Il ritiro del supermanager

Se l’opera d’arte è un museo

La crisi del modello Guggenheim

Un invito alla riflessione

 

di Giuliana Altea

 

Il ritiro di Thomas Krens dalla direzione del Guggenheim, dopo vent’anni che lo hanno visto protagonista di una gestione tra le più aggressive e spregiudicate della storia dei musei, è uno di quegli episodi cui si tende inevitabilmente a attribuire il valore di scansione di una fase storica. Krens è il direttore che, applicando al museo i criteri del management aziendale, lo ha reso sinonimo di commercializzazione e spettacolarizzazione; che ha mischiato con disinvoltura cultura e impresa. Soprattutto, è colui che ha avviato una campagna di moltiplicazione delle sedi senza precedenti, aprendo o tentando di aprire filiali in mezzo mondo, con un uso estensivo del franchising che ha trovato il suo primo e più famoso esempio nel Guggenheim Bilbao: la sontuosa astronave barocca rivestita di titanio - capolavoro di Frank Gehry - che, riempita con opere recuperate dai magazzini della sede newyorchese, ha promosso la capitale basca a meta turistica. A Bilbao hanno fatto seguito Berlino, Las Vegas, e i piani rimasti sulla carta per Salisburgo, Rio de Janeiro, Tokyo, Taichung, Guadalajara, Abu Dhabi: un diluvio di progetti edilizi affidati ai più noti studi internazionali, da Rem Koolhaas a Jean Nouvel, a Zaha Hadid. Progetti fra loro diversi, aventi però un punto in comune: la preminenza del contenitore scenografico sul contenuto, del guscio architettonico sulla collezione e la proposta culturale. Ma, ha detto qualcuno, una frenetica attività edilizia non è necessariamente segno di buona salute, come dimostrano le avventure del re Ludwig di Baviera e di Nicolae Ceausescu. La vicenda della multinazionale Guggenheim ce ne dà una conferma: lo sviluppo di succursali spettacolari ha portato a trascurare il gioiello di famiglia, il Guggenheim di New York, e all’indebolimento complessivo del brand. Nel giro di pochi anni, nell’impero di questa Mc Donald dei musei hanno cominciato ad aprirsi preoccupanti falle economiche. Complice anche lo sconvolgimento dell’11 settembre e la caduta dei flussi turistici, che ha assestato un duro colpo a istituzioni rivolte ad attrarre più stranieri che residenti, Krens si è trovato di fronte a bilanci in rosso, e ha dovuto tamponare le perdite riducendo il personale, attingendo al fondo di riserva e vendendo opere delle collezioni, fino alla scelta obbligata di rinunciare all’incarico. La sua uscita di scena segnerà veramente un’inversione di rotta nei confronti dei drammatici processi di trasformazione che hanno investito i musei a partire dagli anni Novanta? Il “bilbaoismo”, la proliferazione di vistosi musei-contenitore, con collezioni scarse o inesistenti e programmi fumosi o nulli, è ormai un fenomeno dilagante in tutto il mondo. Sono molte le città che vogliono il loro Gehry (o una firma equivalente), per motivi che vanno dall’esigenza di ritagliarsi un posto nell’industria globale della cultura, al bisogno di rigenerare aree in declino, di propagandare un discorso identitario o di sostenere ambizioni di grandeur nazionale. Se pare difficile che il retro-front del Guggenheim, e il suo presumibile ritorno alla missione originaria, possano arginare queste tentazioni, potrebbero però costituire un’occasione per riflettere sull’importanza di riportare l’architettura museale al giusto posto, che non può essere quello di protagonista rispetto all’arte che alberga.

 

(La Nuova Sardegna del 03.03.2008)