nel concreto le nostre riflessioni.
L’aspetto che, mi pare, racchiuda tutti gli altri, o meglio sarebbe
dire, trasversale a tutti gli altri, è quello della cultura, intesa come
"forma complessiva della vita".
La cultura di oggi appare sempre meno ospitale, appare sempre di più come
possibilità, come strumento per affrontare la vita, superare gli
ostacoli, per arrivare all’obiettivo, non sembra essere capace di
interpretare il senso della vita.
Vi è uno scollamento sempre più grande tra sé e l’altro: prima di
tutto ci sono io, poi, se è necessario, entro in relazione con l’altro.
Una cultura dei diritti individuali che fa vedere la società come un’istanza
limitante, limitante il desiderio dell’individuo.
L’altro, gli altri non sono considerati interlocutori diretti delle mie
scelte, delle mie decisioni. Quindi, la relazione, il rapporto con gli
altri diventano una sorta di convenzione. L’ambito sociale, esso stesso,
è considerato come convenzionale.
Arbitro del soggetto è il suo "sentire", sono le sue emozioni.
Si cambia idea in modo repentino, non perché ho maturato una convinzione
diversa, ma semplicemente perché "sento" diversamente da prima.
Ci si dimentica che le emozioni necessitano di un discernimento e, quindi,
le scelte della vita sono concepite come un "provare".
Tutto è opinabile: vero e buono nella misura in cui è gratificante.
L’agire "provando" riduce al minimo i rischi, ma non investe
in qualcosa di "duraturo", di definitivo.
Ci si trattiene, ci si compromette poco al fine di poter sempre
ricominciare; non si vuole appartenere, o meglio, si appartiene sempre con
riserva alle istituzioni civili, ma anche a quelle ecclesiali.
Abbiamo detto che questa cultura, intesa come forma della vita, attraversa
e permea ogni esperienza…… Anche noi non siamo immuni.
Ma cosa significa "sapere" Gesù in un contesto di questo tipo?
In un contesto che sembra minare alla radice ogni scelta definitiva, ogni
"affidabilità".
Siamo sfidati, come cristiani, dalla sottile negazione di ogni ricerca di
bene, in particolare del bene comune.
Possiamo sperimentare questa sfida in tutti gli ambienti in cui viviamo.
Pensiamo, ad esempio, alla professione; ancora oggi, nonostante tutti gli
slogan al riguardo, il lavoro costituisce una notevole fonte di identità,
ma, sicuramente, sono modificate le sue connotazioni.
L’identità va riscoperta all’interno di una mobilità lavorativa
molto accentuata, una mobilità a volte favorevole, a volte gratificante,
a volte costrittiva. Il credente può trovare, in questo contesto, una
stabilità che non è frutto di estraneità, di astrazione, di
neutralità, ma che scaturisce dall’affidamento, dalla certezza che
anche l’esperienza della precarietà è "custodita". Questa
stabilità non è da intendersi come una sorta di ingenuità di fronte
alle complessità, ma come la tensione fondamentale a
"permanere" nella vita di ogni giorno in tutte le sue
implicanze.
Un permanere che si fa carico non solo di una costante ridefinizione della
propria competenza professionale, ma che assume anche l’ambiente
sociale, che assume le difficoltà degli altri, che si spinge nei meandri
dell’associazionismo sindacale, che non si accontenta del proprio
angolo, che non si vergogna di parole come solidarietà, giustizia,
partecipazione, ecc.
Le nuove forme del lavoro, spesso, tagliano le radici dell’appartenenza
ad un luogo, ad un gruppo, ad un ambito sociale…..si vive un rapporto
prettamente individuale.
La donna, l’uomo spirituale, forti della loro stabilità radicata nell’affidamento,
possono diventare un "territorio" sicuro, affidabile per tanti
fratelli e sorelle smarriti, privi di certezze, in balia di decisioni
altrui.
L’ambiente di lavoro, a volte, può essere un luogo anonimo, privo di
punti di riferimento, ai cristiani laici, questo non può sfuggire. Si è
credenti anche qui, nella ricerca paziente di soluzioni, di sintesi,
superando gli sterili individualismi, mettendosi a disposizione,
impegnandosi oltre il proprio dovere strettamente professionale. nella
consapevolezza che questo può comportare qualche difficoltà, qualche
incomprensione, può, talvolta, arrestare una carriera spedita……Sarebbe
proprio triste se anche noi allungassimo la fila degli scontenti, di
coloro che prima di aprire gli occhi, al mattino, già hanno chiaro chi
criticare, come denigrare, come sviluppare il qualunquismo. E’ indubbio
che lo spendersi genera immediatamente il rischio. ma Gesù cosa farebbe,
ora, qui, in questo mio ambiente di lavoro? …..Ritorna la domanda
fondamentale per un credente.
Un altro aspetto dello "stare" nella realtà è l’impegno
sociale e politico.
Le scelte che il cristiano è chiamato a compiere in campo sociale e
politico, soprattutto in una società come la nostra, sono estremamente
complesse e difficili.
L’impegno sociale impegna in ordine a scelte che cadono su di un terreno
sempre mobile, è difficile lavorare in un contesto di questo genere,
operare delle scelte che siano davvero il meglio, esprimere una tensione
positiva verso il bene……Questo, però, è il tipico modo di
esprimersi, possiamo dire, della carità sociale.
Vivere la carità sociale comporta inevitabilmente assumere il rischio
delle scelte. Rischio che qualche volta è preoccupante e lacerante. Si
può sbagliare, e sbagliare può voler dire, ad esempio, buttare via il
pubblico denaro, incidere in modo negativo sulle persone, sulle loro
condizioni di vita. Si può anche sbagliare, ma questo rischio è
inevitabile.
Nessuno ha le ricette pronte e nessuno può coprirsi le spalle più di
tanto.
Il cristiano che si impegna in questi servizi sa che va avanti per una
strada dove ad un certo momento rischierà di trovarsi anche solo, dove al
di là del richiamo ai grandi principi nessuno, neppure le strutture della
Chiesa, potranno aiutarlo più di tanto.
Egli deve sapere che, comunque, al momento buono molti si riterranno in
dovere di criticarlo. Questo deve essere messo in conto.
Allora, in qualche momento, anche sotto questo profilo, la carità sociale
diventa dura, diventa logorante; la tentazione è quella di ritornare ad
ambiti più sicuri, dove fare il bene è più gratificante, dove le linee
sono già date e, quindi, l’approvazione ed il ringraziamento sono più
garantiti.
Il rischio nell’affrontare problemi nuovi, talvolta anche gravi, spetta
ai cristiani, fa parte della carità: è un autentico servizio di carità,
come, spesso, ripetono i documenti della Chiesa, a partire dal
Concilio...; semmai bisognerebbe tra cristiani creare dei momenti e degli
ambiti in cui ci si alimenta di più, insieme, alla luce dei valori e dei
principi e ci si aiuta fraternamente nello scambio reciproco a trovare
anche, almeno in via generale, alcuni indirizzi possibili.
Cosa vuol dire per un cristiano, impegnato in ambito socio-politico,
vivere la speranza cristiana? Vuol dire credere, nonostante tutto, che la
storia è salvata e che suo compito è tradurre quotidianamente questa
salvezza; credendo, contro ogni speranza, anche quando sembra che il muro
sia invalicabile, anche quando sembra di doversi rassegnare….subendo le
situazioni anziché trasformarle.
Proprio in questi momenti, il cristiano, se vive la speranza, se crede
davvero che la salvezza di Dio è all’opera in questo mondo, deve essere
convinto che è possibile……pronto anche a ridiscutere tutto quello che
c’è da ridiscutere, e a correggere tutto quello che c’è da
correggere, perché anche questa è onestà, anche questo è esercizio di
carità.
In sintesi vorrei evidenziare alcuni criteri che mi paiono fondamentali:
In ogni forma di impegno si
snodano poi le relazioni, quelle brevi, non eccessivamente coinvolgenti e
quelle più profonde.
Proviamo a pensare, ad esempio, nell’incontro con gli altri, come possa
essere dirompente, oggi, un atteggiamento immediatamente accogliente.
Entrare in relazione comporta vincere la preoccupazione di apparire
ingenui, troppo disponibili, di dare un’immagine di debolezza.
La relazione con l’altro, per non essere convenzionale, chiede anche il
coraggio della verità: troppe volte si vive di ipocrisia. Cercare la
verità, sostenerla, può comportare anche impopolarità…..pazienza.
Vivere l’incontro con l’altro chiede di abbandonare l’atteggiamento
selettivo che troppo spesso connota le nostre relazioni e ci impedisce l’ascolto;
chiede l’umiltà di non stare sempre al centro rovesciando fiumi di
parole.
La relazione chiede di essere affidabili, cioè sinceri nel profondo,
magari correndo il rischio di essere imbrogliati, ma fortemente
determinati a non imbrogliare.
Questi atteggiamenti, in un credente dovrebbero poco per volta diventare
abituali, consueti. Essi, inoltre, vanno tradotti nel gruppo….nella
comunità….nella collettività.
Guai a noi se riducessimo tutto al piano personale, arrendendoci nei
contesti in cui operiamo, come a dire che le regole del gioco impongono
atteggiamenti più compromissori, meno lineari.
Il deserto nella vita
spirituale
La prospettiva del divenire donne e
uomini spirituali comporta anche l’esperienza del deserto, della fatica,
della difficoltà.
Vi è un’esperienza soggettiva del deserto dettata dalle condizioni di
cammino di ciascuno: dalla fragilità, dal non tenere il passo, dalla
stanchezza di stare sempre sulla breccia, dal desiderio di una vita più
calma, dal passare degli anni; ma vi è anche un’esperienza oggettiva,
legata alla situazione concreta, storica, contemporanea, dove si tenta di
omologare tutto ed il contrario di tutto.
Tuttavia il deserto ha anche una forte risonanza biblico-spirituale: è il
luogo della prova, della tentazione, della ribellione, ma è anche il
luogo in cui si sperimenta la tenerezza di Dio….."La condurrò nel
deserto e là parlerò al suo cuore".
Il deserto è la via della purificazione che ci introduce alla terra
promessa…nel deserto cadono le maschere, le coperture: l’apparire per
quello che non si è; è impossibile barare.
In questi momenti occorre accogliere la situazione senza troppo difendersi….sono
i momenti dove, pur nel buio, occorre rinnovare l’affidamento, occorre
far leva sulla memoria del passato, quando abbiamo sperimentato fino in
fondo la vicinanza e l’attenzione del Signore.
Il pane del cammino
Quale pane per questo cammino,
cioè quali condizioni per vivere da persone spirituali?
Il primo pane necessario è lo sguardo contemplativo….il senso dell’operare
sta qui, questa dimensione non è un momento particolare, ossia il momento
della preghiera, ma riassume tutto il nostro atteggiamento fondamentale.
Solo attraverso la dimensione contemplativa la nostra vita si andrà
unificando, certamente la contemplazione richiede una fedeltà, fatta
anche di tempi, di luoghi, di solitudine (che non è isolamento)……chi
non sa stare con se stesso, non sa stare con i fratelli.
L’Eucarestia è il pane per eccellenza del nostro cammino. E’ la
memoria di Gesù, della sua dedizione, del suo morire e risorgere; per noi
è la fonte costitutiva, la radice e il significato del nostro andare o
del nostro stare.Una donna, un uomo spirituale non possono fare a meno
della celebrazione eucaristica, vi ritrovano il senso ed il significato
della propria dedizione. L’eucarestia è il pane vitale, quotidiano,
fondamentale per mantenere alto il livello del dono, non alla maniera di
chi è superbo e si dona dall’alto della sua disponibilità, ma in modo
umile e gratuito.
Un'altra condizione del cammino del credente è la preghiera; essa non
può essere riducibile ad un momento, al "tempo" della
preghiera.La preghiera è, innanzitutto, l’atteggiamento fondamentale
della nostra vita, non è primariamente un’azione, ma è una dimensione
profonda che si esprime, certo, anche attraverso l’azione del
pregare.Vivere questo atteggiamento comporta "stare" rivolti al
Signore Gesù nelle scelte quotidiane: è offerta del proprio operare,
quando si deve tenere una posizione, quando non si deve fuggire da una
situazione complicata: " Signore se dipendesse da me non starei qui,
non parlerei, non affronterei questo conflitto…. Ti offro Signore questa
fatica"Nella preghiera intesa in questo senso si porta dentro fino in
fondo la realtà in cui si è inseriti: la preghiera si fa domanda, si fa
intercessione……non consente di sottrarsi agli impegni, alla dedizione,
ma rimanda ad essi con cuore purificato.
Indubbiamente, un atteggiamento di questo tipo chiede di essere costruito
attraverso momenti di silenzio, dove si "sta" davanti al
Signore, dove l’unica preoccupazione diventa quella di guardare il
Maestro, di stare in ascolto della sua Parola.
Una vita impegnata chiede spazi di preghiera prolungata, altrimenti il
rischio della dispersione si fa forte.
In questi momenti è prezioso sostare sulla Parola, è una parola
oggettiva, pronunciata per la nostra vita. A volte, quando la nostra fede
è messa alla prova e non siamo più in grado di dire nulla al Signore,
possiamo parlargli attraverso la sua Parola, possiamo ripetergli,
attraverso di essa, che desideriamo continuare a fidarci di Lui.
Anche il sacramento della riconciliazione è una condizione importante per
crescere nel cammino spirituale, oltre al perdono del Signore, esso è un
momento importante per rinverdire la speranza, l’impegno, la generosità…..
Come vedete non vi sono atti straordinari per il cammino, vi è
semplicemente una direzione da intraprendere, una strada da percorrere, un
affidamento da consolidare.
I frutti del cammino
In questa prospettiva, poco per
volta si vanno raccogliendo i frutti di una vita unificata; cioè una vita
che rivela una fisionomia spirituale che riscopre in Gesù di Nazareth l’unico
riferimento della vita, cioè Colui per cui vale la pena
"giocarsi" fino in fondo.Questa dedizione si esprime nell’assunzione
quotidiana del proprio vissuto, senza pensare ad avvenimenti eclatanti,
stravolgenti, ma semplicemente quelli che la vita presenta.
Ma di quale fisionomia spirituale si tratta?
E’ la fisionomia dell’uomo, della donna delle beatitudini…..è la
fisionomia di chi vede e riconosce il proprio bisogno, la propria
insufficienza e dipendenza, di chi non abusa di alcun potere, di chi sa
dominare se stesso e lascia spazio agli altri. Di chi è mite e
misericordioso, di chi si sa sottoporre al sacrificio per agire
rettamente.
L’uomo e la donna spirituale devono aver fame e sete della giustizia,
devono essere come luce e sale per gli altri; non devono nascondersi.
Non devono essere mossi da falsa febbre di protagonismo, ma devono restare
al loro posto a causa del loro compito.
La fisionomia delle beatitudini, infine, ha il carattere di promessa
sicura e ha una forza profondamente liberatrice, non è un obiettivo da
raggiungere, ma uno stile globale, consueto, lo stile del discepolo del
Signore.
Carmela Tascone