C’è voluto l’omicidio di un “foresto” nei carruggi, una
giovane donna di Teglia, per obbligare un pò tutti a smuoversi e a ripensare il
proprio rapporto con la città antica e questo vale sia per chi nel cuore di
Genova ci vive, lavora e ci viene, sia per chi lo amministra e lo deve
vigilare.
Venerdì 5 maggio 2006 Roberto
Onofrio dalle pagine del Secolo XIX, con una lucida analisi si interrogava e ci
interrogava chiedendo se il tempo, per avviare una riflessione e un intervento
serio primariamente in materia di sicurezza, era scaduto.
Io aggiungo se il tempo delle
manfrine è finito e se potremo finalmente avere e condividere un piano organico
per la sicurezza oppure ci toccherà per l’ennesima volta “passare la nottata”
con qualche poliziotto in più e qualche delinquente in meno e svegliarci la
mattina e accorgerci che tutto è tornato come prima.
Tutto dipenderà dall’esito di questa
ennesima battaglia e dai comportamenti più o meno gattopardeschi dei suoi
protagonisti e dal loro grado di coinvolgimento nell’intricata e complessa
trama di interessi a volte contigui con l’illecito, se non con la criminalità,
che nel centro storico vivono e prosperano e sono il vero freno della suo
definitivo rilancio e sviluppo.
A tal riguardo il linguaggio ha un
ruolo importante e i suoi termini chiave acquistano spesso la forza stessa del
messaggio che vogliono proporre. Analizziamo dunque più da vicino parole come Movida
e Ronde
o Vigilantes
che, in epoca di globalizzazione (complice anche una maggior capacità di
reddito di illustri abitanti del quartiere) si sono trasformati in Body Guard e
non occupiamoci invece di parole come razzismo dalla quale fortunatamente
(almeno fino a questo momento) tutti vogliono tenersi lontani.
I due termini predetti sono
attualmente oggetto di un lungo dibattito che le stesse istituzioni farebbero
bene a favorire evitandone la sclerotizzazione in conferenze strategiche o
l’ostracismo della pura bellezza degli anatemi. Nell’ultima partecipatissima
assemblea del popolo dei carruggi nel chiostro di Santa Maria in Castello dove
tutti hanno avuto diritto di parola in un pacifico e sereno confronto: dal
dirigente di rifondazione comunista, all’extracomunitario, da chi le ronde le
aveva organizzate nel ’93, al residente leghista, alla commerciante femminista;
tali termini sono stati più e più volte usati e da ognuno con accezioni e
sfumature diverse e tuttavia in una grande e reciproca tolleranza che fa ben
presagire su un comune sentire del quartiere.
Movida e Ronde sono entrambi termini
da ricostruire e da demitizzare. Il primo perché largamente abusato, dal valore
quasi salvifico e taumaturgico ricordandoci quella pubblicità per intestini
pigri dove “bastava la parola”, il secondo perché pressoché esclusivamente
usato da una parte dimenticando, l’altra che lo ripudia, che un tempo era
accompagnato dall’aggettivo “proletaria”.
Ebbene diciamocelo il centro storico
non è solo Movida e il popolo della notte, da questa suggestione richiamato nel
dedalo dei vicoli, non è portatore solo di gioia e di brio, di cultura e
ricchezza, ma anche più semplicemente di schiamazzo, di urina dispensata nei
portoni, di spaccio, di aggressioni e rapine e nei suoi più tragici epiloghi,
dolorosamente, di morte. Ronde per converso non è solo la risposta becera di un
manipolo di residenti della prima ora e degli epigoni dell’ordine a tutti i
costi anche durante una festa di compleanno e non sono nemmeno il preludio a
massicce occupazioni poliziesche, ronde significa anche una riscoperta voglia
di partecipazione di chi intende la cosa pubblica, in questo caso il bene
primario della sicurezza anche come affar suo e non solo dello stato alla
stessa stregua di quello della salute, piuttosto che dell’istruzione. Tuttavia
l’asperità del termine necessità ancora di una presa di coscienza, in questo
caso più di chi sta a sinistra che a destra, che tra pagare una lezione di
greco, o privatamente il dentista non è molto diverso, in rarissime e
circostanziate eccezioni, dal pagarsi la guardia del corpo per garantire la
propria incolumità. E che per maggior comprensione fare del volontariato nella
Caritas distribuendo alimenti o insegnando l’italiano a giovani magrebini nei
centri sociali non è molto diverso dallo scortare una vecchietta a casa sua
perché nel quartiere in cui vive dopo una certa ora c’è il coprifuoco.
Del resto non è un caso che sempre più si sta facendo strada
tra chi abita e chi lavora in centro storico una volontà comune di unione
perchè, demitizzato il termine movida e ridimensionato come uno dei tanti
aspetti del quartiere e altrettanto demitizzato il termine ronda e ricondotto a
un più ragionevole concetto di ausilio ad una persona in difficoltà, si viva in
modo nuovo la movida inserendo spettacoli e attività culturali in grado di
attrarre ulteriori simpatie e riducendo al minimo quella certa area di
socialità malata che la interpreta solo come sfogo delle sue più basse
pulsioni. Contestualmente il termine ronda sia un po’ più da tutti vissuto come
in queste sere quale modo di riappropriarsi del quartiere e provare a dialogare
non solo tra di noi, ma anche con chi ci viene allontanando con la nostra
presenza lo spacciatore e il delinquente che non riesce più ad agire
indisturbato nella folla anonima della movida.
E intanto per non aspettare che il tempo scada nuovamente le
istituzioni potrebbero cominciare a fare quattro semplici cose che non stanno
facendo:
Con una premessa: il centro storico non è solo Via Garibaldi
e Via San Lorenzo ma è anche e soprattutto i carruggi.
FURIO Truzzi
Presidente assoutenti