RITORNO A  MORRA DI FRANCESCO DE SANCTIS

Nel mese di settembre 1833 lo zio vede il giovane sedicenne Francesco “scheletrito” e lo porta a “bere un po' d'aria nativa”. Con lo zio Pietro e Giovannino, Francesco parte per Morra.

Non sapevo di amar tanto il mio paese. Quando di sopra la Via Nuova vidi un mucchio di case bianche, mi sentii ricercare le fibre, non so che di nuovo mi batteva il core. Poco più in là vedemmo non so quali punti neri. — Sono galantuomini che ci vengono incontro, — disse zio Pietro. Scesi di cavallo a precipizio, e corsi, ed essi corsero a me, e mi trovai tra le braccia del babbo. La sua faccia allegra e rubiconda raggiava, era tutto un riso, e gli pareva essere cresciuto di altezza, tenendo per mano Ciccillo, e mi presentava tutto glorioso. Nonna non c'era più. La mamma mi venne incontro sui gradini di casa, e mi tenea stretto al seno e piangeva e non sapeva staccarsi da me. La casa fu piena di gente. Molte le strette di mano, molte le carezze e i baci. Ma io m'ero seccato, e cercava con gli occhi le compagne e i compagni, mi sentivo un piccino di nove anni, come quando li lasciai. Costantino alto e robusto mi levò sulle braccia, dicendo : — Come sei fatto brutto— Era un piccolo gigante quel Costantino. I miei gusti non erano mutati. Abbracciai Michele, il contadino, venuto su rude e saldo, come una torre. La distinzione delle classi non mi è mai entrata in campo. Contadino, operaio, galantuomo, gentiluomo, questo per me non aveva senso. Trattava tutti del pari, e usava il tu, il voi e il lei non secondo le persone e il grado, ma come mi veniva, così a casaccio, e spesso alla stessa persona dando del tu e del lei.

La sera ci fu gran pranzo, coi soliti strangolapreti, e il polpettone, e la pizza rustica  e altri piatti di rito. Il dì appresso visitai tutti i luoghi dov'era passata la mia fanciullezza. Fui nel sottano, e dove si ammazza il porco, e dove era la mangiatoia pei cavalli, e dove tra mucchi di legna o di grano solevo trovar le uova ancora calde e portarle alla mamma. Quel sottano sonava ancora dei miei trastulli fanciulleschi. Poi sbucai nell'orto, e salii il fico e mi empii di ciliege, e feci alle bocce o alle palle, correndo, schiamazzando. Ero in piena aria, in piena luce, mi sentivo rivivere. Dopo il pranzo feci la passeggiata per  la Via Nuova, tra compagni e compagne. Mariangiola mi teneva per mano, una bella giovanotta, un po' più grandicella di me, e io mi lasciavo fare, e mi veniva l'affezione. Giungemmo alle Croci, che è un piccolo monte, storiato  della passione di Cristo, detto perciò anche il Calvario. Alle falde era il cimitero, una camera tutta biancheggiata, entro cui erano addossate le ossa degli antenati. Mi sentii un freddo e pensai a Genoviefa, e m'inginocchiai innanzi all'inferriata e piansi piansi, e dissi molti Pater e molte Ave.

Verso la sera, fatte molte visite, ci disse zio Pietro che ci voleva far conoscere don Domenico Cicirelli. E ci menò in piazza, e là dove si apre una scalinata di grosse pietre che conduce alla strada di sopra, c'imboccammo  in un porticino, e fummo subito sopra. Trovammo don Domenico nella prima stanza, già non erano che due stanze in tutto. Era quella stanza di un bianco sporco, decorata di ragnateli e di spaccature qua e là. Non so che puzzo mi saliva al naso. Don Domenico stava su d'una seggiola di faccia all'uscio, presso alla finestra, con una gran tavola avanti, sparsa di scartafacci e d'inchiostro. Entrando noi, si levò e stese la mano a zio Pietro. Aveva in capo un berretto da notte, era grasso e basso, con la faccia rossa a fondo nero, la fronte piena di rughe, gli occhi cisposi, e le labbra grosse e bavose. Toccava l'ottantina, non portava barba. Appresso a noi entrarono altre persone, si fece folla. Baciammo la mano al grand'uomo di Morrà Irpina; lo chiamavano il dottore  e il filosofo…………. .

Ed ecco due contadini portarono parecchi boccali di vino, e si bevve in giro. A noi piccini toccò un bicchiere di rosolio. Don Domenico era molto ricco, ma stretto nello spendere: e fu punito dalla prodigalità de' nipoti, e oggi un suo nipote fa l'usciere e va stracciato, e i figli zappano la terra.

Votati i boccali e sgombrata la stanza, si rimase in pochi. E don Domenico mi prese per mano e mi domandò cosa avevo imparato[1].


[1] De Sanctis F., o.c., pagg. 61-64 ;