Museo d'ombre, racconti di Guglielmo Gaviani

L'asino sul campanile di Buscate

(racconto morale)




Si racconta che tanti anni fa nelle campagne del milanese c'era una gran carestia, non che fosse una cosa strana, anzi. Bastava che piovesse più del solito e l'uva ammuffiva sui tralci. Oppure non piovesse e nei campi polverosi sembrava che il grano facesse fatica ad uscire dalla terra. Poi ci si mettevano le tempestate improvvise e violente di maggio e... insomma era proprio uno di quegli anni là.

I contadini erano tristi e scrutavano il cielo aspettando chissacché, attenti ad ogni piccolo segno della natura che potesse dare uno spiraglio di speranza.

Niente, il cielo era implacabilmente vuoto, il sole picchiava feroce sulla terra trasformata sempre più in un'immensa pietraia.

Persino gli animali della stalla, quei pochi che erano rimasti, arrivata sera, cominciavano a lamentarsi: chi a ragliare, chi a muggire o a belare. Avevano fame anche loro e non si sapeva più cosa dare loro da mangiare.

Da un po' di tempo in qua i contadini si fermavano a capannelli nella piazza e guardavano là su in alto sul campanile che svettava sottile sopra le misere case del paese. In cima, proprio in cima, stava crescendo un bel ciuffetto d'erba che spiccava ardito sul cornicione più alto.

Una grande idea venne ai contadini: portar su un animale per fargli assaporare almeno quell'ultimo filo d'erba saporita.

Fu subito battaglia sul sagrato della chiesa per stabilire quale animale doveva avere l'onore di fare questo prelibato spuntino. Chi perorava la causa del proprio asino (animale abituato ad ogni genere di fatiche), chi quella del bue (costretto a tirare l'erpice nei campi sassosi), chi quella di una capretta (così esile ed affamata da non dare più nemmeno il latte).

Alla fine, giacché le grida si sentivano fin dentro alla sagrestia, intervenne persino il Curato per vedere cosa stava succedendo. Il risultato fu di rinfocolare il tumulto. Voleva metterci il becco anche lui su chi doveva salire sul "suo" campanile.

Si decise alla fine, dopo un'estenuante ed animata discussione, di estrarre a sorte, con la bruschetta, quale animale dovesse essere il prescelto. Così fu estratto l'asino.

Ora bisognava farlo salire fin lassù.

I contadini quando ci si mettono trovano sempre una soluzione: tirarono una corda sulla trave di sostegno della campana e l'attaccarono alla cavezza dell'asino e... Tira, tira... La gente si affollava sotto, sembrava quasi che assaporasse il momento in cui l'asino sarebbe arrivato a prendere quel ciuffo d'erba.

Vedevano in quell'asino se stessi bastonati dalla vita, affamati e stanchi di stenti. Incitava gli uomini sempre più forte e quelli facevano una gran fatica a tirar su l'asino... o issa, o issaaa...

In tutto quel trambusto sembrava che quello che stesse meglio fosse proprio l'asino: in un primo momento scalciava, ragliava forte. Poi, man mano che saliva, sembrava quasi che ridesse, faceva di quei versi.

Ecco un ultimo sforzo, l'asino era giunto all'altezza delle campane, il ciuffetto d'erba svettava invitante sul cornicione.

Ma, che succede? L'asino aveva raggiunto il ciuffetto d'erba e non lo addentava? Come mai? La gente sotto rumoreggiava incredula.

Uno dei contadini salì sul campanile per verificare cosa stesse succedendo. Si affacciò dalla torre e gridò: - L'asino è morto strangolato, ecco perché rideva storto -.


Morale: quando si pensa di fare una cosa buona per gli altri (d'asini si è parlato, ma è solo una metafora) occorre sempre usare mezzi altrettanto buoni.


Intermezzo. Due racconti ed una fiaba spot



Fatiche senza senso?

Eccolo: in piedi sui pedali, sudato. La strada veniva su dalla valle del Ticino con una salita secca e ripida. Dopo la curva il rettifilo per arrivare al paese: doveva farcela! Un attimo, un piccolo sforzo e l'avrebbe raggiunta.

La corriera riscaldava il motore sulla piazza del paese pronta ad imboccare il viale per raggiungere la città.

Aveva messo tutte le sue energie nelle ultime pedalate, sentiva già affievolirsi la forza nelle gambe... uno... due... uno... Finalmente!

Anche questa volta ce l'aveva fatta, un attimo prima che la corriera partisse.


Il tabarro nero

Si avvolse nel tabarro nero, con un rapido movimento del braccio destro, si guardò intorno uscendo dal Circolo. A destra e a sinistra la strada era deserta, la pioggia fitta bagnava l'asfalto lucido. Dal locale voci alte, sghignazzi, musica che sembrava annegare il tutto e fumo, tanto fumo. Fuori l'aria era così umida che anche il respiro era zuppo, pesante. Fece due passi verso la macchina posteggiata all'angolo della strada. All'improvviso fari abbaglianti di una macchina in piena corsa, stridore di ruote, schizzi d'acqua sui marciapiedi. Un attimo, finestrino abbassato, raffica di mitra, fuga. Sull'asfalto un tabarro nero.


Il principe ranocchio o Enrico di ferro (dai fratelli Grimm)


Nei tempi antichi, quando desiderare serviva ancora a qualcosa, c'era un re, le sue figlie erano per lui tutte belle, ma la più giovane -malgrado il padre la preferisse alle altre- era proprio brutta a vedersi. Così brutta che sembrava avesse la faccia di un ranocchio. Quando andava alla fresca sorgente a giocare con la palla d'oro pure i ranocchi -che di rospaggine se ne intendevano- si spaventavano al vedere quel mostro. Una volta che la palla era caduta nell'acqua avevano persino tentato di affogarla nella fontana... Ma quando -rompendo l'incantesimo della cattiva maga- toccò l'acqua, la figlia del re divenne una bellissima ranocchia: tutti se ne innamorarono e se la contendevano. Il principe dei ranocchi (anche nella sorgente c'erano principi e marchesi, uffa!) non volle farsela scappare e la tenne con sé.

Al re, quando raccontarono che la figlia aveva sposato un principe ranocchio, dovettero mettere tre cerchi di ferro intorno al cuore perché non gli scoppiasse dall'angoscia.

Quando un giorno il re andò a bere alla fontana e vide dei girini, gli saltarono i cerchi del cuore dalla contentezza e morì.



Il giardino


Nonno e nipote

Aveva cercato il nonno per farsi raccontare una di quelle storie fantastiche che solo lui riusciva a snocciolare. Il vecchio partiva sempre da pochi elementi verosimili nella loro quotidiana banalità e ci ricamava sopra un fitto arabesco. Impercettibili scarti nel racconto conducevano a scavare sotto la superficie della storia apparentemente così semplice e persino scontata per addentrarsi in un mondo intricato e complesso dove il senso delle cose era nascosto come avvolto in una impalpabile nebbia. Potevi solo percepire in filigrana tracce misteriose, da seguire con attenzione, con occhi sgranati.

L'aveva trovato, come al solito, nel giardino che fingeva di fare qualche lavoretto. Si nascondeva spesso, quando la stagione lo permetteva, nel giardino folto ed un po' selvaggio che stava davanti alla casa. Cosa facesse esattamente lì dentro nessuno lo sapeva esattamente: non potava alberi o cespugli, non contrastava l'invadenza dell'edera che ormai copriva il muro di cinta tracimando oltre, non sfoltiva il sottobosco dalle erbacce, insomma, non faceva nulla di utile per la conservazione di quel luogo e la sua crescita regolata. Apparentemente almeno. Eppure ci passava le ore a trafficare e dovevano chiamarlo a gran voce quando la cena era pronta perché non si accorgeva del tempo che passava. Nelle lunghe giornate d'estate sarebbe potuto restare fino a notte lì dentro.

Anche il nipotino subiva il fascino di quel luogo incantato e se riusciva a farsi raccontare qualcosa dal nonno il quel luogo misterioso, la storia sembrava più bella, si nutriva di quella selvaggia foresta. Ma l'impresa era farlo iniziare: il nonno era tipo spigoloso, andava preso con le dovute maniere, bisognava blandirlo con astuzia, toccare le note più profonde della sua sensibilità, non era tipo da prendere alla leggera. Sì perché, malgrado l'aspetto l'avrebbe fatto apparire a prima vista come uno di quei vecchi burberi ed un po' eccentrici che se stanno in disparte e non vogliono tra i piedi nessuno (tanto meno qualche ragazzino rumoroso ed impertinente), in realtà quando si scioglieva diventava un uomo ironico, con una spiccata vena fantastica ed una capacità di raccontare storie lontane anni luce dal plumbeo realismo dei "grandi". Enrico (si chiamava così il nipote) era stanco delle favole della mamma tutte moralismo e buoni sentimenti, dove la principessa sposa sempre il principe azzurro e vivono felici e contenti. Cercava nuove emozioni e sapeva di trovarle lì.

Cosa si sarebbe inventato il nipotino per far scatenare il nonno? Non ci aveva ancora pensato, anzi non pensava affatto ad una strategia. Le strategie, con questi tipi di vecchi, non funzionano affatto, bisogna spiazzarli con un'invenzione, strapparli alla loro coriacea resistenza con un gioco sottile e penetrante, solo allora la maschera poteva cadere, anzi, finalmente, si sarebbe potuto mettere la maschera della commedia ed incominciare lo spettacolo come un navigato guitto del palcoscenico.

Il nipotino aveva varcato l'entrata del giardino col cuore in gola: non poteva farne a meno di trattenere l'emozione che gli dava questo posto. Subito aveva gridato il nome del nonno. Sapeva che non avrebbe risposto al primo richiamo ed allora aveva richiamato aggiungendo il suo nome come per segnalare una parola d'ordine, un lasciapassare per quel mondo misterioso. Solo allora il nonno aveva risposto dicendo "sono qui", come se in quella selva si potesse individuare un qualche percorso per raggiungerlo. Il nipote aveva capito subito che la partita era incominciata ed aveva prontamente risposto "vieni a prendermi al cancello, non ti vedo...". A quel punto il nonno non avrebbe potuto far altro che emergere dalla vegetazione e... no non era ancora il momento, aveva tergiversato gridando "aspetta, sto finendo una cosa molto importante...". Il nipote pazientemente si era seduto sulla panchina di pietra sotto l'albero di fico ed aveva tentato, furbo, un'altra strada "vuoi che ti aiuti, nonno?". Dal folto del giardino "lascia perdere, mi faresti solo perdere del tempo, non è un lavoro per bambini...". Ed il nipote "è un lavoro per nonni?" Dal giardino una voce spazientita "non ho tempo di stare a spiegare adesso, aspetta..."

La giornata di Settembre stava finendo, le ombre degli alberi si allungavano ed il sottobosco sembrava infittirsi, la terra emanava il calore accumulato durante l'estate, ma fra poco l'umido della notte avrebbe fatto rabbrividire.

Il nipote guardava verso il fitto del giardino per scoprire da quale varco sarebbe spuntato il nonno ed aveva già cominciato a raccontarsi la fiaba della bella principessa che coglie malauguratamente la rosa dell'orco. Il nonno in fin dei conti poteva essere benissimo considerato un orco, almeno in quanto a carattere c'eravamo e poi era altrettanto geloso di quel giardino. Non ci avrebbe messo molto a strapazzare chi con leggerezza gli avesse strappato qualche fiore. Infatti i fiori delle bordure che aveva piantato a primavera o quelli spontanei che crescevano nelle zone erbose non li coglieva mai, li lasciava appassire, se decideva di toglierli per qualche motivo li lasciava cadere recisi sul posto sistemandoli in un angolo dell'aiuola. Nulla doveva uscire da quel recinto. Sì poteva essere benissimo un orco con la passione dei fiori.

"Ed allora cosa vuoi?" disse il nonno spuntando tanto all'improvviso da dietro un cespuglio di ligustro da far trasalire il nipotino. Non era riuscito che a balbettare qualche parola incomprensibile, tanto da far incavolare ancora di più il vecchio "cosa stai dicendo, spiegati, non ho tempo da perdere...". Ma era stato un attimo, il nipote era passato subito al contrattacco "cos'è quell'attrezzo che hai in mano?". Il nonno si era già distratto ed aveva fissato l'attrezzo che aveva in mano come se lo vedesse per la prima volta. Poi capito il trucco aveva ribattuto "lo sanno i tuoi che sei venuto qui da me?" Ed aveva fatto un ampio gesto col braccio indicando la casa. "Non vorrei che poi sgridassero me per questa tua scappatella". Il nonno era in trappola, il nipote l'aveva fissato negli occhi e gettato la carta vincente "quando vengo da te papà e mamma sono tranquilli, perché tu mi fai fare tanti bei lavoretti e mi racconti delle belle fiabe. Lo sai che dopo mi tocca raccontarle anche a loro?". "Non fare il furbo con me, ragazzino - aveva sibilato il nonno - figuriamoci se quei due hanno il tempo di stare ad ascoltare un moccioso pisciasotto che gli racconta delle favole... E poi non le ascoltavano da bambini, che se ne stavano davanti alla tivvù per pomeriggi interi e dovrebbero farlo ora che sono grandi e così tanto impegnati? Forse ti chiedono di raccontarle per controllare che non te le spari troppo grosse... "

"Sai mamma e papà sono strani e non c'è da stupirsi di nulla, nonno..."

Allora il nonno, rassegnato, aveva incominciato "Gh'ea una 'olta un ré..." La sua voce calda e profonda sembrava arrivare dalla notte dei tempi e la lingua antica e misteriosa che utilizzava creavano subito un'atmosfera particolare: sembrava che i personaggi sorgessero dalla terra, prendessero forma umana gli alberi ed i cespugli, una natura profonda si scuoteva al richiamo di quel pifferaio... Il giardino e loro due affiancati sulla panchina di pietra erano la stessa cosa immersi nella fantasia e nel sogno.


"Enrico, Enrico, dove sei? " la voce della mamma dal balcone della casa risuonava nel piccolo cortile ed arrivava attutita nel giardino, come un lontano sibilo di vento.

"Sono qui in giardino, mamma, non ti preoccupare".

Il temporale violento ed improvviso aveva lasciato il giardino fradicio e se fosse possibile, ancora più arruffato del solito. I cespugli di cornus sembrava non reggessero tutta l'acqua che avevano preso e si erano abbassati a terra con le foglie appesantite come fossero di piombo. Il grande cespuglio di lauro ceraso aveva le foglie così lucide che ci si poteva specchiare dentro ed il piccolo bosco di canne in fondo al giardino sembrava spettinato...

Per Enrico quello era il momento migliore per stare a guardare il giardino, sentiva che il temporale avrebbe potuto lavare via qualsiasi brutto pensiero. Ed allora se ne stava a contemplare gli alberi ed i cespugli e poi i fiori ed ancora il triangolo di cielo che si apriva tra il grande platano e le due piante di paulovna...


Davanti alla porta di accesso al giardino si apriva un grande spazio coperto dal ghiaietto delimitato da un cordolo di fiori, un'aiuola di tageti ed una di rose carminie. Sul lato destro si intravedeva un vialetto che si inoltrava nel folto delimitato da una fila di tigli che emanavano a primavera una profumo intenso, dolciastro e penetrante. Sotto i tigli all'ombra dell'alto muro di cinta si alzavano alti cespugli di euonymus dalle bacche rosse che spiccavano tra le foglie maculate.

Il vialetto conduceva alla piccola collina sulla quale era posto un cippo in marmo come quelli che sorreggono i busti di personaggi illustri. Lì invece non c'era nessuno da celebrare, solo un merlo di tanto in tanto vi si posava fiero col suo becco proteso all'insù e con la coda ritta a far da contrappeso, faceva qualche passo di danza e poi, via, nel folto del sottobosco. Intorno un praticello che finiva in un bordo di ortensie di vari colori e dietro una piccola roggia fresca assediata dalle felci delle rive e di un verde intenso per il riflesso degli alberi. La roggia attraversava il giardino scomparendo dentro un tombino che la portava al di là del muro di cinta. In un angolo del giardino un centenario lauroceraso occupava una grande area: era talmente alto da formare con le sue fronde una capanna naturale che all'inizio di un temporale riparava completamente dalla pioggia. Sul lato opposto dello spiazzo all'ingresso (quello più assolato), c'era un gruppo di palme che aveva ai suoi piedi un vivaio di altri virgulti.

Dietro era mimetizzata tra la vegetazione ed i rampicanti, la serra, una costruzione bassa con grandi vetrate che serviva come riparo degli attrezzi e come ricovero delle piante più delicate, limoni, ortensie e gerani. In un angolo c'era anche una vecchia stufa a legna che serviva a mitigare la temperatura nelle più fredde giornate di Gennaio.


Mentre Enrico fissava il lauroceraso ebbe la sensazione di essere a sua volta osservato, era una impressione piacevole come se qualcuno finalmente dall'ignoto guardasse nel suo mondo. Nel fogliame lucido aveva scorto per un attimo due occhi scuri leggermente iniettati di sangue che lo fissavano... Ma Enrico non voleva spaventare quell'essere misterioso, gli occhi erano l'unico segnale di quella presenza sconosciuta. Aveva fatto finta di nulla e se ne era stato lì buono buono a guardare il giardino attendendo una mossa da parte dell'altro. Non era facile questa partita, ma ormai era abituato alle schermaglie con il nonno e non sarebbero stati certi due occhi scuri iniettati di sangue a spaventarlo.

Eppure c'era qualcosa di familiare in quegli occhi: avevano la sua stessa curiosità per le cose anche se non capiva cosa ci fosse di tanto interessante da vedere dal folto del giardino verso la casa. Si era immaginato quell'angolo visuale: il muro di cinta in mattoni, il piccolo cancello in legno e dietro la casa bianca di calce con le persiane dipinte di verde. Poi l'immaginazione aveva subito fatto cambiare bersaglio ed Enrico aveva concentrato la sua fantasia su come quella persona fosse riuscita ad entrare nel giardino. Un alto ed impenetrabile muro di cinta chiudeva lo spazio verde e non vi era nessuna apertura. Eppure quel clandestino non poteva essersi materializzato dal sottobosco. E poi il nonno possibile che non l'avesse scovato anche in quell'intrigo di vegetazione? A meno che il nonno sapesse e per una ragione ancora misteriosa non avesse voluto rivelare a nessuno l'arcano.


Era arrivato alla conclusione che il nonno sapeva dell'uomo nero del parco: lui conosceva palmo a palmo il giardino: ogni giorno si aggirava là dentro come un leone in gabbia, non gli sarebbe sfuggita nemmeno una lucertola che, stanca di prendere il sole sui mattoni del muro, si fosse rifugiata nel folto dell'edera che lo copriva. Già l'edera... forse era quello il velo che celava qualche porta sulla recinzione, una porta che doveva essere nascosta a tutti, un vecchio cancello in ferro arrugginito chiuso da un catenaccio che nessuno avrebbe mai pensato di poter aprire. Invece il nonno poteva: il giardino intricato del suo cuore poteva essere penetrato e qualcuno c'era riuscito. Come? Era un mistero, anche per il piccolo Enrico. Pensava di conoscere solo lui la chiave di quel cuore arrugginito, invece... Una grande tristezza gli era venuta addosso ora che la sera scendeva con le sue ombre lunghe e al grido della mamma dalla finestra <Enricooo...> si era alzato di scatto e corso verso la casa. Ma come un vero attore si era fermato sulla soglia del cancello, si era girato verso il cespuglio gridando <Ciao> e scappando in casa come inseguito da un fantasma.


Enrico era corso verso il giardino con un'aspettativa maggiore. Non cercava solo il nonno con le sue storie, ora c'era anche quell'altro, nascosto, ad aspettarlo. Non aveva chiamato subito il nonno sperando di scoprire l'intruso tra i cespugli. Con una certa delusione aveva notato che tutto sembrava normalmente arruffato ed allora aveva alzato la voce per il suo abituale richiamo. Ma ecco improvviso ed inaspettato il fruscio.

Intanto il nonno era arrivato con il suo passo un po' caracollante e i due avevano incominciato la solita partita, ma questa volta il gioco si faceva più interessante perché c'era pure uno spettatore.

Enrico aveva avvertito che quegli occhi non erano gli stessi del giorno precedente: c'era qualche cosa di inquieto in quella nuova presenza, erano più mobili, come se si spostassero continuamente all'interno del cespuglio e che guardassero nervosamente verso la casa e controllassero loro che parlavano sulla panchina di pietra. Non poteva chiedere al nonno perché quello sicuramente era un suo segreto e di quelli grossi che non si possono svelare se non in circostanze particolari e speciali. Erano lì seduti tranquillamente sulla panchina e non pensavano ad altro che alle loro fiabe.

Eppure il nonno aveva capito qualcosa, aveva scrutato il nipote che gli sembrava meno concentrato del solito, più incline a disperdere lo sguardo nel fondo del giardino a correre dietro a qualche pensiero legato alla zampa di un merlo. Ma anche lui non aveva chiesto spiegazioni. Poteva essere uno di quei momenti che anche i bambini hanno una nostalgia, quasi che pensassero ad una giornata nell'età dell'oro dell'infanzia.


Enrico era sicuro quegli occhi non erano gli stessi del giorno precedente e si chiedeva se fosse finita lì la fauna del giardino.

Quella sera il freddo improvviso di un giorno di autunno era penetrato fin dentro la casa ed Enrico aveva sentito sottile ma inconfondibile un profumo di legna bruciata e subito aveva pensato alla stufa della serra.


Ormai era deciso: sarebbe andato quella notte stessa nel giardino ed avrebbe scoperto chi si nascondeva là dentro. La serata era propizia, la tivvù dava uno di quelle commedy che piacevano tanto sia a mamma che a papà e così Enrico avrebbe preso la scusa di ritirarsi in camera a giocare con il suo videogioco preferito sgattaiolando invece fuori. Il nonno non era un problema, lui dopo cena spariva nella soffitta dove si era creato una specie di studio e se ne stava lì tutta la sera a fare non si sa cosa.

Enrico era scivolato fuori dalla porta di casa che il cuore gli batteva forte e si era portato una piccola pila portatile per farsi luce. Il giardino era come affondato nella notte, non si distingueva nulla e bisognava farsi largo nel sottobosco che sembrava essersi intrecciato serrandosi ad ogni intrusione. Procedeva con fatica, cercando di non fare rumore. In lontananza dietro al muro di cinta solo l'abbaiare di un cane insistente e fastidioso. Sulle gambe sentiva come mille mani che lo accarezzavano, le felci con le loro foglie come lunghe dita, l'erba sottile e tagliente già bagnata di una fresca rugiada. Agli alberi era rimasto solo il tronco mentre le fronde si confondevano con la notte non lasciando passare nemmeno un raggio della luna piena che pure era già spuntata e campeggiava nel cielo. Ma ecco proprio la luce della luna illuminava lattiginosamente il lato della serra. Le finestre lasciavano appena trasparire una luce altrettanto fioca proveniente dall'interno, quasi che all'interno avessero acceso delle candele.

Il bambino si era avvicinato silenzioso ed aveva sbirciato attraverso la finestra. Il mondo là all'interno sembrava di favola: la luce tremolante più che creare luce produceva ombre mobilissime che si stagliavano sulle pareti, gli attrezzi sembravano danzare, ma anche figure umane si muovevano. Enrico non riusciva a mettere a fuoco nessuna immagine definita, appena riusciva ad acchiapparne una gli sfuggiva come se gli scivolasse tra le dita e si sciogliesse in quelle ombre. Si era fatto prendere dall'emozione e ci volle un po' di tempo prima che decidesse di seguire una sola immagine per distinguerla tra le altre, per separarla, per riconoscerla.

Aveva provato con una figura che indossava una specie di sciarpa di seta che sembrava gonfiarsi come una vela alla luce della candela. L'immagine sembrava materializzarsi per poi svuotarsi, librarsi nell'aria per poi cadere pesantemente a terra confondendosi con il ciarpame accumulato là dentro.

Enrico lentamente si assuefaceva a quell'atmosfera e solo ora apprezzava i particolari, affinava la sua capacità di discernere, di selezionare. Ora poteva percepire anche una musica, come un suono attutito, lontano e gracchiante che pareva essere prodotto da una di quelle radioline portatili. Il volume era talmente basso da confondersi con il fruscio della notte nel giardino. Così quella danza al soffio di una musica inesistente sembrava un po' macabra o forse era solo un effetto della luna piena che splendeva indifferente su tutto.

Ora distingueva una figura: un attimo si era girata verso la finestra ed un raggio improvviso aveva colpito il suo viso. Non poteva essere che la persona inquieta del secondo giorno. Era lei che indossava quella sciarpa di seta. Nell'angolo, poi, c'erano anche gli occhi fissi del nero che guardava dal cespuglio. Erano immobili, guardavano anche loro la danzatrice, la finestra e la testa del bambino che spuntava illuminata dalla luna. Erano calmi e fiduciosi, guardavano senza ansia, senza voglia di possedere, senza ombra di invidia. E sotto quegli occhi, per la prima volta Enrico aveva visto affacciarsi un sorriso appena accennato. A chi sorrideva? Alla ballerina dalla sciarpa svolazzante o ad Enrico, spettatore in incognito?

Ecco che una grande ombra che stava sullo sfondo della stanza venire alla ribalta. Era una terza persona, enorme di statura, con una testa piccolissima, avvolta in un ampio tabarro nero che sembrava coprire tutta la stanza e lanciava ombre enormi allargando le braccia. Anche quella figura danzava con un movimento apparentemente sgraziato che ad ogni momento pareva travolgere tutto. Eppure gli altri apprezzavano ed incoraggiavano il nuovo danzatore. Tutti sembrano adattarsi alle sue goffe movenze e la figura con la sciarpa schivava abilmente i movimenti troppo maldestri dell'uomo col tabarro.

Enrico era rimasto lì a bocca aperta, come stesse ascoltando una fiaba del nonno: tutto evocava mondi fantastici ed improbabili dove lui si trovava a suo agio, da cui non avrebbe mai voluto separarsi.

Ma un brivido freddo lo colse all'improvviso alla schiena quasi fosse una sferzata sulla groppa di un cavallo già teso dallo sforzo del galoppo. Non gli rimase che scuotersi di dosso quello stato di torpore che l'aveva preso e correre, senza nemmeno accendere la pila verso la lucina che si vedeva in lontananza sulla facciata bianca della casa. In un attimo era nel suo letto sotto le lenzuola profumate per tuffarsi in un altro ed imprevedibile sogno.


Il sogno

Enrico quella sera a letto prima di addormentarsi aveva ripetuto come una giaculatoria la filastrocca che tante volte aveva sentito:


E vün e dó e tré

e ul Papa l'é minga ul Ré

e ul Ré l'é minga ul Papa

e ul Dòmm l'é minga a piassa

e a piassa l'é minga ul Dòmm

anca Pepin l'é minga ch'él òmm

e ch'él òmm l'é minga Pepin

e a stuppa l'é minga ul lin

e ul lin l'é minga a stuppa

e ul füs l'é minga a rocca

e a rocca l'é minga ul füs

anca i vérsi inn minga i gambüs

e i gambüs inn minga i vérsi

e a pignotta l'é nù istéss

e istéss l'é nù a pignotta

e ul can l'é nù a gòta

e a gòta l'é nù ul can

anca incö l'é nù duman

e duman l'é nù incö

e a tèra a få i fasö

e i fasö a få a tèra

a pos l'é minga a guèra

a guèra l'é minga a pos

anca Batista l'é nù Tumos


Solo allora le parole gli erano sembrate stonate. Improvvisamente aveva capito che era tutto un mondo in bianco-nero, senza dubbi, le cose stavano o da una parte o dall'altra, era difficile che chi nascesse bianco potesse diventare nero e la pace mai e poi mai poteva travestirsi da guerra. Ma Enrico aveva fatto esperienza di una realtà diversa: davanti a sé aveva la prova che questo mondo era più complesso di quello delle filastrocche, più sfumato nei contorni e generava continue contaminazioni. Anzi sembrava proprio che la confusione fosse il suo connotato principale. Aveva imparato che il nero non poteva esistere senza il bianco. Il nonno l'aveva rivelato con il suo carattere ed il suo comportamento: di giorno placido giardiniere, di notte locandiere di sconosciuti vagabondi, tenero fabulatore di fantastiche storie ed allo stesso tempo coltivatore di sogni proibiti. In quella complessità stava la sua forza e la sua precarietà insieme.


Si era addormentato con questi pensieri più grandi dei suoi sei anni e si era trovato sulla riva di una spiaggia di sabbia che si perdeva a vista d'occhio fino ad un lontano promontorio. Davanti un mare piatto increspato solo da una leggera brezza, le onde a fatica sembravano srotolarsi sulla banchina. Un bambino giocava con la sabbia munito della sua paletta e di un piccolo secchiello. Di fianco, steso sull'asciugamano, il corpo di una persona che era come fuori dall'inquadratura: si scorgevano solo le gambe e si sentiva la sua voce. Il bambino aveva chiesto qualche cosa e la persona stesa balbettava una risposta, non trovava le parole, prendeva grandi pause, sospirava. La domande doveva essere una di quelle che fanno spesso i bambini a tradimento, quando meno te lo aspetti, senza alzare nemmeno la testa dai giochi. Ma dopo una pausa più lunga, il bambino alzava lo sguardo dalla sabbia come per scrutare l'adulto e sollecitare una risposta con una occhiata. Come poteva non rispondere alla domanda di un bambino? Forse la persona sdraiata si era assopita sotto il cappello di paglia o qualche altro pensiero aveva distolto l'attenzione da quella conversazione. Il mare, indifferente, macinava onde. Una goccia scorreva sulla guancia dell'adulto, spuntando da sotto il cappello di paglia scintillando al sole per perdersi nella sabbia. Il bambino non capiva se era una lacrima o una goccia di sudore, sollevando lentamente il cappello, scopriva occhi lucidi. Non riusciva ora lui a trovare parole per quel dolore ed allora si accoccolava rannicchiandosi con la testa appoggiata all'incavo della spalla. Silenzio. Si sentiva persino quel piccolo sciacquio sul bagnasciuga.


Albeggiava. La luce entrava dalle persiane. Enrico sonnecchiava nel letto ascoltando i rumori provenienti dal giardino: richiami di uccelli che si intrecciavano, si inseguivano, il gorgogliare delle tortore sui primi alberi verso la casa, un gran movimento sembrava far fremere l'aria... Poi all'improvviso il silenzio come se un direttore d'orchestra avesse sbattuto la bacchetta sul leggio per imporre l'attenzione. Lunghi minuti sembravano scorrere e perdersi nel dormiveglia. Poi, improvvisamente, il concerto riprendeva più festoso di prima, più intricato dei rami degli alberi e del sottobosco. Enrico pensava a quel piccolo cancello coperto dall'edera in fondo al giardino ed ai tre clandestini della serra che sgattaiolavano fuori, prima che il paese si accorgesse di loro.



Il re nudo

Enrico era penetrato una sola volta nell'altro impenetrabile nascondiglio del nonno: la sua soffitta. Era una di quelle giornate afose di fine estate. L'aria era densa come miele e tutti attendevano dalla finestra che un filo d'aria facesse tirare un sospiro prima di arrendersi all'agitata notte.

Enrico era particolarmente irrequieto quella sera: non riusciva a starsene immobile come tutti davanti alla tivvù e, dopo qualche richiamo al silenzio del papà, aveva finto d'andare nella sua camera ed aveva imboccato silenziosamente la scala che portava alla soffitta del nonno. Lo sapeva che era una cosa ancora più proibita di quella d'andarlo a disturbare nel giardino, eppure quella sera non poteva pensare ad altro che a infrangere quel piccolo tabù domestico. Avvicinatosi alla porta della soffitta si era fermato ad ascoltare come se attendesse chissà quali rumori provenire dalla stanza. Nulla. Il silenzio più assoluto. Il nonno non possedeva tivvù e nemmeno la radio. Raramente ascoltava dischi di blues e di opere liriche utilizzando un vecchio grammofono.

Enrico aveva pensato che fosse già andato a letto ed aveva girato con molta delicatezza la maniglia della porta. La stanza era nella penombra, solo una piccola lampada nell'angolo vicino alla libreria spargeva una luce soffusa filtrando dallo spesso paralume in carta di riso dipinto con colori ad olio.

Enrico aveva spalancato gli occhi come un gatto nell'oscurità ed era avanzato con un passo felpato. Ecco un'ombra pesante di una figura in piedi. Ancora un passo ed ecco disvelarsi una scena che non avrebbe mai dimenticato: il nonno nudo davanti al grande specchio che stava proprio sul lato opposto della lampada. Il nonno si scrutava il corpo nudo, la pelle del viso leggermente abbronzata con le grinze intorno agli occhi venate di bianco, il collo con una leggera curvatura appena sotto l'attaccatura dei capelli di un bianco che sembrava porcellana, il torace un po' infossato senza un pelo, appena sotto l'ombelico iniziava una leggera peluria che si infittiva a coprire il pene piccolo e grinzoso, le gambe ancora robuste da buon pedalatore ed i piedi bianchissimi che sembravano faticare a sostenere quel corpo con tutte le vene a rilievo quasi fossero sotto sforzo. Era nudo e passava avanti indietro lo sguardo soffermandosi su ogni particolare, osservando ogni piccola tensione di muscolo, scrutando la pelle come se da un momento all'altro quella piccola tensione potesse svelare quello che stava sotto. Ed una smorfia di dolore si disegnava sul viso ed il braccio si alzava a coprire gli occhi, quasi a voler nascondere la vista da qualcosa di insopportabile.

Enrico era riuscito a stento a trattenere l'emozione ed era uscito solo un piccolo grido dalla bocca tappata dal palmo della mano aperta. Aveva raggiunto la porta inciampando in mille oggetti con un crescente frastuono che l'aveva inseguito fino a quando aveva raggiunto la sua camera. Quella notte aveva guardato per ore la luce della luna che illuminava gli alberi del giardino e l'alba l'aveva trovato accoccolato sulla poltrona davanti alla finestra.



La meridiana


Non si era mai accorto, Enrico, della meridiana posta sul lato sud della serra. Da bambino non poteva certo scorgere tra il fitto rampicante il quadrante e lo spuntone. Anche oggi la si poteva intravedere alzandosi sulla punta dei piedi ed osservando attentamente si notava anche un sole fiammeggiante al centro dai colori ormai stinti ed un cartiglio a fregio che riportava il motto "Segno l'ora serena". Nell'angolo una figura femminile dalla lunga veste nella posa plastica di un passo di danza.

Enrico si chiedeva ora che ci facesse una meridiana nel giardino: il tempo in quello spazio gli era sembrato sempre dilatato e scandito solo dalle stagioni. Invece qualcuno aveva pensato di fare quell'intrusione come a voler ricordare che esisteva un tempo più breve, scandito dal passaggio del sole. Nello stesso tempo e contraddittoriamente la sua posizione era infelice per quel compito di orologio solare. Stretta tra una fitta coltre di alberi l'asta della meridiana rimaneva senza ombra, diventando monito di un tempo che trascorreva senza la possibilità nemmeno di misurarlo. "Segno l'ora serena" suonava frase crudele dal momento che non segnava alcuna ora.

Ed improvvisamente si era smarrito, dopo tanti anni, davanti a quella scoperta si era sentito come il nonno nudo davanti allo specchio, indifeso, in attesa di scoprire cosa ci fosse sotto la scorza dell'esistenza, nel profondo dell'io. E proprio lì nasceva lo smarrimento perché Enrico come il nonno non vi trovava nulla se non quei segni misteriosi della natura e del tempo.

Eppure quel passo di danza, come un guizzo improvviso sembrava volesse distrarre dalla disperazione, gli ricordava il balletto notturno della serra, lo svolazzare di veli, le luci soffuse, l'aria fiabesca e sognante di quella esperienza della sua infanzia. Anzi ora capiva che tutta quella scena a cui aveva assistito di nascosto da bambino era permeata da una sensualità innocente e selvaggia che rimandava a riti lontani, arcaici, che solo ora sentiva profondamente incisi nella carne, quasi rappresentassero una delle matrice della sua anima.

Il nonno, aveva pensato Enrico, poteva essere carcerato o carceriere di quel giardino, ma altri teneva le chiavi del cancello ed osservava dal folto del lauroceraso come procedeva la sua esistenza, spiava senza svelarsi.

C'era un tempo in cui cresceva all'improvviso un'ansia, lo sguardo sembrava prendere una piega di disperazione, tutto crollava addosso, senza speranza. I ciclisti lo conoscono bene questo stato d'animo: arriva in un attimo durante una salita impegnativa o anche su un piccolo ma improvviso strappo della strada. Le gambe sembrano ammollarsi, perdono di tono, si svuotano di energia. C'è un punto poi che sembra insormontabile, in cui si dice <questa è l'ultima pedalata, poi mi fermo>. Eppure se si riesce a superare quella soglia della fatica e del dolore fisico, poi sembra che le forze riprendano, che nuova linfa rivitalizzi le gambe, inspiegabilmente si ritrova l'energia per arrivare. Da allora aveva pensato alla morte come alla gara di un ciclista, occorreva solo superare quella soglia e poi...