PRIMA PARTE I. IL RIFIUTATO E SACRIFICATO ATTRAVERSO IL PROCESSO BIOGRAFICO |
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I. 1. Il rifiutato, suicidato della societàI. 1. 1. I primi approcci con la società La vita di Vincent Willem Van Gogh, fin dall’inizio, è percorsa da continue ricerche per trovare una strada, il percorso che lo avrebbe appagato del suo continuo bruciante sacrificio passionale verso ciò che lo attraeva. Spesso, però, si imbatteva in bruschi fallimenti, proprio perché non riusciva a trovare la via capace di dare voce al proprio appassionato sentire. Quello che lo contraddistingueva era un’adesione totale all’autenticità della vita, degli uomini e della natura. Questa autenticità, però, strideva con la società del suo tempo, che era disordinata, delirante, sregolata; dove, l’inerzia e l’inettitudine borghese regnavano spavalde e in cui si dava importanza solo al principio della riuscita economica. Nello stesso ambiente familiare gli si voleva dare una strada prestabilita, con alla base una forte moralità orientata sui valori del credo protestante: una carriera affermata della classe media, con una vita stabile, possibilmente controllata e devota. Il padre, pastore di una congregazione della chiesa riformata olandese e lo zio Cent[1], commerciante d’arte, furono alla base della formazione del giovane Vincent che apprese, attraverso il padre, quell’immagine del Cristo consolatore in senso biblico, consolatore dei deboli, degli umili, dei poveri e di tutti gli uomini del peccato originale. Dopo tutto, questo sarà anche alla base del modo di rapportarsi di Vincent nei rapporti interpersonali, nei confronti della religione e poi dell’arte: sempre un percorso sentito profondamente, come una sorta di missione spirituale per consolare chi avesse bisogno, per conciliarsi nella fratellanza umana, nella natura, in Dio. Tutto questo suo fervore maturato e accresciutosi con gli anni, però spaventava chi gli era attorno. Le documentazioni biografiche, dicono, che nei primi decenni della sua vita non sembrava manifestare alcuna precisa vocazione, ma sedicenne, per interessamento di suo zio Cent, eccolo partire alla volta della sua prima esperienza a contatto con l’arte: apprendista in un’azienda, la Goupil, attiva nel mercato dell’arte contemporanea, Vincent era addetto alla vendita di riproduzioni di opere d’arte. Il giovane Van Gogh, non poteva certo immaginare che in futuro quella sarebbe stata la sua vita, la sua vocazione bruciante. Nessuno si era accorto della sua predisposizione per l’arte, nessuno aveva notato i suoi primi approcci con il disegno, che risultano già presenti nella sua prima giovinezza. Vincent era un osservatore nato e nella sua Olanda, durante le passeggiate, in cui, tra l’altro, raccoglieva insetti, analizzava minuziosamente quello che gli si poneva di fronte, e a volte, disegnava. I suoi primi disegni, giovanili ma pur sempre sorprendenti per l’esecuzione, risalgono al 1862 (fig. 1), ma è soprattutto a partire dal 1864 (fig. 2), che cominciano ad essere più frequenti e di sicura datazione. Nemmeno il giovane Van Gogh notò questa predisposizione per l’arte, nonostante visitasse spesso già dei musei. Forse perché i familiari lo volevano instradare ad un’attività stabile e remunerativa che lo inserisse nella ordinaria società, ma forse soprattutto perché, Vincent, ancora non aveva tirato fuori da sé e riconosciuto in se stesso il richiamo di quel sentimento profondo che, in futuro, lo avrebbe guidato visceralmente verso l’arte.
Figura 1 Ponte, II - Zundert, 1862
Figura 2 Granaio e fattoria - Zundert, 1864
I. I. 2. La ricerca di una vocazione per la vita, ad ogni costo Il giovane Vincent, “doveva” trovare una sua strada per inserirsi in quella normalità (nella società) cui tutti giungevano (e aspiravano), come già era accaduto per i propri familiari; per queste continue ricerche sarà difficile la strada verso la sua vocazione di vita, in fondo, tarda a configurarsi esattamente, anche se non esiste forse altro uomo, più chiamato all’arte di Vincent. Tanti percorsi di fronte al suo cammino e ogni strada la percorreva con tutte le sue forze, con tutta la sua volontà, con tutto se stesso: venditore di stampe d’arte prima all’Aja, a Bruxelles, poi a Londra e Parigi; insegnante di francese di nuovo a Londra; predicatore religioso (perché si sente attratto dalla religione per poter consolare gli umili[2]); evangelizzatore in mezzo ai poveri minatori del Borinage. Imparò presto a convivere con questa sua forza e determinazione ostinata, a raggiungere gli obiettivi che gli si ponevano dinnanzi, perché arrendersi era perdere, era, per lui, una lacerante sconfitta. Ostinazione e perseveranza, che infine lo portavano ad un lento dolore, alla rinunzia, perché la sua forza presto si scontrava con il contraccolpo della terribile e cruda realtà, perché le sconfitte arrivavano, inesorabili ogni volta. Ma lui, altrettanto inesorabilmente, si rialza per procedere nel suo cammino a testa alta verso un nuovo obiettivo, verso un nuovo percorso. La sua ricerca di una vocazione per la vita era come una lotta; lotta appassionata per essere accettato da una società che lo osservava e lo cominciava a giudicare come un fallito, perché non riusciva a tenersi niente, a tenersi un lavoro, a tenersi un amore, non riusciva a stabilizzarsi. Anche la ricerca di un amore, di una donna, regolarmente si dimostrava un fallimento e questo lo distruggeva nella solitudine, perché era fondamentale per lui, amare ed essere amato. Metteva tutto se stesso anche in questo sentimento verso le donne e anche questo spaventava chi lo circondava[3]. Viveva intensamente, quindi, tutte le sue passioni, tutto quello che intraprendeva lo portava a sacrificarsi e, quasi, a consumarsi, ma questo spaventava chi viveva aridamente, in una normalità povera di passioni vere e reali e, la società, lo additava già come un diverso, perché provava disprezzo per tutto ciò che mostrava carattere e sentimento, in profondità e verità. Questo suo modo di apparire tenace e instancabile, sprezzante delle condanne ricevute, orgoglioso e in ogni caso ostinato a procedere nonostante tutto e tutti, nonostante le sconfitte, le crisi e gli abbandoni, lo rende agli occhi di tutti come un emarginato, come un rifiutato, come ostinato seguace delle partite perse: è per questo che la società non lo accetta, perché non lo capisce, non comprende tutto il suo fervore appassionato per le sue vocazioni, per il suo carattere che lo porta ad affrontare in modo così intenso ogni suo interesse. Maturato con gli occhi e la coscienza pura, guidata dalla scrupolosa ricerca di un’unità fra la natura e gli uomini, lui, ben presto, si sentirà diverso dalla società, opposta al suo sentimento profondo, quindi, soprattutto lui, la rifiuta, cercando anche di portare a termine ogni suo obiettivo a discapito di tutto e tutti. Intanto si avvicina all’arte. Visita i musei, ammira il Seicento olandese, Holbein, Rembrant, il francese Corot, Millet e il Rinascimento italiano, raccoglie e si circonda di riproduzioni di questi artisti che lo attraggono. Comincia a disegnare, anche per distrarsi dai suoi continui fallimenti e dalle sue delusioni. Di questa sua capacità se ne accorge la madre: “Vincent ha fatto parecchi bei disegni… Questo meraviglioso talento potrà diventargli prezioso”[4], e, ancora, intuendo la sua aspirazione: “Vorrei che potesse trovare un lavoro nel campo dell’arte o vicino alla natura”[5]. Ma anche quando si troverà immerso nell’arte, come ogni strada già intrapresa in precedenza, verrà preso totalmente, si consumerà e più che mai sarà travolto dal fervore e il suo amore per l’arte che lo brucerà, dopo tutto, fino in fondo la sua vita.
I. 1. 3. Il rifiuto definitivo di Vincent Vincent si discosta sempre dalla sua realtà, spesso, con reazioni o gesti estremi di ribellione, come accadrà anche nel dicembre del 1888 ad Arles, con la burrascosa conclusione della collaborazione e convivenza con Gauguin, finita in semi tragedia con la mutilazione del proprio orecchio sinistro; proprio dopo qualche mese dall’accaduto, avviene per Vincent una rottura fondamentale con la società, infatti, viene deciso l’internamento, richiesto tramite una petizione firmata dai suoi concittadini; lui replica, dicendo “Non ho fatto del male a nessuno”[6], e, in una lettera al fratello Theo[7], scrive che “L’artista è alla fine, un uomo che lavora e non è il primo babbeo venuto che può distruggerlo (allude ai firmatari della petizione)… Sogno di accettare con fermezza il mio mestiere di pazzo…”[8]. Un uomo che accetta il proprio mestiere di pazzo? E’ forse vera allora l’affermazione di Antonin Artaud, riguardo a Vincent, “No, Van Gogh non era pazzo”[9]? L’intera esistenza di Vincent attacca il conformismo stesso delle istituzioni e Artaud, fortemente e brutalmente, afferma che Vincent era lucido nel suo lavoro e anche Octave Mirbeau[10] nel 1901, affermava la medesima cosa, quando disse che Vincent si rendeva conto dei propri limiti, “non era mai soddisfatto (…) si infuriava contro la sua mano, (…) incapace di eseguire sulla tela tutto quello che la sua mente concepiva perfetto e geniale”[11]. Artaud condanna la psichiatria perché non si rende conto dei suoi orrori e limiti, perché convinto che essa stessa sia composta da tormentati e che come rimedio apparente degli stati più angustiati del genere umano, dà soltanto delle terminologie, senza realmente approfondire gli stati d’animo di un individuo e non si sono accorti che “Van Gogh era casto, casto come non può esserlo un serafino o una vergine…”[12]; è proprio la creatività dell’artista alla base della discriminazione, secondo Artaud, perché la sua illuminazione non riesce ad essere tollerata, nascondendo la loro incapacità di capirlo, relegandolo alla follia, proprio perché non comprendono il tipo di visione di Vincent. Jacob Baart de La Faille[13], presuppone a proposito, che ignorando la vita dell’artista, senza conoscere i particolari del suo modo di essere, difficilmente si potrebbe definire la sua opera quella di un pazzo e aggiunge che “i geni precorrono sempre il loro tempo ed è rarissimo che i contemporanei li capiscano”[14]. E’ la società che ha fatto soffocare nei suoi manicomi tutti quelli di cui aveva paura, per proteggersi, solamente perché questi avevano rifiutato di farsi complici del suo modo di essere, di uniformarsi in pratica ad essa. Perché gli alienati sono uomini che la società non ha voluto ascoltare e ai quali ha voluto impedire di proferire insopportabili verità. Strane forze spesso sono sollevate e portate sopra l’immaginabile, è così che rare e buone volontà lucide, che hanno dovuto dibattersi sulla terra per esistere, vedono, se stesse, sprofondare ad occhi aperti in certi stati d’incubo e di confusione, stati d’animo e di creazione del genio d’artista che non può certo essere compresa dalla sorda, corrotta e insensibile società, questo lascia intendere Artaud. Vincent è un uomo che ha preferito accettare di diventare pazzo piuttosto che venir meno ai propri principi, al vivere puro, tra l’altro era una di quelle nature dotate di una lucidità estrema che permette loro di vedere oltre, infinitamente più lontano del reale immediato e apparente dei fatti. Secondo Artaud, non può essere pazzia, è solo una futile motivazione allontanare e rinchiudere un uomo come Vincent, perché non è alterazione mentale dipingere un paesaggio notturno con dodici candele messe sul cappello, infatti, si chiede: “Come avrebbe potuto fare il povero Van Gogh per farsi luce?”[15], la mano bruciata da una candela, l’orecchio reciso è “puro e semplice eroismo…”[16] e “logica diretta…”, di reazione verso un mondo che emargina le anime più sensibili e pure, mentre essa, a sua volta, “mangia l’immangiabile, per condurre la propria cattiva volontà ai propri fini”. In fondo la psichiatria, come dice Artaud, è stata inventata per difendere la coscienza presente, solo per togliere a certe facoltà sovra-normali ogni diritto ad entrare nella realtà e forse anche il dottor Gachet, che ebbe in cura Vincent nel suo ultimo periodo di vita, era un individuo che lo frenava, invece di aiutarlo, ogni volta che voleva oltrepassare o superare qualche barriera con il suo genio. Tanto poteva bastare per ferirlo a morte e, se fosse stato indirizzato in un’altra via, forse non si sarebbe tolto la vita. E’ il “suicidato della società”, non perché si sia arreso alla società, ma perché, come un gesto di ribellione e di fuga, ha trovato la via d’uscita da essa, attraverso la differenza di sé rispetto alla totalità comune; come ci fa intendere Gilles Deleuze nella sua nozione di differenza[17] (senza riferirsi direttamente a Van Gogh). Vincent si sottrae ai principi primi e sostiene la sua differenza, proprio affermando la sua ostinata individualità attraverso le sue passioni, la sua arte, con la ripetizione dei suoi gesti di ribellione, non negandoli ma affermandoli fino al suo gesto più estremo. Se Vincent si suicida, non è per rassegnazione e negazione, ma solo per affermazione della sua esistenza, della sua arte, della sua differenza. “L’ho fatto per il bene di tutti, ho mancato il colpo ancora una volta”[18], con queste parole, mentre era sul letto di morte, accoglie l’amatissimo fratello Theo. Ha voluto andarsene, per non pesare più su nessuno, soprattutto sul fratello; lui, infatti, regolarmente lo aiutava economicamente. Queste sue ultime parole sono anche come un monito verso la società che non lo accettava, lo fece per non disturbare più quella società che lo additava come un pazzo, come un diverso. Sapeva che morire lo avrebbe sollevato dall’orribile peso che l’accompagnava, ormai aveva deciso di lasciare un mondo che non lo comprendeva, un mondo che lo aveva isolato definitivamente. Solo pochi mesi prima della fine della sua esistenza, nel gennaio del 1890, nell’articolo[19], di Albert Aurier, di cui lo stesso Vincent rimase sorpreso, il suo lavoro viene criticato con entusiasmo e, viene presupposto dall’Aurier, che in futuro, chi si accorgerà tardivamente di lui, non potrà mai comprenderlo con sincerità. Aurier lasciò una speranza considerando che “Vincent Van Gogh è al tempo stesso troppo semplice e troppo sottile, per lo spirito borghese e contemporaneo”, comunque “sarà sempre completamente compreso dai suoi fratelli, gli artisti solo artisti… e dai felici del popolo minuto, del popolo più umile…”. Proprio il tanto adorato fratello, scriverà alla madre, in riferimento al fratello scomparso che ormai poteva finalmente avere “quel riposo al quale agognava… la vita era un peso per lui; ma ora, come capita spesso, tutti sono pieni di lodi per il suo talento”[20]. La società, quindi, si accorse di lui e del suo genio, ma ormai troppo tardi, perché lui già l’aveva rifiutata definitamene con il suicidio.
I. 2. Van Gogh nell’azione sacrificale I. 2. 1. La primordialità Fondamentale in Van Gogh è l’essere vicino alla natura in modo tangibile ed estremo; infatti, non si era immedesimato nella natura ma aveva immedesimato la natura in sé, dominandola. L’aveva obbligata a piegarsi, a modellarsi secondo le forme del proprio pensiero, a seguirlo nelle proprie collere improvvise, persino a definire le proprie deformazioni. Ha avuto ciò che diversifica l’uomo da un altro, la possibilità di essere riconosciuto, nei propri lavori, con un veloce colpo d’occhio, grazie alla sua espressione inconfondibile nei segni grafici e pittorici. Espressione che, non è, ovviamente, intesa solo per mezzo di uno stile, di una tecnica, ma vale a dire di affermazione della sua personalità. Soggettività intensa e legata in modo indiscutibile all’essere primordiale di individuo, che lo avvicina indissolubilmente alla natura. Vincent ripercorre, spontaneamente e istintivamente, nella vita, quel percorso che viene descritto da Georges Bataille, quasi un secolo dopo[21], in cui, ciò che c’è di più vero nell’essenza degli individui è l’animalità; intesa come istinto che unisce alla natura, alla vita, a ciò che è definita immanenza, sonno animale e intimità, tutto insomma ciò che lega l’individuo istintivamente all’essere vivo nel mondo come acqua nell’acqua. Vincent sa, come ammonirà poi Bataille, che l’uomo durante la sua storia si è allontanato da tutto questo attraverso la ragione, che crea e costruisce un mondo canceroso, in cui la proliferazione delle sue cellule si ordina e giustifica negli schemi della ragione stessa che diviene inesorabilmente la dimora dell’uomo: apparentemente sicura, perché è fragile e angosciosa, è fittizia nel suo essere, perché il prevaricare della ragione fa correre nell’evolversi, nella modernità, nella produzione, nel consumismo. Una corsa estenuante per rendersi all’altezza degli schemi, che rende solo tutti schiavi e vuoti di un circolo vizioso che non porta a niente, dove si vuole solo scappare, rinnegando la propria natura. Il tentativo risolutivo per questa degradazione e autodistruzione del sentimento più puro e profondo, viene proposto da Bataille, ma vissuto direttamente da Van Gogh. Si può mediare attraverso la rinascita e la ricerca di quello che fu rimosso, attraverso la storia e attraverso la ragione. Bisogna lasciarsi andare al sonno della ragione, senza il timore di trovare mostri, perché solo così si potrà recuperare se stessi, solo in questo modo si può ritrovare la vera natura, la sensibilità e immanenza, proprio mettendo in discussione tutto quello che si ha attorno. Rifiutando il mondo che lo circonda, Vincent, esce dagli schemi, rifiuta il prodotto perfetto ed allucinante delle coscienze, della storia, del progresso e della civiltà circostante e si fa sedurre in modo appassionato, come dirà Bataille, dal sonno della ragione che unisce le nostre vite nell’uguaglianza primordiale alla natura stessa. Perché solo così, quando l’azione sarà compiuta inizierà il movimento dell’uomo, Vincent, verso se stesso, verso la sua profondità, all’intimità del suo essere. Proprio per questo, conserva sempre una nobiltà che commuove, una grandezza e un’attinenza al naturale che atterriscono, proprio attraverso le sue opere. Ha riportato molte volte la natura con una verità sorprendente, senza cambiare niente, perché lui è intimamente nella natura. De La Faille, a proposito, racconta una propria esperienza, richiamando alla sua e nostra attenzione un disegno di rocce, eseguito dallo stesso Vincent, a Montmajour (fig. 3), dicendo che se ci si mette davvero nel punto in cui si era messo l’artista per eseguirlo “si è stupiti di vedere nei massi rocciosi gli stessi crepacci, le stesse formazioni, la stessa linea spezzata, gli stessi anfratti”[22], niente era stato trascurato, c’era tutto quello che era stato osservato dall’artista nel suo disegno, e, ancora, “resta sublime, nonostante i particolari! Nulla di meschino, nulla di troppo rifinito o compiaciuto, nulla di artificioso o falso. La sua opera è l’incarnazione del reale”, perché è affine ad esso, è visceralmente in esso, “Egli è il grande maestro di un naturalismo esasperato”.
Figura 3 Montmajor - Arles, luglio 1888
I. 2. 2. Il sacrificio Secondo il saggio già citato, per Bataille, il mondo è dato all’uomo come un enigma da risolvere e alcuni si trovano più coinvolti da questa situazione si trovano legati e attratti al tragico terrore, alla morte e all’estasi sacra. Tutto per Vincent è esperienza interiore e profonda, esperienza totalizzante, violenta e dissacrante. Dona se stesso totalmente all’essere vero e primordiale e ne scaturisce un’energia che è violenza come principio del sacrificio nell’esistenza. Il sacrificio, comunque, non è esclusivamente legato alla definitiva morte, perché esso può non essere cruento. Sacrificare riferito a Vincent è abbandonarsi, darsi totalmente per la sua arte, anche a discapito di se stesso perché nessuno, a parte il fratello Theo, lo valorizza per il suo impegno intimo ed estremo. Allora il suo sacrificio diviene angoscioso, perché lui si dona incessantemente al mondo con il suo lavoro, ma non riceve niente in cambio, dalla società, come se non ricevesse il suo potlàc[23]. La vera ricchezza è quella interiore, quella che in modo primitivo, lo avvicina in modo sensibile alla natura, alla verità. La ricchezza è quindi di chi come lui nella differenza, si stende per terra, si isola, rifiutando, con disprezzo, tutto ciò che del mondo impoverisce l’animo e che annulla l’individuo, distruggendone l’integrità. Vincent si estranea evidentemente dal materialismo che lo circonda, non è un mistero, infatti, che fosse aiutato economicamente dal fratello, perché dava tutto se stesso alla sua produzione lavorativa in ambito artistico, spendeva tutte le sue energie e i suoi soldi per il suo lavoro, per i materiali, trascurando la sua persona, il suo corpo, per trovare dentro se la vera ricchezza, esaltando ai massimi livelli il suo impegno costante verso il suo lavoro. Il 29 luglio del 1888 scrive da Arles, nel profondo sud francese, “Più divento dissipato, malato, vaso rotto, più io divento artista, creatore (…) ma quest’arte eternamente viva, questo rinascimento, questo germoglio verde che spunta dalle radici del vecchio tronco tagliato, sono cose talmente spirituali che ci assale una certa malinconia pensando con quanta minor fatica si sarebbe potuta vivere la vita, invece di fare dell’arte”[24], era totalmente consapevole della sua differenza. Si sacrificava inesorabilmente nella sua opera, per il suo genio, anche isolandosi dal resto del mondo[25], per darsi sempre di più, per essere sempre di più vicino alla sua ricerca di liberazione verso la luce attraverso le sue opere, i suoi gesti, il suo segno primordiale e inconfondibile, bruciando di passione nella sua vita, non rinunciando ai propri ideali, sino all’azione sacrificale e al gesto estremo del suicidio.
I. 2. 3. La tragedia di Arles 24 dicembre del 1888, data cruciale per l’avvenimento tragico del taglio dell’orecchio e la fine della convivenza con Gauguin, la fine di un sogno, per Vincent, di una comunità per la collaborazione fra artisti ad Arles nella Casa Gialla. La convivenza fra i due non è facile; solo inizialmente fu serena, le loro discussioni, soprattutto incentrate sulla pittura, diventano sempre più tese, di una “elettricità eccessiva”, scrive Vincent. Gauguin si accorse presto che il loro rapporto era ormai incrinato e fa emergere il suo disagio in una lettera a Theo, del 20 dicembre 1888, dove afferma che non potevano assolutamente vivere più assieme in pace, questo “per incompatibilità di carattere” e, continua, per “bisogno di tranquillità per il nostro lavoro”[26]. Mantiene, comunque, una doverosa stima per Vincent, dicendo di lui che è una persona intelligente, ma ritiene sia necessario allontanarsene. Van Gogh rifiuta di credere a una partenza del compagno, anche perché sa che questo abbandono lo getterebbe di nuovo in una terribile solitudine, per lui intollerabile, perché aveva cercato in ogni modo un rapporto con Gauguin e, questa decisione, è agli occhi di Vincent un nuovo rifiuto, come i tanti altri della sua vita. Serba rancore per il suo amico e ancor più a se stesso, perché si rende conto di non riuscire mai a vivere con nessuno, perché nessuno può comprenderlo o sopportarlo, scrive al fratello Theo: “Credo che Gauguin si sia un po’ scoraggiato della piccola città di Arles, della piccola casa gialla (…) e soprattutto di me”[27]. Il tracollo è inevitabile ed è la tragedia. Vincent segue l’amico durante una sua passeggiata per paura di un’improvvisa fuga, Gauguin se ne accorge e quando si gira per sorprenderlo vede la sua faccia stravolta. Pareva stringere in mano un rasoio aperto. Vincent sconvolto scappa verso casa, Gauguin allarmato, invece, trascorre la notte fuori. Vincent è solo e, in preda a chissà quale tormento, si recide l’orecchio sinistro; ben ripulito, lo ripone e lo porta in dono, in un bordello di Arles, a Rachel, una prostituta sua amica, a cui dice: “un mio ricordo”. Sono questi fatti fondamentali che permettono di comprendere più a fondo la sua esistenza successiva, per la definitiva consacrazione al mondo come artista maledetto e per capire al meglio, nel paragrafo successivo, questo suo gesto estremo associato da Bataille ad atto di automutilazione sacrificale.
I. 2. 4. L’azione sacrificale Nel suo articolo[28], Bataille è convinto che l’automutilazione di per se è un gesto, sì estremo, ma atto in funzione di un obbligo a cui nessuno saprebbe resistere, ricevuto da una forza esteriore, una forza assurdamente proveniente dai raggi del sole. Per mesi, infatti, la tensione è stata forte per Vincent e il sole di Provenza ha picchiato troppo sull’ebbrezza di pittore e ha pensato troppo a “l’infinito”, infatti, lo stesso Vincent, scrisse durante l’estate precedente che una crisi, prima o poi sarebbe arrivata; scricchiolava tutto intorno a lui “come una melagrana matura”[29]. L’influenza del sole è ben evidente nei suoi lavori, sia nei dipinti che nei disegni. Un sole ancora più glorioso poi appare nel 1889, durante il soggiorno alla casa di cura di Saint-Rémy, in pratica dopo la sua mutilazione. Questa sua venerazione e ossessione appare anche in una lettera al fratello, in cui impiega l’espressione di “sole in tutta la sua gloria”, è anche probabile che si perdesse e si annullasse fissando dalla sua finestra questa sfera abbagliante. Era palesemente suggestionato dalla fonte di luce, si identificava con delle fragili candele, con dei girasoli ora freschi e poi appassiti. I rapporti tra lui e un ideale di cui il sole è la forma folgorante, apparirebbero così simili ai rapporti che gli uomini un tempo intrattenevano con gli dèi. La mutilazione, secondo Bataille, interviene normalmente in questi rapporti come un sacrificio e rappresenterebbe l’intenzione di somigliare perfettamente a un termine ideale, come dio solare, per mezzo di lacerazioni o distacco di proprie parti. La rottura dell’omogeneità personale, la proiezione fuori di sé di una parte di se stessi appare legata alle espiazioni, alle licenze che sono apertamente evocati dai cerimoniali di ammissione nella società degli adulti, ad una sorta di iniziazione. O, alle forme rituali del sacrificio comune, dove una bestia è sostituita al sacrificante, così, in questo modo, è il dio che si fa un tutt’uno con la vittima.
Figura 4 Coppia che cammina di fianco a un gruppo di girasoli - Parigi, estate 1887
Il movimento che spinge un uomo a donarsi, o distruggersi, in parte, ma anche totalmente, può essere paragonato, secondo Bataille, per la sua natura travolgente e terribile, alle deflagrazioni abbaglianti che del temporale più opprimente fanno un trasporto di gioia. Ma rapportato anche all’essere icariano[30] che va a cercare il fuoco del cielo, anche lui è un automutilatore, come lo è, nello stesso tempo anche Prometeo. Perché l’orecchio di Arles non è neanche lontano dal sacrificio di Prometeo che viene punito dagli dei per aver cercato di rubare il sacro fuoco per donarlo agli uomini e viene relegato e condannato a sacrificare una parte di se, il suo fegato, mangiato ogni giorno dall’aquila provvida. La mutilazione dell’orecchio è un dramma, precursore di una sconfitta, di una condanna a morte da cui Vincent non si salverà. Ma Van Gogh va a portare l’orecchio reciso precisamente nel luogo che ripugna di più alla buona società, in altre parole, lo porta ad una prostituta. Il suo gesto lo consacra sia come vinto che come vincitore, perché il suo orecchio è ad un tempo il toro vinto e il matador trionfante. E’ certo, infatti, che frequentasse l’arena di Arles e assistesse a numerose corse di toro, corse alla coccarda, ma anche ad uccisioni al termine delle quali egli vide il matador offrire l’orecchio del toro alla dama dei suoi pensieri. “Sono assolutamente convinto”, scrive J. Oliver[31], “che Van Gogh sia stato fortemente impressionato da questa pratica, tanto che i due gesti non sono affatto incoerenti ma seguono una concatenazione normale[32] (…) E’ stato il caso di Van Gogh la notte stessa in cui fu sovreccitato da Gauguin ma in cui rifiutò il suo predominio”. La “dama” di Vincent, ovviamente la sua amica Rachel. Questo ultimo gesto è disarmante nei confronti di quella società che tanto lo disgustava e che a sua volta lo emarginava; lui era un animo sensibile e pieno d’amore per quello che faceva e niente e nessuno poteva più fermarlo nella sua sublimazione verso il sole, verso la luce, proprio grazie alla sua vita, al suo fervore, al suo gesto, alla sua arte. Vincent è libero e non incatenato ai giudizi e a chi lo emargina, proprio perché, in qualche modo, ha sputato in faccia a tutti quelli che erano (sono) privi di questa libertà interiore e cercano solo di conservare la propria vita. Il suo è un rito di liberazione totale al dio sole, una sorta di iniziazione all’ascesi di grande genio, anche se, di personalità travagliata, ma unica nella sua consacrazione a pittore. Certo, di questo rifiuto, dovette pagarne anche le conseguenze, perché come dice Pierre Leprohon, nel suo saggio[33], questo non è un gesto insensato, ma simbolico, come tutto nella sua arte e nel suo pensiero, ma è una lotta da cui uscirà solo e spezzato, ma in questo emerge il vero Vincent, l’artista, che si afferma proprio nello splendore del sole, della luce ed è nell’esplodere dell’intensità di questi due elementi che mescolati insieme, hanno creato quel turbinio di colori e segni di illuminazione divina del suo genio.
[1] Diminutivo del nome Vincent, questo zio, fratello del padre, mercante di quadri, aveva già lavorato nell’ambito della vendita di riproduzioni di stampe d’arte; dal 1861 si è associato con Adolphe Goupil e Léon Boussod, che aveva sede a Parigi. [2] - Mi sento attratto dalla religione e desidero consolare gli umili - da Vincent Van Gogh, “Notizia sulla vita e le opere”, in Lettere a Theo, a cura di Massimo Cescon, Guanda, Milano, 1984, pag. 32. Le lettere di Van Gogh, preziose per la sua biografia, vennero raccolte dalla cognata, Johanna van Gogh-Bonger, vedova di Theo e pubblicate postume nel 1953. In edizione completa in Italia Tutte le lettere di Van Gogh,Silvana, Milano, 1959. Vedi anche nota 7. [3] Una volta, per prova del suo amore, verso una donna che lo rifiutava, si fece cuocere una mano, era la cugina Kate, “forse l’unico amore della sua vita”, da Franco Rella, Negli occhi di Vincent, Feltrinelli, Milano, 1988, pag. 141. [4] Gogh, “Notizia sulla vita e le opere” in op. cit., pag. 31. [5] Gogh, op. cit., pag. 32. [6] Gogh, op. cit., pag. 38. [7] Preziosissimo, per analizzare la sua biografia a fondo, è l’epistolario di Van Gogh, che comprende, in tutto, 821 lettere, 668 delle quali indirizzate a Theodorus, vale a dire Theo. Iniziò nel 1872, la lunga e regolare corrispondenza con il fratello, di quattro anni più giovane, rimane per noi un documento letterario ed umano di impressionante autenticità, fonte essenziale di notizie sulle opere, le idee, gli scopi di Vincent. [8] Gogh, ibidem. [9] Antonin Artaud, Van Gogh le suicidé de la societé, Gallimard, Paris, 1974, (trad. it.: Jean-Paul Manganaro, Van Gogh - Il suicidato della società, Adelphi, 4° ed., 2000, pag. 14). [10] Scrittore francese dell’inizio del secolo, scrisse di Van Gogh nel “Journal” nel 1901 e in “Écho de Paris” il 31 marzo del 1891. [11] Mirbeau riportato da Pascal Bonafoux, in Vincent Van Gogh, le soleil en face, Gallimard, Paris, 1987 (trad. it. .: Ida Sassi, Van Gogh, il sole in faccia, Universale Electa/Gallimard Arte, s.l., 1992 pag. 146). [12] Artaud, op. cit., pag. 16. [13] Si deve a lui, la completa catalogazione dell’opera di Van Gogh nella pubblicazione in quattro volumi de “L’oeuvre de Vincent Van Gogh: Catalogne raisonné”, Bruxelles-Parigi 1928 e con un quinto pubblicato nel 1930, “Les faux Van Gogh”. [14] De La Faille, “L’époque française de Van Gogh” in Paolo Lecaldano, L’opera pittorica completa di Van Gogh, II vol., “Classici dell’arte” , Rizzoli, Milano, 1966, pag. 132. [15] Artaud, op. cit., pag. 19, vale anche per le successive citazioni. [16] Cfr. con nota 3. [17] AA.VV., Dizionario Bompiani dei Filosofi Contemporanei, a cura di Pier Aldo Rovatti, Tascabili Bompiani, Milano, 1990; per approfondire: Gilles Deleuze, Differenza e ripetizione (1968), Il Mulino, Bologna, 1971. [18] Gogh, op. cit., pag. 40. [19] Aurier, “Gli isolati: Vincent Van Gogh”, articolo apparso sul primo numero de Le Mercure de France, Parigi 1890, in Lecaldano, op.cit., pag.131. Albert Aurier, poeta d’ispirazione mistica e critico d’arte, conobbe Van Gogh a casa di Theo e ne rimase colpito in modo straordinario, così da pubblicare sei mesi dopo questo articolo. [20] Gogh, op. cit., pag. 40. [21] Bataille, Théorie de la Religion, Gallimard, Parigi, 1976 (trad. it.: Renzo Piccoli, Teoria della religione, Cappelli, Bologna, 1978); saggio critico che ripercorre la storia della rimozione, per mezzo della ragione e della religione, di ciò che è veramente importante per l’uomo e cioè dell’immanenza vitale, di intimità e del sonno animale. [22] De La Faille, in Leocaldano, op. cit., pag.132, anche per le citazioni successive. [23] Rituale effettuato dagli antichi indiani dell’America del Nord-Ovest, costituito da un dono di ricchezze offerto con il fine di umiliare, di sfidare e obbligare chi lo riceve, che per cancellare l’umiliazione, deve corrispondere restituendo con un dono più imponente; intenzione del rito è associarsi con indifferenza alle cose materiali, con l’intenzione di stupire e il soggetto si appropria del superamento che la generosità gli ha conferito. Rituale identificato, sotto il nome di potlàc da Mauss. Bataille, “La Notion de dèpense” in La Part maudite, Editions de Minuit, Paris 1967 (trad. it.: “La nozione di dépense” in La parte maledetta, Boringhieri, Torino, 1992). [24] Leocaldano, op. cit., pag.37. [25] Il 13 ottobre del 1885, Theo scrive di Vincent alla sorella Willemien: - …è uno di coloro che, essendo passati attraverso tutte le esperienze della vita, si sono ritirati dal mondo. Ora dobbiamo aspettare per vedere se ha del genio. Io credo di sì… se riuscirà nel suo lavoro sarà un grand’uomo - Leocaldano, op. cit., pag. 35-35. [26] Leocaldano, op. cit., pag. 38. [27] Ibidem. [28] “L’action sacrificielle”, pubblicato da Bataille nel 1930 sulla rivista Documents; raccolto in Ouvres Complètes, v. I, Gallimard, Paris, 1970 (trad. it.: Sergio Finzi, “La mutilazione sacrificale e l’orecchio reciso di Vincent Van Gogh”, in Documents, Dedalo libri, Bari, 1974). [29] Pierre Leprone “Vincent Van Gogh”, Lattès, Paris,1988 (trad. it.: Gerardina Anteli, Van Gogh - Il sublime pittore del sensibile, Rusconi Libri, Milano, 1990, pag. 242). [30] Icaro, che per avvicinarsi alla luce solare, rovinò le sue ali e precipitò nel vuoto sconfitto. [31] Scrittore provenzale, che cercò di dare una spiegazione logica alla mutilazione di Van Gogh, riferendola all’influenza delle corride che avevano potuto avere nell’artista, in una lettera indirizzata al nipote del pittore, V. W. Van Gogh, in base ad un articolo apparso in una rivista di Saint-Rémy-de-Provence nel 1951; da Leprohon, op. cit., pag. 245. [32] Teoria questa, dal saggio citato in nota 29, che non mancarono di dare gli stessi abitanti di Arles dell’epoca di Van Gogh. [33] Leprohon, ibidem.
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