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Achille Lauro SUPERSTAR

La Democrazia Cristiana 
scatena la guerra

 

Al di là dell'edilizia e dei lavori pubblici vengono messi in cantiere molti altri progetti, che purtroppo naufragheranno per l'ostilità e l'ostruzionismo del governo. 
Si chiede la licenza per installare una televisione privata, la prima in Italia, ma si ottiene un diniego. 
Si vorrebbe aprire un casinò a Sorrento, in maniera da usufruire di flussi costanti di turisti anche nel periodo invernale, ma anche in questo caso non si riesce ad ottenere la licenza dalle autorità centrali.
Si progetta una casa cinematografica nel capoluogo, da localizzare nella Mostra d'Oltremare. Il pallino per i film al Comandante viene a seguito di una passione che agita i suoi ormoni ancora tanto efficienti: ha infatti conosciuto una sedicenne dalla folgorante bellezza, aspirante attricetta, Eliana Merolla, che diventerà prima la sua amante e poi, dopo la morte di Angelina, sua moglie. Per lanciarla egli finanzia una pellicola che la vede interprete principale con lo pseudonimo di Kim Capri al fianco di attori famosi, come Amedeo Nazzari e Paolo Stoppa, per un soggetto di Susy Cecchi D'Amico.
Si progetta inoltre a Baia un cantiere, il più grande del Mediterraneo, un investimento da dieci miliardi, ma non si ottengono i contributi governativi, nonostante l'interesse alla realizzazione dimostrato dallo stesso Giancarlo Valletta, all'epoca leggendario "padrone" della Fiat.
A fronte di tante iniziative, nessuna delle quali purtroppo realizzate, persiste nel bilancio comunale un deficit che cresce giorno dopo giorno fino ad assumere proporzioni preoccupanti. E sarà su questo buco dalle grosse dimensioni, oltre che sul non rispetto delle procedure burocratiche che si baserà il contrattacco della Dc, che sotto le vesti dello Stato interverrà in forze.
L'esame del bilancio preventivo del comune di Napoli per il 1956, condotto dalla Direzione generale dell'amministrazione civile, aveva messo in luce un disavanzo di circa trenta miliardi. Esso non aveva però impedito l'assunzione, nel corso del 1955, di 1057 tra impiegati e salariati, il che fece salire il numero dei comunali a ben 12.351 unità, senza considerare i dipendenti dell'azienda tranviaria.
Questa situazione di dissesto permette al governo di intralciare l'attività di Lauro, attraverso la sospensione, ad intervalli regolari, del delicato meccanismo che garantiva, per mezzo dell'erogazione di mutui, il denaro liquido sufficiente al pagamento mensile degli stipendi ai dipendenti comunali.
Lauro è un fiume in piena, lo straripante successo elettorale alle amministrative lo induce a conquistare altre piazze, per cui, in occasione delle consultazioni regionali sarde dell'aprile 1957 si prepara alla grande. Una task-force propagandistica, mai vista prima in Italia, s'imbarca dal molo Beverello a bordo di una gigantesca nave-traghetto. A Cagliari, sbarcano sotto gli occhi attoniti degli sbalorditi indigeni sessanta automobili con altoparlanti e venti autocarri stracolmi di materiale cartaceo e di tutto ciò che necessita per allestire una miriade di sedi di partito, dai manifesti alle foto, dalle macchine da scrivere ai televisori ed agli indispensabili calcio-balilla, in grado di procurare più voti di qualsiasi promessa.
In pochi giorni alcune centinaia di sezioni monarchiche coprono capillarmente tutto il territorio, battuto metro dopo metro da Lauro in persona che, dimostrando per l'ennesima volta delle capacità di lavoro fuori del comune, terrà discorsi dappertutto, anche nelle isolette più sperdute. 
Ad ogni comizio vengono distribuiti pacchi dono, ma i Sardi, più che da questi regali, a cui non sono abituati, vengono colpiti dall'eloquenza del Comandante, il quale eroderà voti, oltre che a covelliani e missini, soprattutto ai comunisti, che perderanno oltre ventimila consensi, mentre la Democrazia cristiana riesce a rimanere stazionaria.
Per la lista di don Achille è una vittoria al di là di ogni più ottimistica previsione: 60.000 voti pari a 9% e a 6 seggi nell'Assemblea.
Ad urne da poco scrutinate, il materiale  propagandistico è stato già smantellato ed è di ritorno verso Napoli,  pronto, l'anno successivo, ad essere scaraventato, opportunamente potenziato, per tutto il Mezzogiorno, in occasione delle elezioni previste per il 1958.
La macchina da guerra laurina si prepara ad invadere Calabria, Puglia, Lazio e poi anche le regioni settentrionali. Si prevede un potenziamento nel numero dei pullman propagandistici. Quello speciale, allestito per il Comandante è fantascientifico: contiene varie stanze, tra cui un ufficio ed una camera da letto ed in pochi minuti il tetto è in grado di  trasformarsi in un palco pluridotato di microfoni multidirezionali, per poter tenere discorsi in ogni piazza.
Nello stesso tempo, nel 1956, si è assistito al fallimento della Confintesa, un raggruppamento di diversi partiti moderati patrocinati dalla Confindustria, che è avversa a Fanfani, avendo perso per colpa sua il controllo di oltre duecento aziende irizzate.
Di conseguenza ora la Confindustria comincia a pensare ad una "grande Destra" guidata da Lauro, grazie ai cui uffici sperano per il 1958 di sdoganare il Movimento sociale italiano.


Achille Lauro

 

Lauro leader della "grande destra".

Il tentativo di creare a livello nazionale un grande fronte a destra, capitanato da Lauro, s'intreccia ambiguamente con la crisi finanziaria del comune di Napoli e l'improvvisa "attenzione" del governo verso il suo disastrato bilancio.
La realtà, molto eterogenea, che si doveva assemblare sotto una denominazione retoricamente ambiziosa di "grande destra" assommava in pectore a quattro milioni di voti, per cui rappresentava un'operazione politica in grado d'influenzare significativamente gli equilibri consolidati.
Un ostacolo era costituito dalla vecchia ruggine tra il Comandante e Covelli, esacerbata dal recente passaggio di un consistente numero di onorevoli dal Pnm verso il gruppo parlamentare laurino.
Le trattative ed i piani di battaglia fervevano da tempo, mettendo in ansia le testate governative, che ammonivano apertamente di "pericolo di destra", da cui bisognava stare particolarmente attenti, "per l'inveterata abitudine mentale a vigilare solo sui bastioni dell'estrema sinistra".
Lauro cercava, attraverso questi suoi non dissimulati programmi di "ampliamento", di esercitare una pressione sul governo, che, nel mese di dicembre, facendo seguito a dei minuziosi controlli, aveva commissariato gli uffici elettorali e demografici del comune.
La guerra fredda si acuì quando Tambroni, rispondendo ad una serie di interrogazioni in Parlamento, enumerò, con voce distaccata, una serie d'irregolarità riscontrate durante le ispezioni, che andavano dalla prodigalità eccessiva nell'erogazione del denaro pubblico alla sistematica elusione delle procedure burocratiche previste dalla legge.
Fu allora chiaro a tutti che l'attacco sferrato verso l'amministrazione comunale avrebbe portato in breve allo scioglimento d'autorità della giunta; una mazzata terribile per il Comandante, ben difficile da assorbire. Molti, impauriti, cominciarono a battere in ritirata, seguendo l'italico costume di abbandonare il perdente e di correre in soccorso, quando possibile, del vincitore. Tra questi coraggiosi, i liberali, con Einaudi in testa, che minacciava grottescamente le sue dimissioni irrevocabili dal partito in caso di accordo con Lauro. Gli stessi missini, pur stigmatizzando, attraverso i loro giornali, lo spudorato colpo di mano del governo "di colpire Lauro, fautore dell'unità a destra", preferirono per il momento accantonare il sogno malizioso della sacra coalizione.
Tra le voci dissonanti a livello nazionale l'autorevole "Il Tempo", con un editoriale di Alberto Consiglio dal titolo ambivalente "In difesa dei mariuncelli", volle giustificare ampiamente, con un'acuta analisi storica, il comportamento della giunta laurina: 
"Lauro come sindaco ha ereditato il malcostume amministrativo da secoli di spagnolismo e di borbonismo, da cento anni di unità nazionale a conduzione piemontese ed anche, sia detto per onestà, da un decennio di democrazia repubblicana..., il deficit pauroso del comune partenopeo trova in parte giustificazione nel volto rinnovato della città, nel risanamento di interi quartieri, forse temerariamente affrontato, però praticamente realizzato". 
La prima campagna politica all'americana messa in pratica in Italia e gli stupefacenti risultati ottenuti incutono timore ai membri del governo, i quali decidono d'intervenire con fermezza prima che sia troppo tardi, anche alla luce delle nuove condizioni politiche, interne ed internazionali, che sono venute a crearsi. Infatti la dura repressione dell'insurrezione ungherese da parte dei carri armati sovietici ha aperto gli occhi anche a chi non voleva vedere ed ha convinto Nenni a liberarsi dall'imbarazzante alleanza con il Partito comunista. Ci sono ora le condizioni per un dialogo più proficuo fra cattolici e forze di sinistra moderate, che sarà visto con benevolenza anche dal nuovo papa Giovanni XXIII.
Il blitz scatta proditoriamente il 28 aprile 1957, una data fatale per il laurismo, che comincerà da allora il suo tormentoso declino.
Un calcolato ritardo del contributo integrativo da parte del governo non permette il pagamento degli stipendi agli spazzini napoletani, i quali entrano in sciopero e non ci vuole molto per la città a trasformarsi in una gigantesca pattumiera a cielo aperto, anche per il lavoro della teppaglia al soldo della Dc e degli attivisti comunisti che sparpagliano dappertutto cartaccia e residui organici. Dopo pochi giorni è previsto infatti a Napoli un importante congresso internazionale di medicina, con scienziati arrivati da mezzo mondo: quale migliore occasione per le opposizioni riuscire a dimostrare che la situazione dell'amministrazione comunale ha superato abbondantemente il livello di guardia? Nonostante il prefetto (rapporto del 18-4-'57) avesse scongiurato il ministro competente che, "per evitare il precipitare di una situazione già gravissima dell'ordine pubblico, in seguito allo sciopero dei dipendenti comunali", era urgentissimo sbloccare i mutui previsti dalla legge.
Don Achille non si fa sorprendere, torna di corsa a Napoli con un aereo privato, preleva i soldi necessari dalle casse della flotta e paga gli stipendi ai netturbini che in poco tempo ripuliscono la città.
Ma Fanfani, il suo nemico, ha piazzato i suoi uomini al posto giusto per sferrare l'attacco finale: Tambroni, ministro degli Interni, è incaricato di fare la faccia feroce, mentre Gava, in uno dei frequenti incontri che avvenivano tra loro, fingerà di voler mettere a posto le cose.
Nel frattempo anche lo stesso prefetto Diana, dimostratosi sempre filolaurino, verrà sostituito con Marfisa, che ben presto dimostrerà la sua ostilità.
Tambroni avvertiva Segni che l'instabilità finanziaria del comune di Napoli non poteva "non avere ripercussioni sul piano politico" (lettera del 29-7-'56), anche in considerazione che per il 1957 si preannunciava un deficit di oltre 33 miliardi.
Il disavanzo era dovuto alla necessità indifferibile di far circolare denaro nella città, stremata sotto il profilo economico e psicologicamente ci si poteva ritenere autorizzati a comportarsi in quel modo dall'esistenza di una legge, che prevedeva per i comuni la facoltà di contrarre mutui per colmare un eventuale buco nel bilancio, senza l'obbligo di aumentare le entrate.
L'atteggiamento avverso del governo, ritardando capziosamente l'erogazione dei mutui integrativi dei bilanci per il 1955 e 1956, non solo vanificava del tutto i benefici della legge speciale, ma impediva di fatto lo stesso esercizio dell'ordinaria amministrazione.
La battaglia a viso aperto fu preceduta da un breve periodo, in cui si cercò di far prevalere l'idea che fosse la burocrazia ministeriale a richiedere, necessariamente, un esautoramento della giunta Lauro, come risultato di un neutrale iter amministrativo.
Scaramucce furono il commissariamento dell'Eca ( Ente comunale di assistenza) feudo personale di Gaetano Fiorentino, che si vide scippato un prezioso generatore di voti e di consenso, oppure l'inchiesta prefettizia, su denuncia del consigliere comunista Bisogni, riguardante presunte irregolarità nell'uso di auto del comune e sull'utilizzo dei buoni acquisto della benzina. Indagine che evidenziò pesanti responsabilità a carico dell'assessore alla Nettezza urbana Amato.
Erano tutti segni tangibili dell'avvenuto divorzio tra la Democrazia cristiana e Lauro, favorito in parte dall'attività intransigente del governo di transizione, presieduto da Adone Zoli, che seguì alle dimissioni del gabinetto Segni. Tale governo, nato nel mese di maggio, anche se di breve durata, adottò uno stretto controllo della spesa pubblica e la rigida osservanza di "rigorosi criteri dell'economia nell'esame dei provvedimenti legislativi". S'impegnò a fondo nel contenere il flusso dei finanziamenti agli enti locali, che si era oramai trasformato in un fiume in piena.
A Napoli, in questa fase d'instabilità economica, il ritardo nei pagamenti alle imprese appaltatrici del comune provoca vistoso malcontento, che viene segnalato dal prefetto al ministero competente in numerosi rapporti riservati, evidenziati e resi pubblici dallo storico Pierluigi Totaro, che ha esplorato sui documenti gli anni d'oro di Lauro sindaco, dal 1952 al 1958.
"Piccole aziende sull'orlo del fallimento, enti che non trovano più credito neanche per fronteggiare le modeste spese di carattere indispensabile, appaltatori che, ovviamente, fanno incidere il rischio del mancato pagamento sull'ammontare del costo dei loro servizi, stato d'ansia e di agitazione delle masse impiegatizie e dei lavoratori, che vedono la precarietà della loro situazione".
Una denuncia accorata e precisa che trovò orecchio da mercante nelle stanze del potere romano.
Il primo, il 12 agosto, con 40 gradi all'ombra, invia a Napoli tre ispettori a verificare eventuali irregolarità amministrative, tali da giustificare l'arrivo di un commissario, mentre l'altro compare riceve a Roma il Comandante e gli fa capire che "nel caso in cui il sindaco avesse il buon senso di dimettersi insieme a tutta la giunta, potrebbero non essere celebrati processi penali a suo carico"(Zullino).
Una pesante intimidazione che fa capire, se tutto è vero, che non soltanto in tempi a noi più vicini, la magistratura è stata pronta a diventare il braccio armato del potere.
Lauro torna a casa furioso e si prepara alla battaglia, che si pronostica senza esclusione di colpi, fiducioso - come sempre - nel successo. Ma la situazione tende a precipitare nel mese di dicembre, quando Tambroni, rispondendo in Parlamento ad alcune interpellanze, si dilunga in un implacabile atto d'accusa verso l'amministrazione comunale partenopea.  Sono state accertate "gravi, diffuse, sistematiche irregolarità e deficienze" e si preannuncia che il governo chiederà al Presidente della Repubblica di firmare il decreto di scioglimento della giunta. Sono 17 le contestazioni mosse al primo cittadino, con l'assegnazione di un termine per l'eliminazione delle irregolarità e per eventuali controdeduzioni.
Il Comandante viene indotto insieme ai suoi consiglieri a dimettersi, cosa che fa, assieme a sette assessori, il 20 dicembre, perché si ritiene che ciò possa fermare l'azione del governo, non potendosi sciogliere una giunta formata successivamente e presieduta da un altro sindaco. 
Le dimissioni, precedute da una lunga autodifesa che ebbe vasta eco sulla stampa, furono motivate dalla partecipazione alle elezioni politiche e vennero duramente osteggiate dalle opposizioni, che vedevano vanificate, con la fuga del sindaco, le speranze d'imporre all'avversario il colpo del Knock-out .
Quindi, il 6 gennaio, Lauro fa eleggere con i 45 voti della sua maggioranza monarchico-missina al suo posto un uomo di assoluta fiducia: Nicola Sansanelli, ex federale fascista, già assessore al patrimonio nelle giunte precedenti, il quale rimarrà in carica per soli 38 giorni.
L'elezione avviene in un'aula semideserta abbandonata per protesta dall'opposizione. 
Il Comandante attraverso i suoi organi di stampa informa di aver lasciato il seggio di palazzo San Giacomo, unicamente per impegnarsi su di un fronte più vasto per i destini di Napoli e del Mezzogiorno.
Egli infatti si adopera per formare finalmente la "grande Destra", un progetto più volte accarezzato e mai andato in porto, con un ambizioso obiettivo: superare i due milioni di consenso, mandando così al Parlamento 70 rappresentanti.
"Una vigorosa crociata contro il socialcomunismo e la Dc per sottrarre l'Italia all'atroce dilemma tra potere rosso e dittatura clericale".
Purtroppo i potenziali alleati nicchiano. Infatti Covelli guarda oramai con simpatia Fanfani, dopo aver offerto i suoi voti per l'elezione di Gronchi, mentre Michelini prudentemente tace.
La lotta ingaggiata appassiona tutta l'Italia e di essa parlano le penne più famose: dal "pontefice" Indro Montanelli a Giovanni Ansaldo che, dopo un lungo periodo di non belligeranza, ha cominciato dalle pagine del "Mattino" una guerra ad oltranza, avvelenando giorno dopo giorno i suoi articoli di fondo.
Anche sul piano politico locale le accondiscendenze democristiane del passato svaporano con l'elezione di Davide Barba, un fanfaniano, a nuovo  segretario provinciale. Nello stesso tempo il quadro della politica nazionale spinge verso queste difficili decisioni; fanno infatti molta paura: la concorrenza sempre più temibile dei monarchici nel Mezzogiorno, il crescente timore della vagheggiata "grande destra", mentre si manifesta lampante l'inutilità dei voti laurini in Parlamento, divenuti oramai superflui.
I giochi sono fatti: il 13 febbraio 1958 il Presidente della Repubblica firma il decreto di scioglimento della giunta comunale napoletana per quanto retta, non più da Lauro, ma da un nuovo sindaco e nonostante il parere contrario espresso dal Consiglio di Stato, perché prevalse la convinzione truffaldina che, la presenza del Comandante come assessore, ponesse la giunta Sansanelli in linea di netta continuità con la precedente.
Il giorno successivo il prefetto Correra, scortato da ben 7 vicecommissari, prende possesso di palazzo San Giacomo.
Lauro furente minaccia: "Discuteremo con Tambroni quando avremo 70 deputati a Montecitorio".
Nello stesso tempo gli attivisti cercano di aizzare la piazza, provocando disordini e cortei di protesta, ma la polizia schierata in forze scoraggia anche i più facinorosi.
La sostanziale assenza d'incidenti di piazza fu un ulteriore dimostrazione di civiltà e di atavica tollerante pazienza da parte dei napoletani, i quali, pur dispiaciuti per lo scioglimento della giunta, non si abbandonarono a quelle strenue violente difese campanilistiche che hanno contraddistinto la storia italiana degli ultimi 50 anni.
Fu una tangibile conferma che il laurismo non era stato contrapposizione allo Stato, ma capacità di calamitarne la benevolenza, attraverso pacchetti d'interventi economici, da gestire poi al di fuori dei rigidi schemi burocratici, che tendono a paralizzare ogni iniziativa. L'unico metodo per governare una città difficile come Napoli!
Lo stesso Lauro sarebbe stato danneggiato da una esplosione di rabbia popolare, che avrebbe troncato qualsiasi aspirazione di ritornare legalmente al timone della città, con un forte potere contrattuale da spendere a Roma, fonte inesauribile di finanziamenti ed agevolazioni.
Egli era pronto a combattere, e duramente, una battaglia che riteneva già vinta in partenza.
L'unica protesta che si concluse fu quella, come pittorescamente descrive Zullino, capeggiata da "Nannina a chiattona", la quale alla testa di un gruppo di donne sfilò, alternando urla e bestemmie a slogan, per le strade, mentre le sue vaiasse affiggevano ritratti di Lauro ai cofani delle automobili. Il tutto condito da apprezzamenti irripetibili nei riguardi del nuovo commissario ed a lodi sperticate agli attributi virili, il famoso "pescione", del Comandante.
L'isolamento politico di Lauro si coglieva dalla stampa; perfino il missino "Secolo d'Italia" ironizzò, essendo giorni di carnevale, sul "giovedi magro" dell'ex sindaco.
Don Achille si difende vigorosamente nel corso di un'affollatissima conferenza stampa tenuta a Roma il 17 febbraio.
Dopo una notte trascorsa senza dormire per approntare il documento con l'aiuto del fedele scriba Giovanni Gatti, parlerà per tre lunghissime ore con i giornalisti, con una vis polemica straordinaria, colorita da frasi vivaci, alternando vernacolo e lingua, esplicative del fatto che questa volta non si tratta dei soliti discorsi preparati da Cafiero o Pugliese e letti con difficoltà senza trasporto, ma del pensiero genuino del Comandante, che una volta tanto si dimostra grande oratore, sottolineando la gravità del provvedimento deciso dal governo in assoluto dispregio della volontà democraticamente espressa e rintuzzando con pignole precisazioni le infondate, pretestuose contestazioni di Tambroni.
Per inciso Lauro venne accusato di gravissimi illeciti amministrativi, invadendo il campo di interesse della magistratura, ma nessun processo fu mai celebrato a suo carico, per cui i casi sono due: o le irregolarità contestate non erano così gravi come la stampa si sforzava di mettere in evidenza, oppure il comportamento acquiescente dell'autorità giudiziaria  non fu cristallino.
Le sue proteste avranno un'eco di consenso anche nella stampa di sinistra che percepisce il sopruso governativo e lo esplicita senza perifrasi dalle pagine del suo organo di stampa nazionale l' "Unità" (24 dicembre 1958).
"Anche a Napoli, il fanfanismo è prepotenza, è sostituzione della "autorità" alla volontà e al funzionamento degli organismi democratici eletti dal popolo, è visione burocratica dall'alto, di tipo coloniale dei metodi di governo e di amministrazione, è subordinazione agli indirizzi della grande industria monopolistica settentrionale, è corruzione. Dove la Dc non ha ottenuto i voti sufficienti a costituire delle maggioranze, là interviene l'autorità dello Stato".
Insigni giuristi indipendenti, come Arturo Carlo Jemolo, stigmatizzarono la decisione del governo,evidenziando il diverso comportamento verso le autorità municipali secondo il colore della giunta: "La tutela sui comuni è da noi continua, quel che è peggio, intensamente politicizzata, sicchè non opera dove ci sono amministrazioni care a ministri e deputati di maggioranza, ma può invece essere vessatoria".
Anche la stampa straniera s'interessò scandalizzata agli avvenimenti napoletani, tra cui l'autorevole "Tribune de Genève" che spezzò una lancia a favore del Comandante, il cui comportamento moderato aveva evitato che potessero nascere disordini: "Sino ad oggi non si vede di quale irregolarità Lauro si sia reso colpevole; se talune spese sembrano esagerate, egli non ha messo nulla in tasca ed ha usato tali somme a scopi benefici. Non si può dire se, diretta da altri partiti, la città avrebbe potuto avere un bilancio tanto pulito; in ogni caso, soltanto le elezioni potranno dare un quadro preciso dell'orientamento politico dei cittadini".
Purtroppo anche i napoletani, voltabandiera come sempre, praticarono l'antico vizio italico di correre in soccorso del vincitore, mentre Ansaldo, cominciò a martellare sempre più dalle pagine del "Mattino" sui nefasti metodi del laurismo.
I risultati delle elezioni sono disastrosi; il 25 maggio dalle urne, al posto dei "minacciati" due milioni, usciranno soltanto 700.000 voti e la strombazzata falange di 70 deputati sarà costituita da uno sparuto manipolo di soli 14 elementi.
Il colmo è costituito dalla mancata rielezione dello stesso Comandante, pur con la scusante che egli non aveva avuto timore a ingaggiare la lotta nel difficile collegio di Castellammare di Stabia, da sempre inespugnabile feudo dei Gava.
Avvilito e deluso, dichiara che pur continuando nella battaglia "quel che è certo è che io non sento di avere gli stessi impegni che assunsi con i 300.000 napoletani che nel 1956 mi diedero il voto, e ciò perché questi voti sono diventati la metà".
Un ciclo storico irripetibile si era chiuso, perché l'epopea del laurismo, ridotta se non al silenzio a disordinati e dissordanti rumori di fondo, pur continuando imperterrita fino alle elezioni del 1976, con il Comandante in lizza ad oltre 90 anni, non raggiungerà più i fasti del decennio d'oro.

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