Il soggiorno di Satana


Vincenza  ||  Noia
indice amici
  ||  Home adrianomeis  ||  Parole

Si fa fatica  ad immaginare che il “Diavolo” in quel dicembre caldo molto più caldo degli anni passati , in quel dicembre, dicevamo, del  1985 potesse trovare piacevole sostare in un anonimo paesino dal nome di un famoso santo e in atmosfera natalizia per giunta, la quale come si sa rende tutti più buoni e comprensivi, più  fedeli e più tolleranti. L’epoca in verità sembrava essere negli ideali della gente e nella morale comune in attesa di spiragli di luce davvero illuminanti in quel mondo cieco della cieca intelligenza degli uomini , essi sempre più competenti sempre più specializzati, sono ridotti al punto di dover aggirare continuamente gli altrettanto specializzati ostacoli che creano gli uni agli altri nell’umano convivere. Fu forse per questo che il “diavolo”trovò simpatici i Sammarchesi in dialetto locale: Santumarchisi; esseri rozzi, veri trogloditi, col gran pregio di essere accomunati da un sentimento di genuina e sgorgante malignità scevra da ogni cervellotica sovrastruttura “evoluta” e moderna, e cosa ancora più importante: ancor meno che intellettuale, una vera e propria oasi dell’istinto umano ove i Sammarchesi dovrebbero essere indicati come specie protetta e in via d’estinzione. Veniamo agli accadimenti di quel natale del 1985. Fu così che “il diavolo” scelse di personificare un bel ragazzo per farsi poi incontrare da Luisa, una ragazza Sammarchese, nel viaggio di ritorno da Roma  poiché ella aveva sostenuto un esame d’ammissione alla facoltà di sociologia in una delle Università in quella città. Luisa rimase davvero colpita dalla bellezza inverosimile di D.,  ma il modo in cui egli seppe corteggiarla e conquistarla, le fecero dimenticare ben presto anche la sua appariscente prestanza fisica. Decise così di botto, come fanno tutti i Sammarchesi, di invitarlo a casa sua per sfoggiarlo con i paesani ma non era ancora sicura se come fidanzato o collega d’Università. Non se ne preoccupò granché  “che i paesani rimangano nel dubbio! Come mi divertirò, ancor più se poi ne susciterò l’invidia!“ D. credette di toccare il centro della terra con un dito, era da tempo che non si trovava davanti una sorgente di cattiveria pura come quella, il solo pensare che la sua abbagliante bellezza non aveva estratto da quella ragazza neppure un milligrammo di nobili sentimenti né residui di valori morali  ancor meno ciò che più si aspettava: amore a prima vista. Così forte era il desiderio di vederli soffrire, i Sammarchesi, il gusto per la vendetta di Luisa era ormai palese. D’altro canto i Sammarchesi erano pur capaci di morire per motivi come questi e non è da escludere che passando tutta la loro vita lividi e illivoriti dalla bile  ora nei confronti del vicino oppure in quei del dirimpettaio, morissero anche con buone probabilità tra quelle angustie. D. trovava ciò qualcosa di grandioso e l’idea di soggiornare in questa specie di “Infero” lo rendeva sempre più impaziente di immischiarcisi.  Giunsero a Teano alle diciannove e trenta del giovedì ventitré dicembre e D. discendendo dal treno sentì le narici riempirsi di un aria che gli diede quasi le vertigini, pensò “Ci siamo”! Luisa gli trotterellava accanto , di molto più bassa lo anticipò di qualche passo e quasi gridò indicando un automobile rossa “ecco mia sorella che è venuta a prendermi, vieni!”  Luisa era talmente eccitata che non si domandò neppure una volta come mai D. avesse accettato così docilmente l’invito a casa sua tanto era stata forte la preoccupazione che lui non fosse disposto. Arrivarono a San Marco dopo un quarto d’ora e Luisa si preoccupò un poco soltanto al pensiero del padre nel vedere lo sconosciuto, entrarono in casa e anche la madre di Luisa dagli occhi sgranati per la curiosità non seppe sottrarsi al fascino di D. e a quello che avrebbe potuto suscitare negli altri, presto decise che l’ospite della figlia gli fu gradito e che l’unico da convincere sarebbe rimasto il padre, il quale non  ebbe una reazione negativa ma semplicemente provò alla novità una confusione che sulle prime non riuscì a spiegare, ma nemmeno era aduso a sparare a zero con giudizi che si sarebbero potuti rivelare sbagliati, fatto sta che su quella novità della giornata voleva chiarirsi meglio con se stesso. Il signor Michele era quel che si dice un brav’uomo con un senso sacrosanto della famiglia per la quale lavorava con abnegazione rara, avendo sua madre inculcatogli che “l’uomo è il pilastro della casa e deve sempre fare in modo che non manchi niente alla moglie e ai figli”. Michele seduto a capotavola pensò a queste parole guardando lo sconosciuto suo nuovo commensale in quella strana e imprevista serata  “Come mai  ha deciso di venire a S.Marco, signor Daniele?”  chiese facendosi coraggio e cercando di non turbare troppo l’atmosfera familiare: “Mi scuso per l’inaspettata intrusione, ma Luisa ha talmente insistito, arricchendo di racconti sugli usi e le tradizioni del suo paese da riuscire ad incuriosirmi e, sa… essendo studente di sociologia….”  D. trovò squisito il pasto  offerto dalla madre di Luisa e realizzò che se tutti i sanmarchesi mangiavano così non si poteva certo dire che si accontentassero di poco. Altrove si consumavano pasti frugali e veloci e  “il piacere della gola” era qualcosa da considerarsi ormai legato ad un periodo arcaico della storia degli uomini. Egli trovò inoltre interminabile il tempo passato seduti a tavola a mangiare quando ormai l’accessorio tavolo era praticamente scomparso dai progetti delle moderne cucine, sostituito da mobili penisola su cui appoggiare piatti realizzati velocemente e altrettanto velocemente da consumare in piedi o  tuttalpiù su essenziali sgabelli.   D. cominciò a sospettare che si trovasse in un luogo ove tutto era fermo a qualche secolo precedente in virtù dell’incepparsi di quel meccanismo che è la molla del progresso e spinge l’uomo al mutamento continuo all’interno e all’esterno di sé che si chiama insoddisfazione.   Daniele confessò a Luisa che “ l’insoddisfazione” che provano gli uomini per le cose che fanno e che poi vorrebbero diverse, credendo di migliorarle, gli sembrava un malessere sconosciuto a S.Marco, e disse  che sicuramente ci doveva essere un malessere di tutt’altro tipo. Luisa si limitò a guardarlo affascinata, ma completamente disinteressata al contenuto del quesito del bel ragazzo. 
A Daniele fu preparato un soave e bianchissimo lettino, curato e ben fatto nei minimi particolari in una stanzetta dal gusto spartano con pochi mobili, e che, in genere, avrebbe dovuto essere quella degli ospiti. Ancora una volta ringraziò per la cortesia e diede a tutti la buona notte, poi si rinchiuse nella camera.  Diavolo era finalmente se stesso e cominciò a rimuginare su quelle cose e su quelle persone con cui era entrato in contatto e dovette riconoscere di sentirsi piuttosto stanco, come se quell’aria e quell’atmosfera avessero avuto il potere di snervarlo “Sono abituato a ben altro, ci mancherebbe!-  ma non si convinse e continuò a dirsi- figuriamoci se un branco di sprovveduti sempliciotti possono  mettermi in crisi- e pensò ancora- combatto con la miscredenza e il cinimo degli uomini, con la raffinata intelligenza dei metropolitani così disincantati, con l’insensibilità dei mistici, con l’ottusità degli scienziati, non mi farò scalfire l’anima da questa brava gente”. Si mise a letto e si addormentò come un sasso, al risveglio l’indomani dovette anche ammettere che da tempo non gli accadeva una cosa del genere, forse non gli era mai successa. Per non spaventarsi dovette sforzarsi di pensare al programma in quel suo nuovo giorno a S.Marco. 

Decise di vestirsi in maniera sobria credendo che in tal modo la curiosità della gente sarebbe stata più contenuta, poi l’ansia cominciò ad impadronirsi di lui creandogli qualche problema.  Soprattutto in previsione del giro che Luisa gli aveva promesso di fargli fare per conoscere i suoi amici. Luisa era particolarmente attraente: quel rossore sulle gote, quegli occhi grigi, rotondi e brillanti, forse per tutte le aspettative riposte nell’evento Daniele a S.Marco.  

Giovanni era un ragazzo amico di Luisa sin dalle scuole elementari e col quale ella non aveva mai avuto un rapporto così particolare, ma non c’erano mai stati scontri fra di loro, ecco, forse perché Luisa non gli dava grande importanza, ma, per l’occasione, fu il primo “banco di prova” la conoscenza del primo sanmarchese, chiaro. Diavolo trovò il ragazzo piuttosto scialbo: nemmeno l’aspetto fisico era accettabile! Magro, rachitico come da tempo non se ne vedevano più, un ragazzo dall’aria spersa e triste come se avesse seri problemi ad aver voglia di vivere nonostante la sua giovane età. Troppo depresso, Giovanni apparteneva a quella parte dei sanmarchesi “aspiranti suicidi”, ma Diavolo non poteva certamente incuriosirsi per costoro, erano gli altri che lo interessavano, i pettegoli, i maligni, gl’invidiosi, quelli attaccati ala vita, insomma e che avevano reso ragazzi come Giovanni inservibili, emarginati, da buttare. Sapeva però, guardando lo stato della vittima Giovanni, che doveva quindi esserci una categoria di individui, se non addirittura tutta la popolazione, i perniciosi.
Queste persone hanno il culto dell’essiccazione della massa cerebrale altrui, portandoti alle soglie della morte, facendoti perdere autonomia, padronanza e gestione di te.  “Ma come?- richiese D.- come poteva avvenire tutto ciò?”  Daniele chiese a Luisa se gli abitanti fossero in aumento o in decremento, ella non riuscì a rispondere, perché effettivamente non lo sapeva, disse che durante l’estate e le feste c’era un aumento notevole “per quelli che lavorano fuori” e con questa strana definizione prese il ragazzo sotto braccio portandolo in prossimità di una vecchia casa dall’aspetto di dimora del signorotto del paese.  Intendiamoci: il signorotto di quel paese non è che avesse maggior blasone dell’esser medico o avvocato o maestro o prete del paese stesso, ma ciò era bastante per elevarlo sugli altri e conferirgli un ruolo di effettivo dominio, in virtù del quale era onorato e rispettato come un tempo si faceva a chi deteneva un titolo nobiliare. Entrando nel portone di quella casa, Daniele sentì l’esigenza di conoscerne i proprietari, o meglio gli abitanti, voleva sapere subito se si trattasse subito di “perniciosi”.  Sulle prime rimase deluso, ma si interessò subito al comportamento gentile e formale che gli fu rivolto, anche se si trattava di amici di Luisa.  Si sentì guardato e osservato e talora velatamente interrogato anche se in maniera completamente diversa da quelli conosciuti precedentemente e notò che la maggior cultura e ricchezza di queste persone, la maggiore vivacità dialettica, camuffassero ogni evidente curiosità per il nuovo arrivato. Ma ciò che maggiormente lo tranquillizzò sulla vera natura di quelle persone fu l’atteggiamento di Luisa, troppo impegnata a fissarli soprattutto quando raccontava di D. e del modo in cui lo aveva conosciuto  (il racconto massicciamente aggiustato e addolcito di fantasie e commenti esagerati ed entusiastici). D. ancora una volta era perplesso se dover considerare questa gente come  “semplice”  oppure, nonostante tutto, vista la persistenza nel restare così, seppur circondati da un mondo artificioso e sofisticato, non avessero conosciuto una sapienza e una complessità tali da aver concluso essere superiore a quello che D. con certezza definiva modernità. S.Marco, essendo piccolo paese agricolo, era abitato da gente che praticava l’autarchia familiare, ovverosia che, all’interno della propria famiglia era in grado di provvedere a tutti i generi necessari per vivere riuscendo a riservare anche una porzione per la vendita e ricavarne il contante necessario per il pagamento di tasse, luce, telefono e vestiaro ( quest’ultima voce riguarda soprattutto i giovani). Tutti eccessivamente parsimoniosi per quanto riguarda il danaro, avevano la mania di depositarlo alla posta, i vecchi in particolar modo che per se stessi compravano soltanto le medicine quando esse non erano prescrivibili. Uno stretto controllo reciproco che veniva in tutti i modi possibili rendeva la privacy inesistente per ognuno, e pare che se qualcuno volesse per esigenze un po’ diverse alla media dei paesani, sfuggire al controllo, diventava immediatamente un “tipo sospetto”.
Quando, per esempio, avveniva che le donne munite di patente e di auto potevano sbrigare autonomamente fuori del paese commissioni e faccende varie, erano delle donne sospette. Avveniva, inoltre, alle persone che avevano ideali spirituali o che solamente volessero praticare della filantropia, avveniva per chi avesse deciso di diventare una personalità senza il loro benestare, avveniva semplicemente per chi pensava che i fatti propri fossero appunto una faccenda propria e di nessun altro. A proposito delle persone più riservate, esse a contatto con i sanmarchesi, lo diventavano molto e molto di più per reazione naturale. C’è da dire che contro di essi veniva fatta una vera e propria guerra senza nessuna esclusione di colpi, dalla provocazione, alla diffamazione, alla calunnia, approfittandosi del fatto che tipico di questo tipo di persone è di non uscire allo scoperto per difendersi o smentire, nel frattempo, anzi, egli è l’unico che non ha nessun modo di sapere quanto sia grande la nuvola denigratoria che gli sia stata configurata, si troverà quindi ad avere a che fare con una diffidenza e mal disposizione nei suoi confronti anche nel momento in cui andrà a comprare il pane dal salumiere poiché, si sa, “la diceria” è sempre decuplicata dal momento della sua prima esposizione. Ma la persona riservata, ben presto emigrerà di fatto o con gli interessi da quell’ambiente. Le vere vittime di quel paese sono i giovani che per la loro stessa natura spodestano i vecchi,  e questo, non tollerato da costoro, combattono con forza d’animo di guerrieri. Giunse alle orecchie di D. una storia allucinante che narrava di una convivenza tra figlia sposata con un bambino e madre anziana. Quest’ultima riuscì ad imporre alla figlia di non avere altri figli durante tutto l’arco della loro convivenza, e appena la povera ragazza fu nuovamente incinta, senza nemmeno dirlo alla madre, trovò casa e se ne andò da quella materna nonostante versasse in condizioni di indigenza.  Questa è una storia accaduta quando si credeva che la gente fosse più bonaria e tollerante ed è anche la prova di una tradizione maligna tramandata di generazione in generazione e si è consolidata attraverso il rancore e il risentimento. Il risultato di ciò è l’invecchiamento dei giovani prima di aver vissuto la propria vita soggiogati in un timore continuo degli altri che sono stati figli di altri e che precedentemente si erano già fatti del male. L’odio e il pregiudizio degli antenati si riflette sugli eredi, e gli eredi stessi si sentono predestinati a fare la fine dei propri avi. Forse si potrebbe spiegare così il senso della vita dei sanmarchesi che diventa così esistenza coatta e prigioniera sempre legata comunque al paese anche quando se ne è usciti, il risentimento per le brutte esperienze d’infanzia si porta addosso ovunque e in età adulta si trasforma in desiderio di rivalsa nei confronti di un paese  che non ha dato nulla e per il quale non c’è posto per la speranza che al proprio ritorno esso possa essere cambiato. Ma quel paese deve essere lo stesso che si è lasciato perché la vendetta deve aver luogo e così si ricomincia da capo e si apporta nuovo risentimento rigeneratosi nei ricordi, rinforzatosi con la lontananza fisica.

 

 Vincenza  || Noia
  indice amici  ||  Home adrianomeis  ||  Parole