ACCADEMIA DI BELLE ARTI DI VENEZIA Dipartimento Tecniche e Restauro |
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Dipartimento Tecniche e Restauro SEMINARI 2003 A cura di Vanni Tiozzo Venezia A.A. 2002-2003 |
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Presentazione del Presidente |
Francesco Galera |
p. 7 |
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Introduzione |
Vanni Tiozzo |
p. 9 |
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Doretta Davanzo Poli |
p. 11 |
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Gabriella Sandi |
p. 21 |
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Saverio Simi de Burgis |
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Marco Tosa |
p. 37 |
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Vanni Tiozzo |
p. 51 |
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L’immagine di copertina è un divertimento realizzato sulla stampa del Carlevarjs che raffigura l’allora ospedale degli Incurabili, ossia il grande complesso che è ora divenuto la sede dell’Accademia di Belle Arti di Venezia, dopo duecentociquantatre anni dalla sua fondazione e due sedi, il Fondaco delle Farine ed il Convento della Carità. ã Stampato per conto dell’Accademia di Belle Arti di Venezia, dalla Graph Photo di Mirano (VE), Venezia, 2003 |
L’Accademia di Belle Arti di Venezia dopo l’inserimento, tardivo ma necessario, nell’Istruzione Superiore Universitaria come Istituto di Alta Formazione Artistica, è diventata il terzo polo, ed il più antico in quanto costituita nel 1750, universitario veneziano quindi, ancor più che nel passato, sente il compito di rinnovarsi e provocare confronti e scambi con le realtà culturali e con i settori produttivi interessati alla ricerca artistica.
In questa fase di rinnovamento e di ampliamento delle proprie offerte culturali, si sono affiancati ai corsi tradizionali atri percorsi didattici innovativi ed il Dipartimento di Tecniche e Restauro dei Beni Artistici Moderni e Contemporanei, promotore delle conferenze i cui testi sono oggi dati alle stampe, è, tra essi, uno dei più attivi sotto la direzione del Prof. Vanni Tiozzo.
Le conferenze, che si sono svolte nell’Aula Magna dell’Accademia, nei mesi di aprile e maggio hanno richiamato un pubblico decisamente interessato e partecipe attratto sia dagli argomenti trattati che dall’alta qualità dei relatori, per lo più docenti della nostra Istituzione.
Molte persone, impossibilitate a seguire le conferenze o alcune di esse, hanno ripetutamente chiesto di averne i testi, ad esse ed al mondo culturale e produttivo veneziano mettiamo a disposizione questo lavoro e la nostra piena disponibilità a rapporti di collaborazione e di approfondimento.
Franco Galera
Presidente Accademia BB AA di Venezia
Questa pubblicazione è testimonianza dell’attività di ricerca del Dipartimento Tecniche e Restauro dell’Accademia di Belle Arti di Venezia.
In questa occasione si danno alle stampe i testi delle conferenze tenute quest’anno in Accademia per iniziativa del Dipartimento; aperte alla cittadinanza, sono state un punto di incontro tra la nostra istituzione e la città.
Le relazioni sono state tenute da membri del Dipartimento e da esterni, proprio nello spirito di incontro.
Relatori esterni:
La prima è stata invitata dal prof. Marco Tosa in qualità di studiosa impareggiabile sulla moda veneziana, la seconda, invitata dal prof. Saverio Simi De Burgis, come testimonianza della prassi di intervento sul materiale lapideo nella città.
Relatori interni del Dipartimento:
Ciascuno dei membri interni ha trattato quanto ritenuto oggetto d’interesse della propria attività di ricerca. Tuttavia è opportuno precisare che numerose altre sono le attività di ricerca degli aderenti al Dipartimento, anche di quanti qui non compaiono, purtroppo però, per spazio, contingenza e fondi, solo queste prendono spazio qui e solo poche altre compaiono in iniziative editoriali di altre istituzioni; per tutte le altre non rimane altro che l’augurio di trovare spazio in una organica iniziativa editoriale del Dipartimento.
Il Direttore del Dipartimento
Vanni Tiozzo
Moda a Venezia. La più complessa delle arti applicate.
Doretta Davanzo Poli
La parola moda, che deriva dal latino modus-modi, che significa tempo, ritmo, melodia, ma anche maniera, viene usata nell’accezione attuale soltanto dal secolo XVII, quando si accelerano i tempi degli avvicendamenti vestimentari. Si ritrova per la prima volta nel libro La carrozza da nolo, pubblicato nel 1645 dall’abate Agostino Lampugnani. Il termine adoperato in precedenza, a Venezia, è foza (foggia), citato nelle leggi suntuarie che, per limitare le spese velleitarie, minacciano di pene severissime gli "inventori di nuove foze", in qualsiasi ambito avvenissero, dall’abbigliamento all’arredo.
Per moda si intende naturalmente il modo di vestire delle classi altolocate, poichè piccola borghesia e popolo indossavano per lo più abiti comprati al fiorentissimo mercato dell’usato o comunque di linee ritardatarie e protratte più a lungo.
Si tratta della più complessa delle arti applicate dal momento che è nel contempo concepibile come architettura, in quanto spazio strutturato e delimitato; scultura in quanto forma volumetricamente plasmata; pittura, in quanto colore e decorazione, naturalmente collegate in un insieme armonico.
L’artefice, il sarto, che vanta a Venezia un capitolare datato febbraio 1219 (more veneto), importante perchè oltre a norme corporativistiche e deontologiche, riporta anche tipologie di confezioni e costi, è definito da Tommaso Garzoni, nel libro Piazza Universale di tutte le professioni , del 1581, "geometra" perchè deve prendere le misure in un solo colpo d’occhio, "pittore", perchè disegna i modelli ( com’è documentato dai numerosi libri dei sarti rimasti), e "uomo dabbene" perchè invece del sangue degli altri, "succhia" il suo, quando si punge con l’ago.
Noi affronteremo, in un veloce excursus, i cambiamenti delle mode nel corso dei secoli a Venezia, dalle origini della Repubblica,oltre la sua caduta,fino al nascere del costume tradizionale folclorico,in particolare di gondolieri e popolane. Lo scialle che caratterizza l’abbigliamento di queste ultime fino agli anni cinquanta del Novecento, riscontrabile nell’abbigliamento delle Paleovenete ,persiste poi nell’uso dei fazzuoli cinque- seicenteschi, degli zendali e nizioletti settecenteschi,costituendo una sorta di filo conduttore dell’abbigliamento veneto.
Ma dall’analisi delle fogge vestimentarie marciane emergono molti altri elementi di originalità, rispetto alle altre mode italiane ed europee: per esempio nelle tinture preferite, dall’azzurro degli abitanti lagunari del Medioevo, al rosso cremisi di aristocrazia e doge dal Trecento in poi. La più importante invenzione nell’abbigliamento risalente al secolo XIV, è il bottone, che permetterà il passaggio dalle linee ampie e fluenti a quelle aderenti e sagomate.
Le gonnelle maschili si accorciano su strette calzebraghe solate, le camore femminili allargano gli scolli e, attillate fino ai fianchi, si aprono poi in fluenti pieghe sciolte. Le sopravvesti, foderate di pellicce pregiate (vaio, una specie di scoiattolo, ed ermellino) hanno maniche tagliate al gomito e lasciate pendere in lunghe strisce.
Grazie all’apporto delle maestranze tessili lucchesi, espatriate per motivi politici, l’arte auroserica veneziana ( già comunque antica di secoli) aumenta di qualità non solo nelle tipologie tecniche, ma anche in quelle decorative.
Se all’inizio del Quattrocento la moda risente ancora del verticalismo gotico internazionale, evidente soprattutto nelle acconciature alte, complicate, fantasiosamente personalizzate, nell’ultimo quarto del secolo si ricomincia a notare spunti di originalità rispetto all’Europa. Per esempio le donne rinnciano alla depilazione della fronte per raccogliere i capelli "a fungo", coprendo anche le orecchie con ciuffi scalati e increspati. Sulla veste o camora (con maniche attillate, staccate al girospalla e tagliate al gomito, da dove fuoriesce in candidi sbuffi la camicia), aderente nel corto corpetto, scollatura stondata, indossano un supertunicale con ampio strascico o coda . Iniziano a comparire agli orli di camicie, rocchetti, traverse, le prime dentellature di merletto ad ago. Anche per gli uomini si evidenzia una certa singolarità e il codificarsi di alcune fogge relative a determinate categorie sociali.
I nobili, i dignitari, gli speziali, gli avvocati portano una toga, che può essere cremisi, pavonazza o nera, foderata o meno di pelliccia secondo la stagione, con maniche larghe alla dogalina oppure ristrette al polso con effetto a gozzo sul gomito (a comeo), sulla spalla una striscia di velluto prezioso, che andrà allargandosi nel corso dei secoli. Quanto agli ebrei, se i medici hanno la prerogativa di indossare la veste e l’anello, tipici della professione, tutti gli altri, dal banchiere allo strazzarolo (due tra i pochi mestieri concessi) dovranno portare al collo una cordella con cerchio giallo pendente, oppure la berretta gialla. Il giallo a Venezia è considerato un colore negativo, legato alle epidemie, alla prostituzione, al lenocinio.
Stando alla documentazione iconografica e archivistica, le donne (aristocratiche e cortigiane) calzano scarpe dalla zeppa altissima (calcagnini), nonostante i divieti suntuarii e igienico-sanitari.
Il ridimensionamento della politica espansionistica veneziana, anche per le mutate realtà storiche seguite a grandi scoperte geografiche, porta la Serenissima a trovare risorse alternative nelle manifatture locali, riuscendo a mantenere l’immagine di grande potenza, più virtualmente che praticamente, anche grazie alla rappresentazione scenografico-vestimentaria indipendente dalle mode straniere (in particolare dalla dominante moda spagnola).
Nella prima metà del secolo XVI l’abbigliamento femminile in genere è caratterizzato da generose scollature e da un busto che va progressivamente spostando il punto vita da sotto il seno all’ombelico (e oltre, dopo la metà del secolo). Le maniche, scivolate dalle spalle, voluminose nel primo quarto del secolo, andranno ridimensionandosi , dipartendosi da rigonfi spallini, che invece si assottiglieranno.
I capelli, che si usa schiarire artificialmente a forza di sole, con l’aiuto di liscivie, sono contenuti in "gabbie di rame" o coperti "di scuffie fatte a rete d’oro", da cui scende un "velo nero di seta trasparente" (Vecellio). Soltanto le spose li lasciano sciolti, nel giorno delle nozze, mescolandoli a lunghi fili d’oro. Colori e gioielli dipendono dallo stato civile di nubili, sposate o vedove ( così come per esempio il nero e le perle saranno vietate alle cortigiane).
Gli uomini, sotto le toghe, sotto gli eventuali ferraioli, mantelli, cappe, indossano "certe casacchette o saioni" di busto corto e con falde al ginocchio, "il pettorale et il giubbone di diversi colori", la camicia "increspata, ma bassa di collare et con le lattughe picciole".(Vecellio) I giovani zazzeroni d’inizio Cinquecento preferiscono lunghe calzebraghe colorate e gavardine, mentre quelli di fine secolo, calzoni comodi di linea affusolata, stoffe trinciate , berretto a tozzo su capelli corti.
Tonalità, tessuti e fogge mutano per mercanti, artigiani, bravi, facchini, galeotti ecc.
Stravagante la moda femminile dell’ultimo ventennio del Cinquecento, è caratterizzata da busti appuntiti e irrigiditi da lamine metalliche interne, scollo squadrato e profondo, apertura anteriore nel mezzo su camicie impreziosite e "strisciate" con ricami e trine, spalle e seno coperti dal bavaro terminante in un alto collare, sostenuto da vergole, disposte a ventaglio dietro al capo. Le maniche di linea stretta, sono collegate al giro-spalla mediante cordelle, nascoste da spallini dentellati di pizzo. Le gonne, arricciate, posano morbidamente su sottogonne, senza bisogno di faldiglie o verdugali. I capelli, raccolti, sono rialzati sulla fronte in due boccoli arricciolati, a forma di corna o "mezza-luna" e si continua a calzare calcagnini con zeppa rivestita di cuoio, di velluto, che raggiungonoi il mezzo metro d’altezza. Qualcuno ha cercato di giustificare tali dimensioni con ragioni pratiche legate all’acqua alta o alla fangosità delle strade, ma sono invece imputabili a ragioni simboliche di status sociale, rendendo immediatamente comprensibile a tutti una condizione privilegiata, sottolineata talora dalla necessità di accompagnarsi a personale di servizio.
All’inizio del secolo XVII si notano tardivi riferimenti della moda spagnola e inglese nell’abbigliamento degli uomini, rispettivamente nella gorgiera, collare a ruota a più strati di pizzo, e nelle corte braghe a campana su attillati calzoni al ginocchio.
Nel secondo quarto del secolo quando è la ricca borghesia olandese a svolgere un ruolo-guida in Europa, subentrando tra l’altro nei mercati orientali con i suoi panni di lana, preferiti alle più pesanti pannine veneziane, anche nella Dominante si accoglierà la linea ovaliforme e tondeggiante di ascendenza fiamminga. Eliminando quasi completamente il punto di distinzione tra parte superiore ed inferiore del busto, le donne veneziane avvolgeranno la persona in un involucro vaporoso e rigonfio, che le renderà simili a mongolfiere.
Il carattere di maggiore comodità che contraddistingue l’abbigliamento alla metà del secolo, è riscontrabile anche nel modo di vestire maschile, nelle corte casacchine (ghelari) aperte sui fianchi, nelle braghe comode, nei larghi cappelli, negli onnipresenti militareschi stivali.
Nella seconda metà del secolo sarà di nuovo la Francia, Luigi XIV e la sua corte, a influenzare la moda europea.
Arcangela Tarabotti, monaca forzata e scrittrice veneziana femminista ante litteram, satireggerà su alcuni dettagli di moda maschile come le bretelle, paragonate alle brazaruole o dande (cioè le cinghie con cui sostenere i primi passi dei bambini); i collari a facciole equiparati ai bavaruoli da lattanti; i falsi polpacci di bambace infilati nelle calze d’Inghilterra; le parrucche lunghe e ricciolute, ricavate da cataste di teschi di morto.
A Venezia, come altrove, con l’identificazione dell’ accessorio di pizzo come il più importante status symbol, la produzione merlettiera tocca l’apice storico.
Per fronteggiare la forte richiesta è necessario organizzarne la manifattura su vasta scala, non essendo più sufficienti i laboratori casalinghi nè quelli conventuali.
Si avvieranno a tale fabbricazione le popolazioni femminili di intere isole lagunari, ritornando così ben presto la Serenissima ad imperare sui mercati europei con la straordinaria tipologia del punto Venezia tagliato a fogliame ad alto rilievo, di materica corposità. Non ne manterrà a lungo l’esclusiva perchè Colbert, ministro del re Sole, ne importerà in Francia la lavorazione, convincendo alla fuga un certo numero di maestranze veneziane, invano richiamate poi in patria, anche con minacce pesanti, dal governo serenissimo. Comunque neppure questa vicenda servirà ad organizzare in consorteria tale arte femminile, che continuerà ad essere controllata da quella tutta
maschile dei Marzeri.
I gentiluomi alla moda di tale periodo , vistosamente imparruccati, vestono braghe larghe quasi totalmente nascoste dalla lunga casacca prima, da un gonnellino detto girello o all’eroica nell’ultimo quarto del secolo, che resterà nell’abbigliamento popolare per tutta la prima metà del Settecento.
Decisamente influenzate da Versailles anche le fogge femminili della seconda metà del Seicento, che risultano costituite da una veste o mantò, indossata sopra sottana o cottolo decorato da ricami e passamanerie, rialzata sui fianchi e drappeggiata dietro in uno strascico a cascata. Tra il 1670 e il 1780 lo scollo ovaliforme viene sottolineato da alta fascia di merletto e dalle corte maniche fuoriescono, strette da nastri e impreziosite da balze di merletto, quelle sottostanti della camicia. Sul davanti del busto si inserisce una pettorina rigida, detta ponta postiza, impreziosita da ricami.
Sull’acconciatura raccolta in boccoli e arricchita da posticci,si posano nastri, veli e poi cuffie con alte creste di pizzo, irrigidite come canne d’organo, da sottili intelaiature metalliche.
Le donne di facili costumi si contraddistinguono, secondo la testimonianza di Misson, dalle gentildonne per lo più vestite di scuro, per gli "abiti di colori sgargianti, gialli e rossi come tulipani". Tali fiori, esportati in tutta Europa dall’Olanda, cui per prima era riuscita la coltivazione, susciteranno quella che sarà definita la "tulipanomania".
Nel Settecento, secolo che demanda alla ragione la risoluzione di tutti i problemi, Venezia recupera un poco di originalità. L’aristocrazia si rifiuta di indossare "la veste patrizia", sia pure nelle occasioni pubbliche, nonostante le imposizioni dell’apposita Magistratura alle Pompe. Il gentiluomo "tipo", così come viene tramandato nelle incisioni dello Zucchi, ha volto rasato, capelli incipriati e pettinati con codino, oppure coperti da parrucchino acconciato similarmente, girello sopra le braghe al ginocchio, camicia ancora molto abbondante, cravatta e corto farsetto. Sono documentate contemporaneamente lunghe camisiole ed altrettanto lunghe velade con larghi paramani, che caratterizzeranno tutto il secolo, le prime accorciandosi e diventando gilè (dal turco jaleck) le seconde stringendosi e semplificandosi. Queste ultime, a fine Settecento, accorciati all’addome i due quarti anteriori, diventeranno frac.
In casa si indossa na vestaglia lunga, di origine orientale, detta zamberlucco (dal turco jagmurluq) oppure più corta, di provenienza albanese, detta codegugno, foderata di pelliccia. I tupé sono stretti da un nastro nero (solitario) in un codino posteriore che può essere infilato in un sacchetto o catogan. Il tricorno resta il copricapo tipico del secolo, sostituito alla fine dal cappello alla Jocquey.
Per quanto riguarda le donne, se all’inizio indossano ancora mantò e cottoli, presto non si parlerà che di andriè. Di origine francese, tale sopravveste resa pomposa dal faldone a pieghe che dalle spalle si allarga verso il basso, che si andrà via via drappeggiando e accorciando, è documentata nei dipinti dei Longhi e nei testi di Goldoni.
Tra il 1740 e il 1750 i cerchi o panieri, gabbie di vimini rivestite di cotone, sistemate sotto le gonne per allargare i fianchi, raggiungono le dimensioni maggiori (così esagerate da provocare una produzione di sedie e poltroncine senza braccioli) e l’orlo in basso prenderà la curvatura della gondola. In seguito si preferiranno semplici cuscinetti e i cottoli si accorceranno alla caviglia, la cui sottigliezza sarà sottolineata da esili tralci ricamati sulle calze. Sopra il busto, che si porta separato dalla gonna, si può indossare una specie di velada a lunghe falde, chiamata cotus, e poi, mano a mano che si ridurrà, caraco e petanler (quando non arriverà a coprire il sedere).
La piavola de Franza, il manichino ligneo esposto in piazza san arco nel giorno dell’Ascensione, che dovrebbe pubblicizzare novità vestimentarie parigine, in realtà, molto spesso, a detta di Goldoni stesso, sfoggia le creazioni dei sarti locali, che contrabbandano per straniere le loro idee, definendo con denominazioni esotiche i loro modelli.
Le gale di merletto, ora più leggero e inconsistente, con prevalenza di rete di fondo e decori rimpiccioliti, sono sistemate su pettorine, ai polsi, allo scollo.
Sono di moda anche i merletti neri, comparsi fin dal Seicento, indispensabili per la confezione della mantellina trasparente della bauta, travestimento unisex veneziano per eccellenza. Il termine sembra derivare dall’onomatopeico bau-bau, usato per definire qualcosa di spaventoso con cui minacciare i bambini capricciosi, oppure da bava-bavuta, parola dialettale con cui si designava il baco da seta, le cui fattezze sono riprese nella maschera facciale bianca, detta volto o larva, per l’appunto.
Il completo carnevalesco è composto da tabarro, di panno nero o di raso colorato, più corto per le donne, reso più eccentrico da ricami e galloni; pelegrina (mantellina) di pizzo nero; cappuccio o soggolo di raso nero da cui fuoriesce il viso in un ristretto ovale, coperto poi dalla larva; infine dal tricorno.
Per popolane o piccolo-borghesi è più pratico sollevare al di sopra del capo il nizioleto (mezza gonna posteriore), oppure coprirsi con lo zendale (lunga stola in origine di cendale o taffetà di seta), e nascondere la faccia con la moreta, piccola mascherina ovaliforme, trattenuta mediante un bottone chiuso tra i denti.
Quanto alla biancheria intima, così numerosa per la classe agiata da poter sostenere un cambio frequente nonostante le difficoltà dei bucati, che venivano fatti poche volte all’anno in terraferma (per la scarsità d’acqua dolce, esclusivamente piovana, in città), gli inventari dotali o post-mortem, documentano la presenza di mutande, dette braghesse, di tela di lino, ma anche di lana nei periodi invernali.
La calzatura preferita è una pianella senza tallone, ma con breve tacco, con tomaia di tessuto coordinato all’abito, rivestita di sottile pelle sbiancata, detta mula.
Dopo secoli di incerto incedere su trampoli, le veneziane provano ora la gioia di camminare svelte per calli e ponti, senza l’aiuto di inservienti, grazie alla praticità di scarpine "purtroppo comode", lamenterà qualcuno, alludendo al conseguente mutamento d abitudini, improntate a maggiore libertà.
Negli anni 1786-1788 si pubblica in città una delle prime riviste femminili stampate in Europa: si tratta della Donna galante ed erudita , che pur presentando figurini di provenienza francese e inglese, interpretati diversamente dal punto di vista cromatico, offre anche qualche articoletto di interesse locale. La novità maggiore che vi emerge è la tendenza delle donne ad istruirsi e ad emanciparsi, adottando talora atteggiamenti, indumenti, accessori maschili.
Eccessi e stravaganze post-rivoluzionarie non arrivano a Venezia, che comunque si adegua al semplificarsi dell’abbigliamento che invade l’Europa, partendo dall’Inghilterra, e al monocromatismo, con prevalenza del bianco. Nelle incisioni che ci tramandano l’innalzamento dell’albero della Libertà in piazza san Marco, nel giugno 1797, si intravedono oltre a numerose divise militari, cittadine con anglo-francesi abiti en chemise e cittadini in frac e feluca (cappello a due punte).
Le novità della moda saranno notevoli nel secondo quarto dell’Ottocento, quando allo stile "impero" subentrerà quello "romantico". Non si vedranno tuttavia interpretazioni originali rispetto alla moda europea: i figurini del supplemento La moda, allegato al giornale veneziano Il gondoliere, pubblicato negli Anni Trenta, non si diversificano da quelli pubblicati su altre riviste femminili, ormai diffusissime.
Nel Corriere delle dame, di grande divulgazione in tutto il Lombardo-Veneto, la direttrice Carolina Lattanzi tenterà di pubblicizzare una moda italiana (di cui ogni tanto si dedica un figurino), caratterizzata dall’uso del velluto, tessuto rinascimentale eminentemente italico, oppure dall’accostamento di certi colori (come il bianco, il rosso e il verde).
L’innovazione più importante del secolo, per quanto riguarda gli uomini, è individuabile nell’allungarsi definitivo dei calzoni e nel codificarsi dell’insieme pantaloni-panciotto, giacca, più o meno lunga, più o meno larga, ma sempre identificabile come tale.
Le donne invece muteranno totamente linea all’incirca ogni quindicennio cosicchè alle statue ellenistico-romane dell’Impero subentreranno le bamboline-clessidra del Romanticismo; alle crinoline-cupola del Secondo Impero succederanno le sporgenze solo posteriori da centauro degli anni 1870-80, ottenute con tournurs e sellini; la sinuosa linea a "S" sarà sostituita dall’elegante comodità della moda riformata e Liberty.
Grande successo avranno in tale epoca, definita "bella" per antonomasia, le conterie e il giaietto vitreo di Murano, adoperati a profusione nella fabbricazione di passamanerie, frange, bottoni, borsette, accessori vari e tornerà in auge i merletti di Venezia, Burano, Pellestrina e Chioggia, richiesti dai VIP europei sia per l’abbigliamento che per l’arredo. Di costosissimo pizzo si fanno clletti, pettorine, guanti, ventagli, abiti interi, veli da sposa, ombrellini, ecc. oltre naturalmente a tovaglie, tende, copriletti di una sontuosità oggi impensabile.
Ma alla Venezia d’inizio Novecento tocca un’altra chance: vive ormai da molti anni in città un artista poliedrico, genialmente multiforme, che si occupa, tra l’altro (aiutato in questo dalla moglie Henriette), di tessuti, costumi, moda.
E’ Mariano Fortuny y Madrazo che apre un laboratorio di stampa su velluti serici prima, anche su saie di cotone poi, con tecnica assolutamente originale e brevettata, gelosamente custodita tanto da rimaner ancor oggi parzialmente misteriosa, e che nel 1907 inventa il delphos, tunichetta d’ispirazione ellenistica, confezionata in finissimo raso serico cinese, localmente colorato con tinture naturali e reso aderente alla figura con un fitto procedimento di plissettatura. Seguiranno altri modelli, ispirati al Rinascimento o all’Oriente, definiti da Proust "fedelmente antichi, ma potentemente originali, che saranno indossati da "divine" attrici e danzatrici o da stravaganti aristocratiche dell’epoca.
Un discorso a parte merita il costume popolare femminile, anche per l’importanza che verrà ad avere nell’immagine turistica d’inizio secolo XX.
Da tempi immemorabili, come s’è visto, la donna veneta sente il bisogno fisico-psicologico di coprire testa e spalle con un ampio drappo, sia esso il fazzuolo serico delle aristocratiche o il più semplice nizioleto delle popolane, ma la presa di coscienza di tale attitudine avverrà soltanto agli inizi dell’Ottocento, con l’emergere del proletariato a seguito della Rivoluzione francese, ma soprattutto per la rivalutazione che, di tutto quanto concerne il popolo, farà il Romanticismo.
La codificazione folclorica emersa grazie all’Inchiesta napoleonica del 1811, coincidente con l’affermarsi in tutta Europa degli scialli cachemire (inizialmente importati dall’India, poi fabbricati in Francia e Inghilterra), una certa "genetica" predisposizione per il nero, porterà all’imporsi, a Venezia soprattutto,dello scialle frangiato. Divenuto emblema di emancipazione femminile ("più se slonga la franza, più se scurta la virtù"), perchè fieramente portato da tabacchine e impiraresse (o impiraperle) locali, le prime donne lavoratrici del secolo, diventerà simbolo della Serenissima assieme al leone marciano e alla gondola lagunare.
L’ultimo tentativo di far tornare Venezia una capitale della moda mondiale sarà perpetrato dall’industriale Franco Marinotti, fondatore del Centro Internazionale delle Arti e del Costume di Palazzo Grassi all’inizio degli Anni Cinquanta. Con le sfilatesintesi si presentava quanto di meglio era stato prodotto dall’Alta Moda internazionale, rigorosamente confezionato in fibre artificiali, di cui era produttrice maggiore la Snia-Viscosa, sponsor delle iniziative.
Spetta a Giuliana di Camerino, infine, il merito di aver nuovamente fatto parlare di Venezia come ambasciatrice di abiti ed accessori di moda originali, preziosi nei tessuti adoperati, orientaleggianti negli accostamenti cromatici, stravaganti nelle invenzioni trompe-l’oeil.
Purtroppo oggi, nel disinteresse locale generale per tutto ciò che riguarda il tessile e la moda, di oltre un millennio di storia di abbigliamento veneziano, rimangono sulle bancarelle turistiche, soltanto bambolette-souvenirs raffiguranti il tipico gondoliere con paglietta e casacca alla marinara oppure la popolana, con scialle nero dalla lunga frangia.
Per una bibliografia approfondita si consiglia di vedere D.Davanzo Poli, Abiti antichi e moderni dei Veneziani, Vicenza, N.Pozza, 2002, di cui il presente saggio è, in fondo, un po’ il compendio.
1.Venezia, Basilica di san Marco, Battistero :Salomè, mosaico della prima metà del secolo XIV. Il supertunicale di velluto rosso cremisi con decoro a zecchini dorati, foderato di vaio, con maniche pendenti, è indossato su camora blu di cui si vedono solo le maniche. |
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2. Venezia, Gallerie dell’Accademia: G.Mansueti, Miracolosa guarigione , fine del secolo XV. Si vedono pettinature a fungo, maniche aperte da fenestrelle, calzebraghe divisate e gavardina. |
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3. Dresda, Staatliche Kunstsammlungen :F.di Montemezzano, La famiglia Regazzoni riceve l’imperatrice d’Austria a Sacile nel 1581. L’abbigliamento veneziano, soprattutto femminile contrasta per i colori e le scollature con quello scuro e controriformista delle asburgiche. |
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4.Padova, Palazzo del Bo: Scultore veneto, Elena Lucrezia Corner Episcopia, veneziana, prima donna laureata all’università degli studi , nel 1678 |
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5. Venezia, Piero Scarpa Antichità: Maestro del Ridotto, Il Ridotto, 1750 circa Si vedono baute maschili e femminili, morette, panieri molto ampi, la forma a gondola della curvatura delle vesti, le caviglie in vista. |
La Pietra colorata a Venezia, un caso
Gabriella Sandi
Nel medioevo romanico e protogotico, torna in luce la coloritura della pietra che viene mantenuta dal Duecento a tutto il Quattrocento, in cui prevale la coloritura generalmente di particolari come vestiti, aureole, fondali di bassorilievi, alternati a parti in cui la pietra è lasciata in vista, soprattutto il marmo bianco, recuperato per imitare la scultura classica. Nei primi due decenni del Trecento erano attivi a Venezia e nel Veneto scultori di estrazione diversa, alcuni provenienti dalla Toscana, dove si erano formati sulle opere di Nicola Pisano, altri che pare si fossero formati a Venezia. In alcune opere del Due-Trecento, notiamo forme del corpo esuberanti che tendono le vesti dalle pieghe sottili, quasi incavate a modellare il corpo, simili a linee di un disegno, in altri casi, in alcune opere dell’ultimo quarto del Duecento, lo studio dei modelli andava di pari passo con la natura e le pieghe morbide, non hanno ancora quel taglio netto e spesso profondo che nell’insieme conferisce un effetto ornamentale alla loro configurazione. Difficile affermare pertanto, con esattezza, se un’opera è della fine del Duecento o degli inizi del Trecento.
Una delle funzioni fondamentali della policromia era l’integrazione visiva dei diversi materiali. Pare porsi l’alternativa tra la possibilità di valorizzare il materiale usato attraverso procedimenti di levigatura e di lustratura, e la tendenza ad occultarlo sotto la policromia anche in funzione simbolica, sia facendo corrispondere a determinate materie un preciso significato religioso o magico, sia, più semplicemente, perché un materiale nobile come l’oro o le pietre dure, richiamava implicitamente l’idea della durata, della perfezione e della potenza. Della cromia sui lapidei, non viene quasi mai fatta parola nei pochi contratti rimasi con gli scultori e sembra che ciò non fosse di loro competenza. Per le opere policrome, dopo la consegna della parte scultorea veniva stipulato un contratto a parte con i pittori.
L’uso della policromia non seguiva della norme fisse, ci sono delle figure in cui essa era limitata all’orlo delle vesti, altre in cui il rilievo ne era interamente ricoperto. Anche i volti erano spesso colorati. A differenza di quanto normalmente si può osservare per le altre opere in marmo o pietra, policrome o dorate, in cui restano solo minime tracce di policromia, nel caso attuale la policromia è presente su gran parte della superficie.
L’opera restaurata, è situata sul prospetto esterno della Cappella del Santissimo Sacramento della chiesa di San Polo. La chiesa di san Polo ha un’estensione piuttosto modesta ma è situato nel cuore della città e comprende la zona che si estende dal ponte di Rialto, lungo il canal Grande, fino alla parrocchia di San Pantaleone; è intensamente urbanizzato ma possiede un numero relativamente esiguo di chiese. Le numerose trasformazioni avvenute nel tempo, hanno modificato l’insula di San Polo che ha mantenuto solo in parte, ma in modo tutt’ora leggibile, i suoi elementi costitutivi iniziali.
Campo San Polo è il più ampio della città e fu selciato e arricchito con un pozzo nel 1493. La sua ampiezza e la sua ubicazione, al centro di un popoloso quartiere, indussero i veneziani ad usare questo spazio per feste e cerimonie di carattere profano e religioso. Le cronache sono ricche di descrizioni pittoresche di tali avvenimenti che si svolsero in ogni tempo, tra i quali si ricordano le celebri cacce al toro, le rappresentazioni teatrali, le feste mascherate di carnevale, i balli popolari e i banchetti all’aperto in occasione di ricorrenze particolari o di matrimoni tra membri di famiglie nobili. Celebri furono anche le prediche che famosi frati predicatori tennero in varie epoche e le gare di tiro al bersaglio con arco e la balestra. Fin dai tempi più antichi il campo San Polo ospitava un ricco mercato che inizialmente si teneva più volte la settimana e che fu limitato poi al solo mercoledì.
La chiesa di San Polo ha un invaso molto antico; i dogi Pietro Tradonico e Giovanni, suo figlio, nell’837 presso l’isola di Rialto, in onore di san Paolo Apostolo fondarono la chiesa parrocchiale da cui prese il nome quella parte della città che ora si chiama Sestiere di S. Polo.
La chiesa di San Polo, come gran parte degli edifici religiosi veneziani, subì continue modifiche durante i secoli: fu riedificata nel 1586, non si procedette a totale demolizione, ma si attuò l’inserimento di nuovi elementi architettonici e decorativi sulla struttura originaria preesistente.
Nel 1702 fu modificata la cappella del SS. Sacramento ma il più devastante intervento risale alla fine del 1700 inizi 1800, ad opera dell’architetto David Rossi. Egli intervenne anche sulle absidi estendendo la loro area verso il campo, occupando pertanto una porzione di spazio pubblico. L’opera restaurata, essendo di riporto, è stata, a mio avviso, probabilmente collocata sul prospetto del Santissimo nel periodo del restauro delle absidi.
Il manufatto è definibile come scultura erratica . La cultura religiosa del passato non si limitava ad esprimersi soltanto all’interno chiesa, ma abbracciava la vita nella sua totalità, quindi anche nello spazio in cui la vita si svolgeva. A ricordare questo diverso modo di intendere e sentire la religione rimangono oggi molte piccole architetture, erroneamente considerate minori, che in funzione diversa, esistono in varie parti d’Italia. Si tratta delle edicole devozionali note con il nome di capiteli. Il termine capitelo, di origine dialettale, non ha dei precisi limiti di significato. Nella definizione si includono spesso piccole costruzioni in cui sono conservate immagini sacre, ma anche pitture murali di soggetto religioso, nicchie, altarini. I capiteli testimoniano che nella religiosità popolare del passato la dimensione domestica del culto rivestiva un ruolo estremamente importante. Ne conseguiva la necessità della presenza di uno spazio sacro all’interno dell’abitazione o perlomeno nelle sue vicinanze.
L’origine dei capiteli è medievale, ma il periodo di maggior sviluppo si individua tra i secoli XV e XVI, epoche di grandi epidemie che motivano numerosi ex voto. Nel 1128, sotto il dogato di Domenico Michiel, accadevano con grande frequenza fatti di sangue, fu preso pertanto, dalla Repubblica, il provvedimento di dotare di una rudimentale illuminazione le vie della città. Fu disposto che ai piedi dei ponti, nei sottoportici, nelle svolte delle calli più strette e scure e alle rive di approdo più frequentate, venissero accese delle lampade ad olio chiamate cesendeli (lumicini dal latino cicindela: lucciola). I veneziani cominciarono a collocare delle immagini sacre davanti o sopra i cesendeli, nella speranza che queste icone potessero servire a richiamare il rispetto dei passanti su di esse e a far desistere i malintenzionati dal compiere cattive azioni nelle vicinanze.
L’edicola devozionale restaurata, è posta sul prospetto esterno della cappella del SS. Sacramento della chiesa; si eleva da terra di 2,30 m, ha una lunghezza di 1,90 m ed un’altezza di 3,50 m. E’ composta da rilievi contigui e sovrapposti e la diversità del materiale fa avanzare l’ipotesi che si tratti di un’opera composta da parti di diversa provenienza. Le sculture centrali nicchiate, in pietra d’Istria, a seguito di raffronti con sculture del ‘300 e del ‘400 di analogo soggetto iconografico, con buona probabilità risalgono alla fine del 1200 o meglio all’inizio del 1300; sono riquadrate da una cornice rinascimentale in pietra d’Istria e il rilievo si sviluppa a tutto tondo. La Madonna spicca dal fondo quasi libera da ogni riduzione di piani, come un’opera di statuaria e le figure sono a rilievo pieno nel volto. Nulla sappiamo della loro destinazione originale. Entrambe le figure dei santi indossano un mantello e lasciano intravedere il braccio sotto il mantello, mentre le mani hanno una funzione importante. Il percorso ondoso dell’orlo del mantello, insieme alle pieghe che si incavano sopra il braccio e le pieghe delle vesti, creano un armonioso gioco di linee che salgono e discendono senza bruschi contrasti. Al di sopra dell’avambraccio e del petto, il mantello è quasi liscio, solo una piega un po’ rialzata e tonda passa dalla spalla sul petto, seguendo la linea della parte superiore del braccio. E’ chiara l’intenzione di non distrarre lo sguardo dalla testa con sovrabbondanza di pieghe. Per l’artista ogni angolo del volto era degno di essere raffigurato e la grande maestria dell’artista appare subito nel trattamento differenziato di superfici diverse. La linea sottile del naso, gli occhi incavati e le guance scavate danno a questo volto un’espressione ascetica. Il panneggio delle figure cade con libertà e ampiezza; troviamo curve e forme piene, non ci sono asimmetrie. La Madonna siede su un trono riccamente ornato. A destra è raffigurato, probabilmente, Sant’Alvise vescovo; porta la mitra sul capo, il libro delle Sacre Scritture nella mano sinistra e il bastone pastorale dall’estremità ricurva, sulla destra; il viso è giovane, morì a ventitre anni. A sinistra San Girolamo; ha la barba lunga e tiene nella mano destra il libro delle Sacre Scritture e nella sinistra un modello della città. Il suo volto esprime gravità e concentrazione ma anche una passione intensa. Entrambi i santi sono caratterizzati dai simboli dell’iconografia cristiana che li contraddistingue. Al centro la Madonna con il Bambino in braccio; i loro volti hanno un’espressione dolce e sorridente; predominano tratti idealizzati, resi tali dalla bocca semiaperta e gli occhi socchiusi; l’artista realizza una superficie variata e modellata al naturale, che colpisce fortemente che si avvicina. L’artista ha fatto precedere ad ogni considerazione formale, il desiderio di rappresentare i tratti individuali, ha indagato con circospezione il volto ascetico e fine, rendendone poi con squisita misura ogni singolo momento. Questa concordanza di motivi ci rivela che l’autore del gruppo scultoreo ha dato un’interpretazione assai personale delle figure, tanto importante nella storia della scultura veneziana. Ai piedi, inginocchiati troviamo due piccoli devoti genuflessi, uno dei quali pare reggere una borsa di denari.
Sulla larga cornice inferiore del XV secolo, in pietra d’Istria, sono scolpiti a bassorilievo due angeli affrontati e inginocchiati, reggenti ghirlanda di frutta con al centro il Calice Eucaristico entro scudetto . L’anonimo scultore rinuncia a raffinate pieghettature delle vesti limitandosi a pochi motivi del drappeggio, mostrando anche interesse per le proporzioni organiche del corpo. I lineamenti, soprattutto il contorno della testa e gli occhi sbarrati a ovale acuto, ricordano anche opere tardo romane e non è da escludere che il nostro abbia approfittato dell’occasione per studiare anche pezzi antichi. La lapide sottostante in pietra d’Istria, del 1611, è contro la bestemmia, i giochi e i mercati ; nella parte più in basso a sinistra della lapide si possono leggere, purtroppo a malapena a causa dell’usura provocata dal tempo, il nome degli Esecutori di quel periodo: Foscarini, Trivisan, Moresini, Barbaro.
Più recente è la parte del registro superiore, con ampio padiglione secentesco molto aggettante, ricco di panneggi barocchi; racchiude al centro una lastra centinata in marmo con la rappresentazione del calice Eucaristico, sormontato da busto di Cristo Passo ad altorilievo, circondato da una mandorla di luce radiata. Sul bordo della lastra si trova la scritta: Deo Reidificatum 1702
Dalla osservazione ravvicinata dell’opera, la superficie appariva completamente coperta da un deposito nero compatto che formava uno strato scuro, molto aderente e con buona continuità, che non permetteva la leggibilità dei particolari; le aree soggette al dilavamento meteorico, presentavano imbianchimento ed erosione, nonché una consistente patina biologica, localizzata nella parte esterna del padiglione.
Prima di affrontare il restauro è stato necessario affidarsi ad una campagna di indagine mirata sia allo studio dello stato di conservazione sia a fornire delucidazioni sulla successione stratigrafica delle finiture presenti, sulla caratterizzazione chimico-qualitativa dei materiali, sia sulla presenza delle ridipinture. Tali indagini preliminari ed un’attenta osservazione dell’opera, sono state essenziali per determinare le problematiche da risolvere, le zone in cui eseguire il campionamento e il tipo di intervento da eseguire. Il campionamento è stato realizzato in accordo con la Soprintendenza, mediante l’analisi dei frammenti di colore trovati alla base della nicchia, integrata dal prelievo di tre frammenti minimali di materiale, nelle zone più rappresentative. E’ stato successivamente eseguito il loro studio mediante microscopia elettronica e microanalisi.
L’esito delle analisi ha messo in evidenza che lo strato nero più esterno era costituito da gesso, calce e particelle nero carbone, con sottostante presenza di una sottile doratura in lamina stesa su uno strato di biacca pigmentata con terre che danno la colorazione bruna alle figure .
Il fondo della nicchia presentava lo strato nero come il precedente con sottostante coloritura a base di biacca di piombo data come legante e smalto blu come pigmento, stesi sopra un ulteriore strato di biacca. La coloritura presente sulla figura di Cristo, sotto il solito strato nero di gesso, calce e particelle carboniose, è data da un impasto a base di calce con inerti che danno la pigmentazione. Considerati i risultati, la pulitura è stata eseguita a mano, gradualmente e con estrema delicatezza, con l’uso prevalentemente di acqua deionizzata per preservare sia le cromie originali sia le patine.
E’ stato effettuato un consolidamento statico per la presenza di lievi dissesti; è stato dato infine un protettivo superficiale per preservare l’opera dagli agenti atmosferici.
Il restauro conservativo, supervisionato dalla Soprintendenza per i Beni Ambientali e del Paesaggio, ha riportato alla luce l’aspetto originario del manufatto, consentendo di valutare i caratteri stilistici e tecnici e la qualità artistica dell’opera.
I lavori hanno avuto inizio a gennaio 2002 e si sono conclusi ad aprile 2002.
Impresa esecutrice del restauro: "Sandi G. conservazione e restauro d’arte" di Venezia.
Il restauro è stato realizzato grazie alla sponsorizzazione di "Alilaguna S.r.l." di Venezia.
1. Edicola della Chiesa di San Polo, Venezia. Prima del restauro |
2. Edicola della Chiesa di San Polo, Venezia. Dopo il restauro |
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3. Edicola della Chiesa di San Polo, Venezia, particolare, Madonna e Ss. Prima del restauro |
4. Edicola della Chiesa di San Polo, Venezia, particolare, Madonna e Ss. Dopo il restauro |
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5. Edicola della Chiesa di San Polo, Venezia, particolare, l’Eucaristia. Prima del restauro |
6. Edicola della Chiesa di San Polo, Venezia, particolare, l’Eucaristia. Dopo il restauro |
Considerazioni attorno a un busto di Leonardo Loredan*
Saverio Simi de Burgis
Il busto, anzi meglio il mezzobusto, in esame rappresenta Leonardo Loredan (fig. 1), doge dal 1501 al 1521. La somiglianza del volto, rappresentante il Loredan, con altri suoi ritratti è evidente: si veda in proposito il famoso dipinto di Giovanni Bellini di Londra, quello attribuito a Vittore Carpaccio di Bergamo o i tre profili raffiguranti il doge dei medaglioni di Alessandro Leopardi realizzati in bassorilievo e inseriti sul pilo bronzeo mediano antistante la Basilica di San Marco. La scultura in questione, concepita a tutto tondo, presenta caratteristiche tecniche di notevole qualità esecutiva; il materiale utilizzato per la sua realizzazione risulta, a un primo esame, di una tipologia analoga ai marmi di Carrara, inoltre una leggera patina avorio rende più plastica la resa del modellato.1
Mancando documentazioni certe che possano in qualche modo aiutarci a individuarne l’autore e l’originaria collocazione e provenienza, non possiamo che analizzare la scultura unicamente da un punto di vista stilistico e quindi prevalentemente potremo avanzare solo supposizioni: da una prima rapida valutazione saremmo già propensi a considerarla un’ottima esercitazione ottocentesca, altrimenti, e naturalmente questa seconda ipotesi si fa più suggestiva, proprio per le notevoli qualità formali e di realizzazione tecnica, potremmo insistere per una sua collocazione in ambito rinascimentale veneto. Ci sono ulteriori elementi interessanti, in questo senso, che ci portano a riflettere su questa possibile valutazione: oltre i raffinati particolari evidenti nel corno dogale, nella catena del collo, del fermaglio e dei due bottoni che chiudono il manto e la veste sottostante sul petto del doge, la sommarietà e l’irregolarità dei colpi di scalpello rinvenuti sotto l’attuale piano d’appoggio assieme ad alcune macchie bruno rossastre, quasi sicuramente tracce di ossido di ferro2, inducono a pensare che l’opera faceva parte di una figura intera eretta o collocata in ginocchio, opera concepita probabilmente per commemorare il doge. Il periodo in cui il Loredan esercita la massima carica nel governo della Repubblica Veneta è notevole per le note vicende storiche del momento e, infatti, durante la sua ducea, Venezia raggiunse il suo massimo splendore, ma nel 1510, a seguito della rotta di Agnadello, si avvertì la prima grande incrinatura del suo sistema politico, segnando irrimediabilmente gli inizi del suo lento e graduale declino.
Per quanto riguarda la storia dell’arte, il nostro, ancora prima di diventare doge, aveva ricoperto, durante il dogado di Giovanni Mocenigo, la carica di procuratore sopra la fabbrica della chiesa di Santa Maria dei Miracoli e contribuì con altri cinque procuratori, "alla scelta di Pietro e Tullio Lombardo, come costruttori e decoratori dell’edificio".3 Come continuatore di Agostino Barbarigo, doge dal 1486 al 1501 e suo immediato predecessore, si trovò nella condizione di completare l’opera da lui iniziata nell’area marciana, in particolare in Palazzo Ducale; come promotore di nuove imprese si dedicò al rifacimento della zona commerciale di Rialto (ricostruzione del Fondaco dei Tedeschi, progetto del ponte di Rialto, i portici del mercato) affidandosi agli architetti del periodo come i Lombardo, Mauro Codussi, Giorgio Spavento e il giovane Scarpagnino. Sono diversi gli artisti contemporanei al Loredan che ne rappresentano le effigi, sia pittori che scultori: è sufficiente elencarne i nomi, Giovanni Bellini, Vittore Carpaccio, Vincenzo Catena, Giorgione, Tiziano e Pietro Lombardo. Il bassorilievo realizzato da quest’ultimo, lastra attualmente murata nella Sala degli Scarlatti di Palazzo Ducale, raffigura il doge Loredan presentato alla Vergine da S. Marco e da altri due santi protettori. Su tale opera si è soffermata Anne Markham Schulz che ritiene che i santi in essa raffigurati siano S. Marco, S. Giacomo e quello seminascosto, con tiara e pastorale, S. Agostino. Per la Markham Schulz 4 si tratta di S. Agostino in quanto nel 1514 a Venezia fu stipulato, come racconta il Sanudo, il patto tra Francia e Inghilterra nel giorno di S. Agostino e cioè il 28 agosto dello stesso anno. Ma il santo in questione potrebbe invece essere S. Gerolamo o come potrebbe sembrare più probabile S. Nicolò, nomi, questi, rispettivamente del padre e del nonno di Leonardo Loredan.5 San Nicolò, protettore dei marinai, è storicamente un santo importante per i veneziani: esisteva in Palazzo Ducale, sin dai tempi del doge Pietro Orseolo II (991) una "chiesola" dedicata a san Nicolò.6 Durante la ducea del Loredan, esattamente dal 1503, fu consacrata una chiesa consacrata a san Nicolò di Bari in stile lombardesco, costruita nelle vicinanze di un ospizio destinato all’accoglienza di soldati e marinai divenuti invalidi.7 La chiesa, oggi non più in situ, fu probabilmente costruita su progetto non tanto dei Lombardo, ma di Giorgio Spavento: successivamente durante il dogado di Andrea Gritti, quasi certamente dopo il ’25, venne demolita e nello spazio dove essa sorgeva, venne costruito il cortile cosiddetto dei Senatori, intervento attribuito allo Scarpagnino. Secondo le ipotesi sviluppate da Wolters, all’interno della chiesa vi era un altare del quale faceva parte il bassorilievo con S. Nicolò e altri due santi attualmente collocato nella cappella di S. Clemente della Basilica di San Marco.8 A questo punto, tra le supposizioni che ci accingiamo a ricostruire per risalire all’originaria collocazione della scultura rappresentante il doge Loredan di collezione privata, azzardiamo l’ipotesi che essa potesse trovare sede, assieme al bassorilievo attribuito al Lombardo e attualmente murato sopra una porta della sala degli Scarlatti in Palazzo Ducale, all’interno della chiesa di S. Nicolò, e una volta smantellata la chiesa, tali opere avrebbero trovato strade diverse e, proprio in relazione alla nostra, asportata da un complesso monumentale di più grandi dimensione e trasferita dai famigliari, probabilmente gli stessi figli, in altri edifici di loro proprietà. Tale ipotesi risulta poco convincente se pensiamo alle difficoltà di far uscire da Palazzo Ducale ogni tipo di manufatto, almeno fino alla caduta della Serenissima; ma dal momento che fino ad ora l’opera non risulta documentata, potrebbe essere stata realizzata su commissione privata del doge e pertanto, una volta deceduto, i figli eredi che rivestivano importanti cariche all’epoca, avrebbero potuto appropriarsene facilmente anche a seguito della demolizione della "chiesola". Ma vediamo ora di ricostruire e identificare alcune case appartenenti alla famiglia Loredan tra il XIV e il XV secolo. Il doge apparteneva al ramo della famiglia originario di San Canciano con palazzo dominicale in quest’area della città, oggi meglio noto come Palazzo Grifalconi-Loredan, sul rio prospiciente la fondamenta Widmann, in prossimità della chiesa dei SS. Giovanni e Paolo e della scuola di Sant’Orsola.9 I Loredan poi si trasferirono a Santo Stefano nelle case acquistate dai Mocenigo per 9000 ducati, ma ciò avvenne soltanto nel 1536, quando il doge era già morto da quindici anni: protagonista dell’affare fu Lunardo di Gerolamo di Leonardo, nipote quindi del doge. Dalle fonti risulta che l’edificio ristrutturato dallo Scarpagnino e poi da altri architetti tra cui il palladiano Grapiglia, conteneva al suo interno diverse opere d’arte tra cui il dipinto assegnato a Giovanni Bellini e scuola rappresentante Il doge Leonardo Loredan e i quattro figli,10 oggi a Berlino, e nelle stanze dello stesso palazzo avrebbe potuto poi trovare sede il mezzobusto di cui ci stiamo occupando. Altro edificio che avrebbe potuto conservare il ritratto scultoreo del Loredan, è il Palazzo di San Barnaba, detto Loredan dell’Ambasciatore, interessante edificio gotico che tuttavia nella facciata, simmetricamente disposte ai lati della quadrifora, presenta due nicchie nelle quali sono contenute due sculture attribuite alla bottega dei Lombardo. Altre case dei Loredan che per dovere di cronaca è opportuno elencare, anche se difficilmente possono interessare più direttamente la nostra ricerca, sono Ca’ Loredan in riva del Carbon a Rialto, fabbrica risalente al XII secolo, in stile veneto bizantino, il Palazzo Loredan a San Marcuola, diventato successivamente Ca’ Vendramin-Calergi, costruito tra il 1408 e il 1509 da Mauro Codussi e alla sua morte avvenuta nel 1504, concluso dai Lombardo, su commissione di Andrea Loredan che però non sembra appartenere allo stesso ramo della famiglia del doge Leonardo, e, infine, quello di San Vio recentemente diventato di proprietà dei Cini.
Altro particolare e curioso episodio che ci porta a suggerire un’altra strada da percorrere nel cercare di collocare con giustezza la nostra tessera nell’intricato puzzle in cui ci siamo imbattuti per trovare una possibile originaria collocazione al mezzobusto, ci è fornito dal monumento funebre realizzato nella chiesa dei Santi Giovanni e Paolo in cui lo stesso doge, per disposizione testamentaria, decise di farsi seppellire:11 per quanto riguarda il monumento definitivo dobbiamo tener presente il fatto che soltanto nel 1572, a cinquant’anni dalla morte del doge, furono ripresi i lavori di "strutturazione" affidati inizialmente a Girolamo Grapiglia.12 Il monumento ricordato dallo Zanotto"tutto costruito di marmo carrarese e di bardiglio"13 sarà terminato solo nel 1604 da Gerolamo Campagna che realizzò la figura centrale del doge seduto tra le personificazioni di Venezia e della Lega di Cambrai, dell’Abbondanza e della Pace queste ultime due realizzate dal suo maestro Danese Cattaneo , il quale, in seguito, interruppe il lavoro in quanto morì nel 1573.14 Essendo passati così tanti anni tra la morte del doge e la costruzione del suo monumento, si può presumere che in situ potesse trovarsi già un qualche monumento, anche se provvisorio, e a questo proposito vien da pensare che potesse trovare collocazione la nostra scultura come un particolare di una struttura di ben più ampie dimensioni.
Per quanto concerne la datazione dell’opera insisto nel farla risalire al periodo in cui il doge era ancora in vita e, per le caratteristiche fisionomiche, ritengo plausibile collocarla nei primi anni del suo dogado, contemporanea a opere già prese in esame come lo stesso Ritratto del Bellini. Non mi sembra , infatti, corretto condividere l’ipotesi che i lineamenti del volto del doge del busto siano stati ricavati dalla maschera funebre. Le sembianze corrispondono maggiormente alla fisionomia di un sessantenne che a quella di un ottantenne, e i segni così incisivi e ricorrenti del volto, utilizzati per evidenziare le rughe, la forma delle sopracciglia, i contorni del naso e delle labbra, appartengono a un artista che, pur dimostrando nella trattazione del marmo un’apertura alle nuove tendenze rinascimentali, rimane per scelta e formazione legato a stilemi tardo gotici, così radicati in molti artisti veneziani degli inizi del ‘500 e in particolare negli scultori che se ne servivano per sottolineare la componente "espressionistica" presente in alcune loro opere. Alla fine del ‘400 uno degli artisti più attivi a Venezia è Antonio Rizzo, di probabile origine veronese, "excellens architectus, geometra clarissimus, sculptor peritissimus ac ingeniosissimus opicionarum ducalium praeses".15 Dopo l’incendio di Palazzo Ducale del 1483, egli diresse i lavori di ricostruzione e ampliamento dell’edificio: gli interventi in particolare interessavano l’ala nuova del cortile, il rifacimento degli appartamenti dogali, nonché l’esecuzione delle loro facciate e della scala successivamente chiamata dei Giganti, concepita per l’investitura del doge o meglio allegoria del suo trono.16 Per la realizzazione della scala venne preferita alla pietra d’istria il marmo greco o quello di Carrara, più docile nella definizione di sottili sfumature e venne impiegata una folta schiera di lapicidi e "tajapiera"17 che il Rizzo aveva chiamato dalla Lombardia, per la maggior parte suoi collaboratori nel grande cantiere della Certosa di Pavia, dove precedentemente aveva lavorato. Gli impegni a Palazzo Ducale e in particolar modo la costruzione della scala, lo impegnarono diversi anni, ma improvvisamente Antonio Rizzo, nel 1498, fuggì da Venezia in quanto venne accusato di essersi appropriato di una certa somma di danaro, lasciando tutti sbigottiti e in primis gli stessi artisti che lavoravano all’interno della sua bottega. Il suo nome, come spesso accadeva in questi casi, fu volutamente cancellato e dimenticato a scapito pure della qualità notevole delle opere dallo stesso realizzate.18 Quando Antonio Rizzo fuggì da Venezia, soltanto un suo "tajapiera" tale Simone Fasan, venne incarcerato, mentre "Pietro Solari detto Lombardo, che dalle indagini risulta non compromesso nelle malversazioni, come il tagliapietra Michele Naranza, occupa il posto del Rizzo".19 Ed è in quest’ambito di artisti che possiamo cercare di individuare l’autore del nostro mezzobusto. Ma vediamo di procedere per gradi, basandoci sulle conoscenze in nostro possesso. Da un primo e rapido esame si può notare, nello stile adottato dal Rizzo, la presenza di una "maniera" nel complesso legata a un segno sottile, attenta ai dettagli e ai minimi particolari, per alcuni aspetti calligraficamente gotica; nei Lombardo, invece, notiamo una resa più "gonfia" del modellato evidente soprattutto nei volti in taluni casi "imbambolati", più palmeschi che giorgioneschi. Le opere dello scultore veronese, nelle quali possiamo riscontrare il particolare grafismo che lo lega, almeno in parte, a motivi tardo gotici, sono individuabili nelle sculture dei dogi realizzate per il monumento a Niccolò Tron di Santa Maria Gloriosa dei Frari e per quello dell’ex chiesa di Santa Maria della Carità, del cui complesso a tre fornici per contenere le due tombe dei fratelli Marco e Agostino Barbarigo, ricostruibile grazie all’incisione del 1692 di suor Isabella Piccini (fig. 2), rimane la sola statua del doge Agostino Barbarigo, attualmente conservata nell’antisagrestia della chiesa di Santa Maria della Salute a Venezia. Robert Munman nel suo saggio dedicato agli ultimi lavori dei Rizzo, per sostenere l’attribuzione all’artista veronese dell’esecuzione complessiva del monumento Barbarigo e non soltanto delle sculture in esso contenute, ha insistito oltre che sull’analogia col monumento Tron ai Frari, sull’importanza del motivo decorativo a elementi susseguentisi in campi quadrilobi a contorni mistilinei che ricorre sia nel monumento, precisamente nel paliotto d’altare, sia nello stesso particolare riprodotto dal disegno del pavimento sito tra la fine dell’arco Foscari e l’inizio della Scala dei Giganti.20 Lo stesso motivo, anche se lievemente allungato a forma rettangolare, lo ritroviamo presente nella decorazione della fascia inferiore del corno dogale del Loredan dove però si riscontrano, in aggiunta, altri motivi fitomorfi (forse gigli stilizzati) che rendono più raffinato l’ornamento, in particolare nella parte superiore del copricapo. Tra i vari artisti che per motivi stilistici e cronologici potrebbero essere indicati come i possibili autori del nostro busto, possiamo pensare ai Bregno ed esattamente a Giambattista e a Lorenzo. I due fratelli scultori, con ogni probabilità provenienti dal grande cantiere del Duomo di Milano, dopo una prima documentata dipendenza dai Lombardo, divisero a Venezia una bottega ed ebbero diverse commissioni sia nella città lagunare che a Treviso e a Padova.21 Secondo la ricostruzione della Markham Schulz, Giambattista Bregno era più vecchio del fratello: il primo, sempre secondo la studiosa americana, morì nel 1513, dal momento che dopo questa data non si hanno più sue notizie, mentre Lorenzo morì nel 1523, poiché è di quest’anno il suo testamento.22 Tra gli importanti primi lavori attribuiti a Giambattista Bregno ritroviamo l’altare Bettignoli Bressa nella chiesa di San Niccolò23 e la decorazione della Cappella del Santissimo Sacramento del Duomo, entrambi a Treviso, a proposito dei quali la studiosa americana suggerisce delle ipotesi per distinguere l’intervento di Giambattista da quello di Lorenzo.24 Se vengono analizzate attentamente le sculture a tutto tondo realizzate dai Bregno, si avverte, soprattutto nei volti di tali sculture, delle forti analogie stilistiche che portano a stabilire una relazione con i modi raggiunti nel ritratto Loredan. Ciò risulta particolarmente evidente dai confronti tra i volti del "Cristo Risorto" (fig. 3) dell’altare Bettignoli Bressa di S. Nicolò, del S. Pietro e del S. Paolo (quest’ultimo a differenza dei due precedenti, attribuito a Lorenzo) del Duomo di Treviso, e il ritratto del doge: si può riscontrare nei diversi tratti fisionomici, una maniera di rendere le superfici e i lineamenti in una ricerca molto affine nei suddetti esempi, anche se si deve evidenziare nell’espressione particolare dei singoli personaggi, un carattere più idealizzante nelle figure dei santi (Lorenzo) mentre si rileva una versione più realistica e umana negli altri volti (Giambattista) e in ciò più conformi alle qualità che abbiamo notato nel busto di Leonardo Loredan. Più a Giambattista che a Lorenzo Bregno si può avvicinare, quindi, l’opera in questione, artista che dimostra di raggiungere, appunto, una sapiente armonia tra una tendenza tardo gotica, evidente nei lineamenti scavati e segnati del volto, e la nuova inclinazione rinascimentale nella resa della morbidezza plastica e duttile delle superfici patinate del marmo che rendono l’opera palpitante di vita autonoma.
Note:
* Il presente saggio, nella versione integrale, è stato pubblicato dallo stesso autore in "Antichità Viva", a. XXXI, nn. 5-6, Firenze 1992, pp. 25-36.
1
Da una relazione di Marco Tosa, docente di Tecniche e uso del marmo presso l’Accademia di belle arti di Venezia.2
Ivi.3
Ettore Merkel, Il mecenatismo artistico dei Loredan e il loro palazzo a Santo Stefano, in Palazzo Loredan e l’Istituto di Lettere, Scienze ad Arti, Venezia 1985, pp. 53-54; vedi anche Pietro Paoletti, L’architettura e la scultura a Venezia, Venezia 1893, p. 205.4
Anne Markham Schulz, The Giustiniani Chapel and the Art of the Lombardo, in Antichità Viva, n. 2, Firenze 1977, p. 9. A questo proposito la Schulz, nella nota 48 del suo scritto, così conclude: "…but more evidence is needed in order to affirm the connection of the relief with that event".5
Francesco Zanotto, Il Palazzo Ducale di Venezia, Venezia 1861, p. 248.6
Leopoldo Cicognara, Antonio Diedo, Giannantonio Selva, Le fabbriche e i monumenti cospicui di Venezia, Venezia 1858, p. 45. Cfr. anche Francesco Sansovino, Cronica particolare delle cose fatte dai Veneti dal principio della città fino all’anno 1581, Venezia 1581, p. 321. Il Sansovino afferma che la cappella fu fatta erigere nel 1112 da Pietro Ziani "per comodità del Principe il quale per legge era tenuto andarvi ogni mattina alla messa …". Cfr. inoltre Giocondo Cassini, Piante e vedute prospettiche di Venezia, Venezia, 1982, pp. 35-39 e Umberto Franzoi, Terisio Pignatti, Wolfgang Wolters, Il Palazzo Ducale di Venezia, Canova, Treviso 1990, p. 78.7
Flaminio Corner, Notizie storiche delle chiese e monasteri di Venezia e di Torcello, Padova 1758, p. 13.8
Umberto Franzoi, Terisio Pignatti, Wolfgang Wolters, Il Palazzo …, cit., pp. 230-231.9
I Loredan figuravano tra gli iscritti alla scuola di Sant’Orsola e gran parte degli appartenenti a tale nobile famiglia trovarono sepoltura nello stesso oratorio della scuola minore che era situato nelle immediate vicinanze della chiesa dei Santi Giovanni e Paolo. Vedi a questo proposito i teleri relativi alla Storia di Sant’Orsola di Vittore Carpaccio, attualmente conservati alle Gallerie dell’Accademia, nei quali spesso sono rappresentati i confratelli della scuola ed è riportato lo stemma di famiglia dei Loredan. Cfr. Guido Perocco, L’opera completa del Carpaccio, Rizzoli, Milano 1967.10
Carlo Ridolfi, Le meraviglie dell’arte ovvero le vite degli illustri pittori veneti e dello stato (1648), a cura di Detlev von Hadeln, Berlino 1914, vol. I, p. 72, nota 7.11
Marin Sanudo, Ragguagli sulla vita e sulle opere, Alvisopoli 1838, pp. 48-53.12
Franca Zava Boccazzi, La basilica dei Santi Giovanni e Paolo, Venezia 1965, pp. 263-265.13
Francesco Zanotto, Il Palazzo …, cit., p. 248.14
Ettore Merkel, Il mecenatismo …, cit., p. 56.15
Antonio Magrini, Il palazzo della Ragione di Vicenza, Vicenza 1875, p. 33.16
Michelangelo Muraro, La scala senza Giganti, in "De artibus opuscula XL Essays in honor of Erwin Panofsky", University Press, New York 1961, passim.17
Cesare Bernasconi, Intorno la vita e le opere di Antonio Rizzo, Venezia 1859, p. 9. A proposito dei "tajapiera" il Bernasconi afferma: "l’arte dei "tajapiera" comprendeva indistintamente gli scalpellini e gli scultori e che gli uni e gli altri esercitavano l’architettura. Solo nell’anno 1723 gli scultori si sono separati dagli scalpellini formando proprio collegio".18
Cfr. Michelangelo Muraro, La scala …, cit., p. 101; Anne Markham Schulz, Antonio Rizzo sculptor and Architect; Princeton 1983; Anne Markham Schulz, Antonio Rizzo, Scala dei Giganti, Arsenale, Venezia 1985.19
Alvise Zorzi, Elena Bassi, Terisio Pignatti, Camillo Semenzato, Il Palazzo Ducale di Venezia, Torino, R.R.I., 1971, pp. 69-70.20
Robert Munman, The last work of Antonio Rizzo, in "Arte Lombarda", nn. 47-48, Milano 1977, pp. 92-93, 96.21
Anne Markham Schulz, Giambattista Bregno, Jahrbuch der Berliner Museen", Berlino 1980, p. 173.22
Ivi, p. 174.23
Anne Markham Schulz, The Bettignoli Bressa altar and the other works by Giambattista Bregno, In "Arte Cristiana", fasc. 694, gen-feb 1983, pp. 38-48.24
Anne Markham Schulz, Giambattista ..., cit., pp. 173-202.
1 attr. Gian Battista Bregno, Il doge Leonardo Loredan, mezzobusto, marmo di Carrara, cm. 45,47x52x45, collezione privata. |
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2 Isabella Piccini, Monumento dei dogi Marco e Agostino Barbarico e altare della Vergine, esistenti un tempo nell’ex chiesa di S. Maria della Carità, incisione, 1692. |
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3 Gian Battista Bregno, Cristo Risorto, part. Dell’Altare Bettignoli Bressa, inizi XVI sec., Treviso, Chiesa di S. Nicolò. |
Venezia, la città dalla pelle di pietra
Marco Tosa
Un legame indissolubile unisce la città storica di Venezia alle pietre, costituendo al giorno d’oggi un esempio assolutamente unico di perfetto adattamento tra materiali diversi, sia dal punto di vista tecnologico e genetico, sia da quello storico e stilistico, specializzato nei secoli al fine di dare forma e corpo a strutture architettoniche estremamente complesse e composite.
A tali fattori si aggiunge l’unicità e varietà delle tipologie lapidee presenti nel repertorio veneziano, dato quest’ultimo, che fa della città un vero e proprio "campionario" formatosi con l’accumulo e la sovrapposizione attraverso epoche e stili; peculiare e irripetibile nel suo genere.
Le particolari condizioni geografiche della città, il suo lento declino politico dopo la caduta della Repubblica Serenissima, l’isolamento crescente, la fine dei commerci marittimi, la sua imponente monumentalità, la distanza dai concetti moderni di funzionalità e modernità qui inapplicabili, nonostante sporadici tentativi spesso poco esaltanti, hanno permesso la fortunosa salvezza di un insieme storico rimasto pressoché integro.
Certo, osservando la città di Venezia oggi, la sensazione che ne deriviamo è che la pietra costituisca la "pelle" di tutta l’area urbana. Variegata, colorata, diversa nelle sue multiformi lavorazioni, la pietra è protagonista indiscussa dello splendore monumentale e viene percepita dall’osservatore come essenza stessa della città. Sulla pietra si cammina, la pietra orna le facciate delle case e delle chiese, definisce le linee architettoniche indicandone le strutture, al tempo stesso si mostra come ornato finissimo e colore. È’ riva e gradinata per fondamenta e scale, mezzo solido per transitare dal dominio incerto delle acque a quello certo della terra.
Le pietre veneziane celano e trasformano difetti e mancanze, ornano all’inverosimile, sono delegate ad essere indicazioni stradali, insegne di botteghe, capitelli per percorsi destinati alla preghiera popolare, certificano con la loro solidità la durevolezza, che proprio non appartiene alla natura intima della città. Si, perché Venezia si erge sul fango morbido delle sue isole, costretta a conquistare il terreno edificabile sottraendolo faticosamente all’acqua della laguna, indiscussa dominatrice, alla quale servitù non è mai riuscita a sottrarsi, con la quale ha da sempre mantenuto un rapporto di conflittualità.
Ma le pietre sono simbolo di forza e immutabilità, resistenza e stabilità, dalla notte dei tempi caricate di simbologie e significati tra i più vari, mistici, magici, filosofici, oggetto di collezionismo e ricercate per la loro bellezza, decretano al possessore uno status sociale decisamente elevato. Questo i veneziani, ricchi e vanitosi, lo compresero subito, delegando i materiali lapidei che rivestono case e monumenti, a rappresentarli al meglio, dichiarazione imperitura di gloria, ricchezza, potere.
La tradizione antica era dalla loro parte, tutto ciò non nasceva solo da mere speculazioni estetiche, "Venezia è una città nata adulta", come scrive Elena Bassi, facendo suo un patrimonio tecnico e materico preesistente di matrice romana, infatti, quando la città cominciò a definirsi, utilizzò come veri e propri rifornimenti le città di Altino, Aquileia, Concordia Sagittaria, Oderzo, derivando la prima architettura veneziana da quella romana.
In seguito, raggiunta l’autonomia politica da Bisanzio, dopo le crociate, la conquista di Costantinopoli nel 13 aprile 1204 e la successiva spoliazione continuata nei 57 anni dell’Impero Latino, i veneziani ebbero tutto il tempo di portare via dalla capitale saccheggiata colonne, marmi straordinari ed ogni sorta di cose d’arte, così come negli anni dei grandi traffici commerciali attraverso il mediterraneo pietre greche, turche, egiziane divennero parti integranti negli edifici della città. La massa dei materiali lapidei fu talmente grande che non solo bastò per ornare chiese e case, ma andò a riempire i magazzini di scalpellini e depositi di molte chiese; si ha notizia del primo statuto dei tagliapietra a Venezia nel 1307.
Tre città che, sebbene con alterne vicende e differenti destini, in un odierna lettura appaiono legate strettamente tra loro; Roma, Costantinopoli e Venezia, quest’ultima la "figlia" naturale delle prime due, erede di tradizioni tecniche, estetiche, materiche assai peculiari, ben definite in origine ma rielaborate dagli abili artigiani e architetti veneziani, al fine di rendere tutto funzionale alle nuove esigenze destinate a far crescere un’impossibile città tra le acque, ma assolutamente solida e durevole come la Roma imperiale, altrettanto splendente d’oro e di marmi colorati come la mitica Costantinopoli.
Definizioni impiegate dai romani:
Lapis, (pietra), termine generico utilizzato per indicare le pietre.
Marmora/Marmor, termine che comprendeva tutte le pietre decorative e ornamentali suscettibili d’essere lucidate a specchio.
I romani dedussero la parola "Marmor" dal greco " Marmaros"; il verbo greco "Marmairon" significava risplendere. Ne deriviamo che la parola marmo avesse un senso solo esteriore, prescindendo dalla natura geologica della roccia in questione, tale definizione generica, è ancora oggi ampiamente diffusa e utilizzata quando ci si vuole riferire a pietre decorative e lucidabili, comunque intese come di pregio.
Per notizie di vario tipo, tra cui storiche e acute osservazioni sulla moda d’utilizzare pietre pregiate nell’edilizia romana, si veda Naturalis Historia di Plinio il vecchio,
Definizioni mineralogiche:
Le pietre di interesse artistico e storico, alcune delle quali osservate in questo studio, sono oggi suddivise in base ai criteri di catalogazione propri della mineralogia.
Rocce ignee o magmatiche, prodotte dal raffreddamento di fusi lavici provenienti dalle zone profonde della litosfera, se il raffreddamento di tali lave avviene sotto la superficie terrestre si parla di rocce intrusive, al contrario, se avviene all’esterno, di rocce effusive.
Appartengono a questa categoria le rocce più note quali graniti, porfidi, granodioriti, basalti.
Rocce sedimentarie, prodotte dalla sedimentazione di materiale clastico, degradato precedentemente in natura per vari fattori fisici e chimici, accumulatosi in bacini di sedimentazione di varia origine e tipo, sottoposto a compazione e litificazione fino al raggiungimento della tipologia mineralogica che le caratterizza. Appartengono a questo gruppo pietre ampiamente usate in campo artistico, le più note sono le arenarie, il Travertino, i tufi, le pietre sedimentarie organogene quali Rosso di Verona, pietra d’Istria, e le cosiddette lumachelle.
Rocce metamorfiche, sono il risultato di processi di rigenerazione attraverso forti pressioni e alte temperature che avvengono sotto la superficie terrestre, riguardanti rocce preesistenti. La metamorfosi di tali materiali da forma a pietre che sono generalmente caratterizzate da struttura scistosa. Tra le rocce tipiche appartenenti a questa categoria spicca il marmo, identificabile per la sua struttura cristallina composta essenzialmente da cristalli di calcite perfettamente incastrati tra loro, che conferisce al materiale la peculiare lucentezza, trasparenza, unitamente alla possibilità di lavorazione e lucidatura che ne hanno fatto la pietra per antonomasia più nota ed utilizzata in campo artistico.
Itinerario attraverso la città
L’esame di alcune fabbriche emblematiche, facenti parte del vasto patrimonio monumentale di Venezia, permetterà di comprendere al meglio il complesso sistema decorativo che vede i materiali lapidei protagonisti con le conseguenti implicazioni tecniche e stilistiche che hanno attraversato epoche e stili. L’attenzione è rivolta alla tipologia delle pietre poste in opera, alla loro area di provenienza, rarità e peculiarità, all’utilizzo artistico e strutturale.
Gli edifici presi in esame sono suddivisi tra quelli prevalentemente destinati ad uso privato, abitazioni, e quelli pubblici, utilizzati per il culto o funzioni rappresentative sociali.
Raggruppamenti storico-tecnico-stilistici:
La città e il colore: il valore ornamentale e simbolico del colore- Il colore per "trasformare" la materia- Il colore delle pietre.
La città e i materiali: il legno, i mattoni, l’intonaco, l’affresco, la pietra.
Tecniche ornamentali: la scultura, la pietra dipinta, il mosaico, la tarsia, l’intarsio, il niello, il commesso.
Venezia bizantina romanica/medioevale caratterizzata da colori forti e contrastanti.
Rosso- mattone, intonaco di "cocciopesto", porfido rosso.
Verde- serpentini, porfidi verdi.
Bianco- marmi orientali.
Oro- mosaici in pasta vitrea.
Edifici: Ca’ Loredan, Ca’ Farsetti, varie fabbriche bizantine nell’area di Rialto.
Iconografia: piante e vedute della città, incisioni, miniature, mosaico marciano nella lunetta del portale di S. Alipio.
Venezia gotica: le pietre dipinte e dorate, gli intonaci rossi e il cotto a vista, la decorazione a "tappeto" (Jakob Burkhardt), vedere ad esempio il dipinto di Carpaccio " Miracolo del Patriarca di grado", con i caratteristici comignoli e parte delle pareti affrescate con decoro floreale.
"Venise la rouge", domina il colore rosso. Durante il 1300/1400, era abitudine diffusa dipingere e dorare gli elementi in pietra, sia all’esterno delle case di mattoni che all’interno, come avviene per i monumenti funebri e celebrativi, (Marin Contarini).
Edifici: Ca’ d’Oro, Ca’ Pisani Moretta, case Foscari, Palazzo Ducale, varissime sono le tipologie presenti in città che vanno dal primo stile gotico, sobrio e rigoroso, a quello più elaborato e ornato tipico del gotico fiorito.
Iconografia: Vettor Carpaccio, (storie di S. Orsola e S. Girolamo, miracolo del Patriarca di Grado), Gentile Bellini, (Miracolo della Croce in rio S. Lorenzo, La processione in piazza S. Marco), Giovanni Mansueti, (Miracolo della Croce), Lazzaro Bastiani, (Dono della reliquia della Croce).
Venezia nel Rinascimento: facciate ricoperte di decorazioni tra le più svariate eseguite su intonaco con la tecnica dell’affresco, presenti nelle campiture libere dalle pietre e dove queste non si sono imposte. Ricordiamo il Fondaco dei Tedeschi, affreschi di Giorgione e Tiziano, Ca’ Pisani (Gritti) ancora Giorgione, Ca’ Cappello a S. Polo e Ca’ Mocenigo a S. Samuele decorati da Paolo Veronese. Le case di campo S. Stefano, (affreschi del Pordenone nel chiostro dell’omonima chiesa visibili fino agli anni ’30, secondo A. Zorzi), Giorgione, Sante Zago e altri.
Le leggi suntuarie emesse dal Senato della Repubblica durante il XVI secolo, volute per porre fine all’eccesso di ostentazione, imporranno la fine dell’uso dell’oro sulle pietre delle facciate di case private, destinandolo solo all’ornamentazione interna dei luoghi di culto.
Edifici: Ca’ Dario, Fondaco dei Tedeschi, Ca’ Vendramin Calergi, scala del Bovolo a Ca’ Contarini, Ca’Loredan a S. Stefano.
Venezia barocca: si edificano le grandi facciate di pietra d’Istria scolpita, il bianco monumentale si impone a tutto campo.
Iconografia: vedutisti, Vanvitelli, Marieschi, Carlevarijs, Canaletto, Guardi, Bellotto.
Edifici: Ca’ Rezzonico, Ca’ Pesaro, Ca’ Pisani a S. Stefano.
Venezia ottocento: il recupero dell’antico, l’eclettismo decorativo tra nostalgia e collezionismo, i "falsi storici" nati sull’ideale stilistico "puro", si vedano ad esempio il fondaco dei Turchi, restaurato nel 1860 da Federico Berchet, e Ca’ Gussoni Cavalli Franchetti, i cui restauri furono condotti da C. Boito, Manetti, Matscheg.
Brevi note storiche e osservazioni su alcuni edifici significativi dedicati al culto:
Basilica di S. Marco, in origine vi era la chiesetta dedicata a S. Teodoro, innalzata nell’area ove ora si trova la piazzetta dei leoncini. Nel 1950 Ferdinando Forlati effettuò scavi in varie zone alla ricerca dei resti preesistenti, ma senza risultati soddisfacenti, il dibattito in merito alle fondazioni antiche di S. Teodoro, forse inglobate nell’attuale basilica, è tuttora vivace. Il primo nucleo successivo all’antica cappella palatina definitosi nel 828 sotto il dogado di Giustiniano Partecipazio, subì alcuni ampliamenti e fu consacrato nel 832 con la traslazione del corpo di S. Marco. L’edificio si presentava a pianta basilicale con due navate laterali e copertura con travatura a vista, secondo le affermazioni di Bettini, Saccardo, Selvatico, Cattaneo. Esternamente l’edificio appariva ricco di elementi tipici dell’architettura esarcale o ravennate: portico, murature in mattoni rossi a vista decorate con lesene e nicchie in cotto, colonne e ornati marmorei provenienti da Altino e Oderzo, abside unica. Nel 976 un incendio appiccato al Palazzo Ducale danneggiò parzialmente la chiesa che fu reintegrata e abbellita sotto il doge Pietro Orseolo, arricchita con decorazioni lapidee, riconsacrata nel 978.La terza ricostruzione, con gli ampliamenti definitivi corrispondenti all’odierna struttura, avviene sotto il Doge Domenico Contarini, nel 1063 e portata a termine nel 1071. In quel periodo fu aggiunta la navata trasversale che s’interseca con le altre formando un ampio transetto e trasformando la pianta longitudinale in centrale, All’esterno il portico fu sostituito dal nartece che si andò sviluppando anche su parte del lato sinistro della chiesa. Si costruirono le cinque maestose cupole, la chiesa aveva ormai assunto caratteri simili a quella dei "Dodici Apostoli" di Costantinopoli (Apostoleion). La solenne consacrazione avvenne nel 1094 sotto il Doge Vitale Falier.
Il fastoso complesso architettonico, così come ci appare oggi, è senza dubbio uno dei più ricchi campionari di pietre antiche di pregio, provenienti da cave anch’esse antiche e collocate in varie aree del mediterraneo, legate strettamente alla storia e allo sviluppo artistico di civiltà diverse. Si veda in merito l’opera di R. Gnoli, Marmora Romana, Elefante, Roma, 1971, 1988.
Gli apparati lapidei marciani appaiono come una distesa variegata di ornati, sia utilizzati come campiture, (lastre), sia come elementi architettonici, (colonne, capitelli, architravi, archi, basamenti), sia come sculture a tutto tondo, basso e alto rilievo.
Tra le pietre più significative citiamo:
-Porfido Rosso, (Porphiriytes).
Proveniente dalle cave di Gebel Dokan, (Mons Porphyrites), in Egitto.
-Verde di Grecia, (Porfido)
- Marmo bianco e nero antico, (Breccia).
Famosa e pregiata pietra detta anche Marmor Celticum o d’Aquitania, le cave erano situate presso Aubert, Pirenei francesi, vicino a S. Girons.
-Cipollino, (Marmor Caristium).
Proviene da Karystos, Grecia, ha una struttura a strati che ricorda la cipolla a causa delle linee scure alternate a bande chiare.
-Cipollino rosso, (Carium o Iassense), tipico per la coloritura rosso violacea alternata a fasce bianche.
-Marmo Imetto, monte Hymettos, Grecia, anch’esso volgarmente chiamato "marmo cipolla" a causa del tipico odore bituminoso che emette quando è rotto e lavorato.
- Marmo Proconneso, Isola di Marmara, (Proconnesio), Turchia, simile per caratteristiche al precedente, con analogo forte odore alla rottura e stessa definizione di "marmo cipolla".
S. Maria del Giglio (o Zobenigo), la chiesa trae il suo nome dall’estinta famiglia Jubanico, che contribuì in larga misura alla sua fondazione, X secolo, e costruzione. Due incendi ne provocarono la totale distruzione, (996 e 1105). Fu ricostruita durante la seconda metà del XVII secolo cambiando l’antico impianto originale basilicale a tre navate bizantino. Antonio Barbaro, provveditore in Dalmazia, reduce da un’insigne carriera militare e politica, lascia in allegato al testamento del 1678, 30.000 ducati per il compimento della chiesa. L’incarico è affidato all’architetto Giuseppe Sardi che progetta la nuova facciata commemorativa destinata a celebrare le glorie marinare, civili e politiche della famiglia, realizzata tra il 1680 e il 1683. Barbaro aveva ottenuto a tal proposito il parere favorevole del Senato della Repubblica, ottenendo dal Capitolo della chiesa "l’assoluto dominio" per l’edificazione della facciata così palesemente celebrativa.
Materiale sovrano per scolpire il ricco ornato fu la pietra d’Istria, qui impiegata nelle possibili varianti della scultura, bassorilievo, altorilievo, tuttotondo. Le statue dei Barbaro sono di marmo. Tra le curiosità si osservino le piante delle città :Zara, Candia, Padova, Roma, Corfù, Spalato, eseguite a bassorilievo nei dadi inferiori delle colonne binate, mentre in quelli superiori sono raffigurate vivaci scene di battaglie sul mare tra galeoni veneziani e galee turche.
S. Moisè, fondata nel VIII secolo, dedicata a S. Vittore, fu ricostruita nel X secolo da Moisè Venier, che la dedicò al suo santo titolare. Forma attuale del 1632. La facciata in pietra d’Istria eretta nel 1668 grazie ad un lascito del patrizio Vincenzo Fini fu ideata dall’architetto Alessandro Tremignon, mentre l’esecuzione della fastosa decorazione plastica è di Arrigo Meyring. Sul portale centrale, sopra animali fantastici, vi è l’obelisco di V. Fini, sulle porte laterali due busti a tutto tondo della famiglia Fini. Costituisce un altro interessante esempio di facciata commemorativa privata, in questo caso la simbologia religiosa si mescola con la rappresentazione dello status del commitente.
Scuola di S. Marco, sorta nel 1260 con scopi religiosi ed umanitari. Incendiata e distrutta nel 1485, fu ricostruita sotto la direzione di Pietro Lombardo con la collaborazione di Giovanni di Antonio Buora, tra il 1487 ed il 1490, portando quasi a termine la costruzione. Il compimento della fabbrica avviene con l’affido a Mauro Codussi e i lavori sono ultimati nel 1495. J. Sansovino interviene ancora successivamente tra il 1533 e il 1546 con ampliamenti sul lato del canale.
La facciata, riccamente ornata con pietre di pregio, tra le quali spiccano i bei marmi pavonazzetti venati, (marmor phrygium, Dokimeion, Turchia), applicati sfruttando le simmetrie morfologiche per comporre un decoro geometrico, e varie tipologie di rilievi, si fa notare per le particolari prospettive architettoniche "disegnate" in pietra corrispondenti ai due portali d’ingresso. Le doppie prospettive sono centrate sui temi dei leoni marciani e sulle scene della vita di S Marco: il battesimo e la guarigione di S. Aniano, attribuiti a Tullio Lombardo. Colpiscono i due rilievi lombardeschi per la raffinatissima qualità esecutiva, la varietà del dettaglio che riconosciamo nei tratti dei volti, nella resa realistica dei particolari vestimentari, e nell’esibizione tecnica che la lavorazione scultorea esalta, partendo da finissimi stiacciati, per le figure di fondo, passando ad un basso rilievo per le intermedie, fino al rilievo e a parti a tutto tondo per quelle in primo piano.
S. Maria della Salute, B. Longhena, eretta tra il 1631 e il 1687 a ricordare la liberazione della città dalla peste (22 ottobre 1630, il governo veneziano ne decise la costruzione). I lavori durarono 58 anni, nel 1682 morto Longhena, il cantiere proseguì sotto Antonio Gaspari. Esternamente la pietra d’Istria è stata impiegata per le parti strutturali e come segno architettonico volto a sottolineare i punti di forza dell’edificio, con soluzioni fantasiose e ad effetto come le grandi ruote a girali che sostengono il tamburo. All’interno vi sono la bellissima "rosa" sul pavimento a "sectile" e i pregiati paliotti dorati con pietre dure incastonate.
S. Maria Assunta dei Gesuiti, imponente complesso appartenuto nel XII secolo ai Crociferi. Nel 1657, dopo traversie dovute al comportamento eccessivamente libero e alla ricchezza e potenza raggiunta dai Crociferi, l’ordine fu soppresso e la chiesa con l’adiacente monastero, acquistata dai Gesuiti. Dal 1715 iniziò una ricostruzione sontuosa, finanziata dalla famiglia Manin di Udine.
Facciata in pietra d’Istria di G.B. Fattoretto, interno su due livelli dell’architetto Domenico Rossi ultimato nel 1729. Fastosa decorazione in tarsie lapidee, paraste e fregio, con marmo bianco e breccia verde-antico, ad opera di Domenico Rossi, (cantieri Manin). Disegni dei motivi ornamentali, riferiti ai decori tessili coevi, simili a quelli eseguiti nella cappella Manin di Udine ad opera di un certo Olivo. Baldacchino e tabernacolo dell’altare maggiore, ideati da padre G. Pozzo, in forme grandiose ispirati a quello di S. Pietro a Roma, sono arricchiti da notevoli sculture di marmo eseguite da Giuseppe Torretti tra il 1715 e il 1728, sempre su progetto di G. Pozzo. Grande appare il dispendio di pietre di pregio, tra le quali i lapislazzuli del tabernacolo, il finto tappeto davanti all’altare maggiore in giallo antico e breccia verde, le colonne e gli ornati degli altari laterali, e l’incredibile pulpito, vero esempio di maestria scultorea, con i suoi "broccati" gonfiati dai panneggi apparentemente casuali. Il pavimento segue un impianto decorativo di derivazione romana ed è stato eseguito in pietra d’Istria con inserzioni di breccia verde, a comporre motivi geometrici intrecciati.
S. Cassiano, cappella votiva voluta dall’abate toscano Carlo dal Medico, morto nel 1758. Particolare esempio di preziosità unita al decorativismo insiti nella pietre impiegate. Sono curiosi gli inserti di pietre dure lavorate a cabochon nella balaustra, trattate come veri e propri gioielli, così come i due inginocchiatoi in giallo antico, scolpiti ad imitazione dei mobili dell’epoca.
Brevi note storiche e osservazioni su alcuni edifici e luoghi significativi non di culto:
Piazza S. Marco, l’incontro con la Venezia rappresentativa e monumentale. Le "1000" pietre antiche della Basilica, un percorso decorativo ininterrotto dal 1000 fino al 1800.
La piazza, unico spazio pavimentato che utilizza questo nome nella città di Venezia, era il punto d’incontro destinato al passeggio, alle processioni, alle feste e al gran mercato della Sensa.
Nel 1172-78, sotto il dogado di S. Ziani, si ebbe l’estensione della piazzetta sul preesistente orto delle monache di S. Zaccaria, ottenendo l’attuale forma, fu demolita la chiesa di S. Geminiano e ricostruita in fondo alla piazza, coperto il rio Batario. Nella metà del XVI secolo, fu rifatta la facciata di S. Geminiano su disegno di J. Sansovino ivi sepolto e poi traslato in S. Marco. Napoleone Bonaparte abbatté la chiesa per edificare il palazzo reale, (Ala Napoleonica).
Data 1264 l’antica pavimentazione della piazza eseguita con mattoni disposti a spina di pesce: (si veda il dipinto di Gentile Bellini "La processione in piazza S. Marco). La nuova pavimentazione della piazza è del 1723, realizzata impiegando "masegni" di Trachite e listoni ornamentali di pietra d’Istria, su progetto di A. Tirali. Si ebbe la prima vistosa sopraelevazione del piano di calpestio e conseguente importante modifica cromatica dell’insieme, passando dal rosso brillante dei mattoni al grigio spento della Trachite.
Le Procuratie Vecchie, riprendono il motivo architettonico della precedente costruzione veneto-bizantina del XII secolo. M. Codussi terminò la fabbrica fino al primo piano entro il 1500. Nel 1512 un incendio rese necessari altri lavori, eseguiti da B. Bon che completò il progetto del Codussi. Nel 1532, successore del Bon fu J. Sansovino che terminò l’edificio nella parte di fondo.
Le Procuratie Nuove, Scamozzi iniziò le prime dieci arcate nel 1586 sul modello della libreria del Sansovino, l’opera fu completata nel 1640 da B. Longhena.
Entrambe le imponenti fabbriche sono state realizzate con massivi rivestimenti in pietra d’Istria e ricchi apparati ornamentali a basso e alto rilievo.
Libreria, l’edificio, opera di Jacopo Sansovino, fu eretto dal 1537 al 1553 limitatamente alle prime sedici arcate. L’opera di decorazione si protrasse fino al 1560. Nel 1588 Vincenzo Scamozzi intraprese la costruzione delle ultime cinque arcate verso il molo. Sul coronamento balaustra con statue raffiguranti divinità classiche, opera di Alessandro Vittoria e altri artisti.
Al primo piano, nel vestibolo concepito da J. Sansovino come sala destinata a lezioni di materie umanistiche rivolte a patrizi e cittadini, trovò collocazione il Museo Statuario della Repubblica, trasformato per tale uso da Vincenzo Scamozzi in una sorta di foro antico. Nel 1586 il patriarca di Aquileia, Giovanni Grimani, decise di donare alla Repubblica la sua preziosa raccolta di circa 200 statue e rilievi antichi, soprattutto greci. Nel 1812, per volontà napoleonica, la sala fu sgomberata, oggi rimangono in loco solo pochi pezzi, prevalentemente di arte romana, mentre gli altri hanno trovato collocazione nell’attiguo Museo Archeologico.
Ca’ Dario, dimora patrizia edificata su un preesistente edificio gotico non prima del 1487, da maestranze lombarde. Facciata ricca di pietre colorate e rare, conseguenza dell’influenza ornamentale subita da Dario durante gli anni trascorsi come consigliere diplomatico a Costantinopoli. Subì notevoli rimaneggiamenti strutturali e degli apparati ornamentali durante l’ottocento.
Ca’ Venier dai leoni, famiglia tra le più importanti di Venezia, ricca e conosciuta. Preesistente edificio detto la Torresella, da loro abitato, abbattuto in seguito alla decisione della famiglia di costruire una dimora rappresentativa e fastosa, in antagonismo con la prospiciente Ca’ Grande della famiglia Corner. Il grandioso progetto di Lorenzo Boschetti, 1749, mai portato a termine a causa della mancanza di fondi, è oggi visibile nel modello ligneo al Museo Correr. Il primo piano costruito, a livello terreno, rivestito di pietra d’Istria, reca visibili le teste di leone scolpite: animale legato al nome della famiglia.
Ca’ Corner detta la Ca’ Grande, J. Sansovino, inizio costruzione della colossale fabbrica, la cui facciata è interamente rivestita e ornata con pietra istriana, nel 1533, nel 1551 alla morte di Giovanni Corner l’edificio non era ancora terminato: forse fu portato a termine dallo Scamozzi. E’ qui ben rappresentato il concetto di ornamentazione "di facciata", inteso solo frontalmente e per la vista dal Canale Grande, tipico dell’architettura privata veneziana.
Ca’ Gussoni Cavalli Franchetti, restauri condotti da Giambattista Meduna 1847, poi Girolamo Manetti con la consulenza di Camillo Boito nel 1878, interessante esempio di rifacimento ottocentesco di un ideale gotico, utilizzando parte delle pietre antiche preesistenti, aggiungendone nuove modificando parzialmente proporzioni e colori della facciata originale.
Ca’ del Duca, Palazzo del Duca di Milano Francesco Sforza, che qui doveva sorgere sull’area e sui piani della casa, (reggia), appena iniziata da Andrea Cornaro, padre di Caterina Cornaro regina di Cipro, prevista in dimensioni colossali (la sala maggiore centrale avrebbe dovuto essere lunga 55 metri e mezzo, più grande di quella del Maggior Consiglio), su progetto di Bartolomeo Bon poco dopo la metà del 1400. Acquistato dal Duca Francesco Sforza (1461), i lavori, temporaneamente sospesi, non furono più ripresi e la costruzione rimase incompiuta al piano terreno, come si può vedere dai resti del forte bugnato angolare con colonne in pietra d’Istria, affacciato sul Canal Grande.
Ca’ Rezzonico, Baldassarre Longhena inizia il cantiere nel 1667 ma non ne vede la fine a causa della sua morte nel 1682. Filippo Bon, procuratore di S. Marco e committente, sospende i lavori per mancanza di denaro, gli eredi proseguono e vendono la fabbrica nel 1750 a Giovanni Battista Rezzonico. I Rezzonico chiamano a concludere la costruzione Giorgio Massari che riprende e modifica il progetto di Longhena. Nel 1746 l’edificio appare ultimato con l’imponente facciata in pietra d’Istria caratterizzata dagli esuberanti ornati, ricchi di soggetti antropomorfi fantastici ed elementi architettonici a grande aggetto, quasi a tutto tondo, cosa poco comune dato il raro impiego della pietra "in masso" a Venezia. Nel 1934 Ca’ Rezzonico fu comperata dal Comune di Venezia e divenne sede del Museo del Settecento Veneziano.
Campo S. Stefano: le facciate affrescate, il colore perduto di Venezia, la grande stagione dell’affresco pensato per un decorativismo fastoso, di poco costo ma anche di breve durata.
Ca’ Pisani, iniziato nel 1614-15, ingrandito dall’architetto Girolamo Frigimelica nel 1728, rimodernato nel 1793 da Bernardino Maccaruzzi, non era mai riuscito ad affacciarsi sul Canal grande, la famiglia si dovette accontentare di un modesto affaccio acquistando nel 1751, tramite Andrea Pisani, il palazzetto che sorgeva tra il rio del Santissimo e Ca’ Benzon Foscolo, proprietà del marchese Giovanni Poleni, collegandolo al resto della fabbrica con più passaggi oggi non tutti agibili. I Pisani, famiglia tra le più illustri, impiegarono somme incalcolabili nell’erigere questo grandioso edificio che fu dimora di sovrani e principi. Soggetto a notevoli spoliazioni di suppellettili e raccolte d’arte, rimangono le strutture architettoniche imponenti, dove si osserva una certa parsimonia nell’impiego della pietra d’Istria, e i suggestivi cortili con logge sovrapposte a ricordo dell’antico fasto. Dal 1897 è sede del Conservatorio di Musica Benedetto Marcello.
Ca’ Loredan, originaria costruzione gotica dei Mocenigo, fu acquistata dai Loredan nel 1536 e ricostruita ex novo nelle forme rinascimentali da A. Scarpagnino. Decorazione pittorica di G. Salviati che, pare aiutato da un maestro fiorentino, riveste d’affreschi la facciata con soggetti tratti da episodi di storia romana, figure allegoriche, fregi, grottesche. La facciata minore in pietra d’Istria fu eretta nel 1618 con un prospetto architettonico di tipo scamozziano attribuito a Giovanni Grapiglia. Altri affreschi erano presenti in campo; di Sante Zago, (sec.XVI), Giorgione, J. Tintoretto. Sul lato della chiesa di S. Stefano è ancora visibile qualche traccia dell’affresco con Vergine e Santi, metà del XV secolo, di Girolamo Pellegrini. A. Zorzi ricorda gli affreschi del Pordenone ancora visibili nel chiostro fino agli anni ’30. Interno della chiesa: colonne in marmo greco e rosso di Verona alternate, capitelli dipinti, navata affrescata con gli stessi motivi del rivestimento lapideo della facciata di P. Ducale, paliotto "Martirio di S. Stefano", eseguito con tecnica a commesso in pietre dure da Benedetto Corberelli nel 1656, (iscrizione del committente Giovanni Ferro).
Ca’ Contarini Dal Bovolo, caratteristica scala a chiocciola (bovolo), che sorge nella corte, probabilmente lombardesca, attribuita a Giovanni Candi, ca.1499. Pietra come struttura essenziale nella concezione costruttiva della straordinaria scala autoportante e negli aerei loggiati. Nella minuscola corte vi sono alcune vere da pozzo veneto-bizantine, sec XI, e vari frammenti decorativi.
Rialto: l’edilizia bizantina, il colorismo contrastante delle pietre orientali.
Ca’ Loredan, edificio duecentesco fondato, sembra, dalla famiglia Boccasi proveniente da Parma, in stile veneto-bizantino, successivamente di proprietà della ricca famiglia Zane, ospitò il doge Jacopo Contarini nel 1280. Federico Corner, ricco mercante, ne diventa proprietario e fa scolpire nel XIV secolo sulla facciata lungo il loggiato un fregio araldico allegorico impiegando pietre di pregio, con le immagini di Davide e Golia, la Giustizia e la Fortezza e gli stemmi Corner e Lusignano. Con l’estinzione della famiglia nel 1664, l’edificio passa ai Loredan. Dopo alterne vicende, è acquistato nel 1864 dal Comune di Venezia e collegato all’attiguo edificio di Ca’ Farsetti da un passaggio: oggi è sede dell’amministrazione comunale. Porticato con colonne di marmo greco e capitelli originali. I Restauri e rimaneggiamenti avvenuti durante il periodo gotico e rinascimentale sono evidenti nel secondo piano.
Ca’ Farsetti, l’edificio costruito nel XII secolo (incertezza sulla fondazione), appartenuto per tradizione al Doge Enrico Dandolo (eletto nel 1192), era ricchissimo e adorno di marmi greci appositamente inviati a Venezia nel 1204 da Costantinopoli. Nel 1524 la casa fu distrutta da un incendio. Nel 1669 l’edificio fu venduto ad Anton Francesco Farsetti, membro di una famiglia dedita alle arti e alle scienze, e restaurato. Arricchito da Filippo Vincenzo Franchetti da collezioni varie con l’intenzione di fondare una sorta di scuola destinata alla conoscenza delle "arti gentili", utilizzando gessi modelli e calchi di sculture tra le più importanti del repertorio greco e romano, divenne luogo di riferimento per esercitarsi nelle arti scultoree e figurative. Tommaso Giuseppe Farsetti raccolse una straordinaria biblioteca durante il XVIII secolo che in seguito alla decadenza della famiglia, dal 1808, fu donata alla Marciana, mentre pietre e gipsoteca andranno all’Accademia di Belle Arti. Colonne e capitelli originali provenienti da edifici più antichi, ( V o VI secolo). Intervento verso il 1875 durante il quale si realizzarono ex novo intonaci dipinti ad imitazione di lastre di marmo Proconnesio e Cipollino, mentre le parti marmoree furono trattate con sostanze oleose in maniera irreversibile. (C. Pertot, Venezia restaurata, 1988).
Fondaco dei Tedeschi, prima costruzione del I° quarto del XII secolo, in stile Bizantino come rappresentato nella pianta del De Barbari. Deposito commerciale, mercato per il rame e l’argento del nord, lana fiamminga e altri speciali merci e manufatti. Stanze per alloggio anche di visitatori tedeschi, refettori, sale per riunioni. Era una specie di "monastero", una comunità commerciale, un "villaggio". Nel 1505 distrutto da un incendio. Ricostruito in fretta, ultimato nel 1508 sotto la direzione d’Antonio Scarpagnino con ampliamenti e migliorie. Doveva apparire come una straordinaria macchia di colore la facciata sul Canal Grande, affrescata da Giorgione con grandi nudi allegorici in pose sinuose. Tiziano giovane dipinse motivi simili sul lato dell’entrata seguendo l’esempio di Giorgione. Gli affreschi erano degradati durante il XVII secolo e totalmente deteriorati nel XVIII.
Ponte di Rialto, dal 1172, Doge S. Ziani, si pensa ad un ponte di barche trar le due rive. Nel 1181 eretto un ponte su chiatte da Nicolò Baratieri, detto del "Quartarolo" dal nome della moneta necessaria per pagare il pedaggio. Alla metà del XIII secolo è sostituito da un ponte a pali, stabile, tagliato da Baiamonte Tiepolo nell’ambito della congiura da lui stesso condotta nel 1310. In seguito, nel 1444 rischia di crollare, rifabbricato in legno più ampio e con botteghe, levatoio al centro per permettere alle imbarcazioni alberate il passaggio. Fra Giocondo ne propone il rifacimento nel 1514, vista l’instabilità della costruzione. I progetti per un ponte stabile in muratura sono del 1554 e recano firme prestigiose: Michelangelo, Palladio, Vignola, Sansovino, A. da Ponte, Scamozzi, A. Boldù. I lavori iniziano nel 1588 sotto la direzione d’Antonio da Ponte, utilizzando 6.000 pali infitti sul fondo e con un costo di 250.000 ducati. A concludere la nuova fabbrica, simboleggiandone solidità e durata, sopra la struttura portante di mattoni, si applicò in una continuità ininterrotta, il candido rivestimento di pietra d’Istria, impiegata con varie tecniche e lavorazioni.
1. Basilica di S. Marco, angolo del tesoro: lastre di pietra scolpite a bassorilievo e lisce di varia provenienza. Sono riconoscibili i "cipollini" rossi, le brecce verdi, marmi bianchi, striati, greci e turchi. |
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2. Dettaglio del rivestimento lapideo della facciata di Palazzo Ducale, disegno geometrico su modulo romboidale composta da lastrine di Rosso di Verona, marmo grigio Bardiglio, pietra d’Istria. |
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3. Chiesa di S. Maria del Giglio, particolare del bassorilievo raffigurante la pianta della città di Roma, eseguito in pietra d’Istria. |
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4. Chiesa di S. Maria Assunta dei Gesuiti, dettaglio del pulpito con panneggi scolpiti e realizzati ad intarsio con breccia verde antico su marmo bianco. |
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5. Facciata di Ca’ Dario, rivestita con marmo Pavonazzetto, tondi con inseriti porfidi antichi verdi e rossi, pietre colorate sedimentarie a varia tessitura. |
Cuoi dipinti a Venezia. La carità.
Vanni Tiozzo.
I cuoi dipinti della Carità giacevano dimenticati in un cassone dipinto nella Direzione della Accademia di Belle Arti di Venezia. Il cambio della Direzione, quando successe il prof. Riccardo Rabagliati al prof. Antonio Toniato, impose il riordino dell’ufficio e l’attenzione della dott.ssa Rita Zanchi fece rinvenire un rullo rabberciato di colore marrone dal quale si scorgeva la parte interna dipinta. La gentile signora ne parlò con l’allora decano, il prof. Mario Guadagnino, il quale, ne aveva solo un vago ricordo e propose al Direttore di affidarli al corso di restauro affinché potessero venire meglio conservati; da questo aneddoto inizia il percorso di cui ora vi diamo conto.
Ma prima di parlare di questo interessante apparato decorativo vale la pena di spendere due parole circa l’importanza della tecnica della decorazione su cuoio, soprattutto a Venezia.
Il 19 novembre 1271 troviamo a Venezia il primo statuto dei conciatori. In questo importante documento, scritto in latino, oltre alle norme generali di ordine etico e sulla struttura dell'organismo, si trovano prescrizioni di carattere tecnico: tipi di pelli da impiegare e materie concianti; nonché una prima localizzazione delle concerie, nei paraggi della Giudecca. Le pelli, che non dovevano essere di cavallo o asino, venivano raschiate e lavate, poi passavano nel calcinaio per uno o due giorni. Scolate, si rimettevano nel calcinaio per altri otto giorni, quindi deposte sul cavalletto dove si spelavano accuratamente. Poi si lasciavano in acqua corrente per quattro o cinque ore, si sgocciolavano ed ogni pelle veniva cucita a forma di otre su cui veniva introdotto l'estratto conciante. La concia era fatta con l’estratto di Vallonea (specie di quercia), oppure con foglie di Sommacco bollite (sempre vegetale) nonché con allume (minerale), deponendo le pelli in un tino e tenendole in movimento per quattro o cinque ore. In pratica a Venezia la concia era ottenuta con un procedimento misto, vegetale e minerale.
Dopo la conciatura le pelli venivano poste su cavalletti, si lavavano e si esponevano cospargendole di polvere di vallonea, e qui restavano per circa tre mesi o più. Stavano poi per altrettanto tempo a stagionare in una soffitta asciutta e finalmente erano giudicate pronte per entrare in commercio.
Il cuoio lavorato dallo scorzèr a Venezia era in buona parte soggetto all’esportazione ma serviva anche a rifornire le varie attività presenti in Venezia ossia quelle dei caleghèri, zavatèri, bolzèri, vaginèri (foderi) ed infine anche dei nostri cuoridoro, cioè la produzione dei cuoi dipinti usati per tappezzare pareti, per coprire seggiole, cofani e libri.
L’attività dei Cuoridoro prevedeva la lisciatura delle pelli con un bottone di vetro o con il dente di cinghiale e coperte con colla per applicarvi la foglia metallica; fissate sopra una tavola, si trattavano con fiele di bue, con aceto e gomma, disegnando con pigmenti e con la famosa vernice d’oro ed infine dando rilievo con punzoni (goffratura).
Francesco Griselini ci riporta ulteriori indicazioni dettagliate sulla vernice d’oro: "La vernice, di cui servesi per dorare le foglie d’argento applicate su le pelli, è composta di quattro libbre e mezza di colofonia, di una simile quantità di resina ordinaria, di due libbre e mezzo di sandrace, e di due libbre di aloè: si meschiano queste quattro droghe insieme dopo di aver triturato quelle che sono in pezzi grossi, e si mettono in un vase di terra sopra un buon fuoco di carbone. Si fanno disciorre tutte le droghe di questa spezie di marmita, e vanno mescolandosi con una spatola, affinché si meschino, né si attacchino al fondo. Quando si trovano ben disciolte, si versano sette pinte d’olio di lino nello stesso vase, e colla spatola lo si meschia colle droghe medesime: si fa cuocere il tutto, dimenandolo di tempo in tempo, onde impedire, per quanto si possa, che una spezie di sedimento, il quale formasi, e che non si meschia con l’olio, si attacchi al fondo del vase. Cotta ch’è la vernice, la si passa attraverso un pannolino"
A Venezia la decorazione del cuoio era in uso da molto tempo, difficile è riscontrarne l’esordio, così come pure in Spagna ed in Oriente, a tale proposito numerose sono le disamine circa la provenienza della tecnica, ossia se a Venezia sia giunta dalla Spagna o direttamente dall’Oriente; proposte tutte plausibili ma nessuna con riscontri tali da rendere increndibile l’altra. Certo è che in Spagna l’attività della decorazione dei cuoi era ben sviluppata già nel 711, ossia da quando Cordova fu sede di califfato, da qui deriva infatti la denominazione di "cordovano" usata per indicare la provenienza di questi manufatti, ma altrettanto certo è che Venezia aveva continui scambi con l’Oriente ed era quindi in grado di giungere alla conoscenza della tecnica in modo diretto. Ma prescindendo dal percorso della propagazione di questa singolare tecnica è importantissimo sottolineare come nella città lagunare questa attività ebbe tali progressi da essere oggetto di esportazione negli stessi paesi concorrenti. La particolarità di Venezia era infatti che gli artefici si erano via via scostati dalla mera produzione artigianale per giungere a livelli qualitativi di autentico valore artistico.
Testimonianza di questo alto livello produttivo è senz’altro la presenza, in alto a destra, dell’emblema della Mariegola dei Cuoridoro nel Manifesto dell'arte dei pittori, del 1588.
Lo stesso Zanetti ci ricorda due casi esemplificativi e significativi della qualità artistica di alcune realizzazioni pittoriche su cuoio: "Nel Fondaco de’ Tedeschi, nella stanza de’ Conviti, sonovi all’intorno molte favole ed istorie già dipinte da Paolo (Veronese) sopra cuoi dorati. Le trovò il Boschini guaste molto dagli omeri de’ desinatori. Io le vidi tutte rifatte, e poste più alto. Si osservano tuttavia alcune teste che fan conoscere essere state opere della bellissima maniera dell’autore. Fra esse favole evvi il Giudizio di Paride" ed ancora, parlando di Marco Ricci: "Negli anni virili si pose poi a dipingere a tempera sulle pelli di capretto, ora scure, ora bianche, con gran vaghezza e felicissima verità."
L’attività del Cuoridoro a Venezia aveva contato anche 71 botteghe attive contemporaneamente e il loro guadagno annuo era stimato in 100 mila ducati. L’abilità esecutiva di questi artefici era tale che, nel 1790 quando purtroppo erano rimaste solo quattro botteghe, furono eseguite mille pelli dorate per la stessa Spagna.
Il ricordo di questa florida attività artistica si può ancora scorgere anche nella vecchia toponomastica grazie al ponte, sottoportego e calle, dei Cuoridoro, ora Ponte dei Barcaroli a San Fantin, un luogo dove dovevano essere concentrate alcune botteghe.
Ma torniamo ora ai nostri Cuoi, i quali avevano originaria collocazione nella piccola sala del piano terreno del complesso della Carità, una sala posta ad angolo sul portico di collegamento tra i due campielli ed affacciata sull'ingresso. Una sala con il soffitto decorato a stucchi, dove campeggia il simbolo della Confraternita della Carità e dove si trova una intera parete decorata da un mobile dipinto; le rimanenti parti, eccetto la zoccolatura, erano tutte rivestite dai nostri cuoi. Per la localizzazione dell’ambiente d’origine è risultata utile l’iscrizione presente su un cuoio: "EXIGITE IN CHARITATE / SOLVITE IVSTE". Questo motto fece subito pensare ad un ambiente adibito a funzioni di economato, e ciò faceva il pari con un'altra iscrizione che si è rinvenuta sul lato esterno dell'architrave della sala in questione: "REDITIBVS / PERCIPIENDIS / SVMPTIBVS / EROGANDIS". In questo locale si è poi riscontrata la presenza di tracce di chiodatura relative all’originario ancoraggio nascoste dietro a dei pannelli lignei, è questa l’unica testimonianza fisica sul luogo del parato decorato. La corrispondenza delle misure dei campi delle pareti con le misure desumibili dall’insieme dei fogli di cuoio ha quindi confermato questa ipotesi di collocazione indicando, purtroppo, anche la mancanza di una discreta parte del rivestimento.
L’esecuzione di questa tappezzeria dovrebbe risalire alla seconda metà del Settecento per le analogie pittoriche dei putti a decorazione del sopra porta.
La misurazione dei singoli fogli è stata la prima parte del complesso lavoro di indagine delle caratteristiche esecutive e conservative di questo interessante paramento dipinto, realizzato su numerose pelli dalla misura ciascuna di circa 70/60x40/45 cm., poi assemblati con colla animale con rinforzi in carta sino ad ottenere la misura necessaria per i campi delle pareti della sala.
I pezzi rinvenuti sono stati contrassegnati con lettere dell’alfabeto, che si sono successivamente localizzati nel loro processo di assemblaggio: - pezzo "A", di cm. 140x49, con funzione di sopra porta, composto da due pelli, con la raffigurazione di due putti che si accostano all'anagramma SVM; - i pezzi "B" e "H" che assieme formano un campo di cm. 280x140, composto da otto pelli per il pezzo "H" e due pelli per il pezzo "B", con la raffigurazione di motivi floreali su fondo argento e con intrecci floreali in vernice d'oro, per chiudere questo campo di parete mancherebbero cm. 100x64, nella parte inferiore a ridosso la porta, che dovrebbero essere relativi ad uno scanso per un adattamento dell'arredo ligneo per via del risvolto presente a bordo; - i pezzi "G", "D", "F" e "C", che assieme formano un campo di 175x140 cm., rispettivamente di tre, una, due, e una pelle, con lo stesso motivo del precedente, e con una mancanza di un metro lineare rispetto al campo presente nel muro; - il pezzo "I" di cm. 46x140, composto da due pelli, con la medesima raffigurazione e che dovrebbe trovare collocazione o in una delle due spallette a ridosso le finestre oppure nel campo mutilo dei pezzi precedenti anche se non in continuità non essendovi tracce di giunzione; - il pezzo "L" di cm. 51x140 composto da due pelli, raffigurante tralci in vernice d’oro su fondo argento con fiori rossi e azzurri, questo pezzo costituisce una delle due parti a fianco le finestre; - il pezzo "M", di cm.268x140, composto da dieci pelli con il medesimo motivo del precedente.
Altre caratteristiche esecutive sono offerte dalla presenza di una applicazione, sempre in cuoio decorato, di una ricca mantovana nella parte superiore dei pezzi, ossia dove la tappezzeria finiva in prossimità del cornicione, inoltre la complessa goffratura è offerta da solo quattro impronte di punzoni, sapientemente articolati, di cui uno costituito da un cerchio con raggi della misura di mezzo centimetro, uno con linee diagonali di mezzo centimetro per due centimetri, uno da una serie di linee di un centimetro per un centimetro, uno da un quadrato con attorno dei puntini della stessa misura del precedente ed un ultimo di due per due centimetri costituito da una serie di linee intervallate con dei punti.
L’osservazione dello stato conservativo dei cuoi è stata tuttavia la vera priorità essendo gli stessi in condizioni precarie ed essendo importante non pregiudicare in alcun modo l’opera durante gli interventi.
Il paramento decorativo si presentava molto frammentario, privo di telaio di sostegno e con varie forme di degrado che mettevano a rischio la sua stessa sopravvivenza, oltre che rendere pressoché impossibile la lettura del testo.
I danni più macroscopici erano costituiti da un diffuso degrado del supporto costituito da numerose rotture, abrasioni, degenerazioni biologiche, bruciature e dalla dispersione di alcune giunzioni e fogli, oltre che da una notevole alterazione della parte laminata e dipinta, dovuta sia agli stress fisici durante l’esposizione sia, purtroppo ad un arrotolamento inverso. Purtroppo alcuni errati interventi eseguiti in passato hanno contribuito alla cattiva conservazione oltre che il notevole accumulo di sporco e la naturale alterazione delle lacche.
A contribuire a queste deplorevoli condizioni hanno concorso più cause: quelle biologiche, quelle chimiche e quelle fisiche inerenti il comportamento nel tempo dei materiali usati, l’ambiente di collocazione sfavorevole oltre che l’incuria e l’inettitudine umana in genere.
La disidratazione della tappezzeria era arrivata al punto da rendere il supporto stabilmente deformato ed estremamente fragile: una volta perduta l’elasticità della materia le rotture sono infatti quasi inevitabili poiché le fibre che compongono il cuoio non sono più in grado di consentire lo slittamento plastico e quindi, quando questo subisce una sollecitazione, si producono le fratture. Tuttavia si può realisticamente dire che tale disidratazione fosse complessivamente moderata, così si è riscontrato successivamente con la misurazione del pH, e che solo alcune zone erano investite gravemente da tale fenomeno.
Ad aggravare questa situazione di irrigidimento aveva contribuito anche le strisce di stoffa incollate, nel corso di un precedente intervento di restauro, in corrispondenza delle rotture e lungo i margini frammentati del perimetro, che fu eseguito con una quantità eccessiva di colla animale, la quale con la sua estrema tenacità ha provocato contrazioni preferenziali sul lato di applicazione. Tale adesivo era purtroppo penetrato abbondantemente nel cuoio, procurando tensioni e contrazioni nel momento della sua essiccazione, modificando poi in maniera sostanziale anche le reazioni all’ambiente esterno, così creando notevoli disomogeneità di comportamento tra le parti trattate e le rimanenti con conseguente ulteriore fragilità. In molte parti, purtroppo, si poteva rilevare la presenza di bruciature che avevano forato il cuoio e reso nero e rigido il perimetro del foro, talvolta il fenomeno di alterazione si espandeva anche per una ventina di centimetri. Questo particolare degrado dovrebbe essere dovuto a qualche accidente legato alla illuminazione a candele oltre che a surriscaldamenti di vecchi impianti elettrici.
Tutta la superficie dipinta presenta screpolature della pigmentazione e della lamina che testimoniano come la tappezzeria fosse stata arrotolata più volte, purtroppo molte volte al rovescio, ossia con la parte decorata verso l’interno.
Lo sporco sulle due facce è costituito da un considerevole spessore di polvere untuosa, fortemente penetrata nelle fibre della pelle, offuscando di conseguenza sia la policromia, rendendo poco leggibile il disegno nel suo insieme, sia rendendo le fibre ancora più fragili. Alla scarsa leggibilità del recto concorre però anche qualche stesura d’olio stesa con l’intento di dare immediata leggibilità alla superficie offuscata dalle ossidazioni a cui si deve aggiungere anche la naturale alterazione delle originali lacche che, notoriamente, subiscono un macroscopico fenomeno di scurimento per azione dell’esposizione alla luce.
L’analisi dello stato di conservazione si è effettuato oltre che con l’osservazione diretta delle superfici anche con l’ausilio del microscopio, della riflettografia ultravioletto, della riflettografia infrarosso, e del rilevamento del pH, ottenuto per estrazione con un rapporto in peso 1/20 (cuoio/acqua distillata neutra). In tutte le indagini svolte non si è rilevato fortunatamente niente di particolarmente grave, lo stesso valore del pH, misurato in 4,5, risulta essere indice di uno stato conservativo di conservazione delle fibre complessivamente non allarmate.
L’intervento di restauro è stato impostato, con l’ausilio dell’Istituto Centrale per il Restauro e della Soprintendenza per i Beni Artistici e Storici di Venezia, nell’ottica della minore invasività possibile e forse potrà sembrare persino banale per la sua semplice esemplificazione, tuttavia la modulazione e l’attenzione che sono necessarie per la corretta esecuzione di queste semplici operazioni abbisognano di molta più attenzione che un intervento più diffuso e generalizzato.
L’elevata porosità del supporto hanno innanzitutto imposto particolare prudenza nell’impiego di soluzioni idriche, l’impregnazione della pelle con acqua può infatti provocare macchie scure per la solubilizzazione dei tannini, inoltre in fase di asciugatura può causare un indesiderato irrigidimento delle fibre.
Si è quindi effettuata una prima fase di pulitura con l’asportazione dal verso, dei depositi di polvere, nonché delle toppe, in corrispondenza di tagli e lacune, dei residui di colle, mediante un’accurata azione meccanica con gomme in polvere e bisturi. Nella rimozione di queste incrostazioni, laddove le toppe offrivano copertura alle asperità del collante, si sono rinvenuti anche alcuni insetti.
L’operazione di pulitura è proseguita sul recto con la rimozione dei depositi di polvere e delle sostanze grasse, utilizzando dapprima White spirit e Clorotene. Tuttavia l’alterazione cromatica della superficie decorata non si limitava a tali sostanze ma doveva essere relativa anche a stesure d’olio, quindi non ottenendo risultati significativi con le modalità già accennate è stata effettuata una rapida tamponatura della superficie con la sola schiuma di un tensioattivo non ionico, Tween 20, facendo bene attenzione a detergere prontamente la parte trattata con acqua distillata senza che l’operazione dovesse dar luogo ad impregnazione delle fibre del cuoio. Tale operazione è stata quindi accuratamente limitata alle parti di cuoio protette da colori e lamine, escludendo tutte le parti abrase dove le fibre erano a nudo; tuttavia, per evitare la penetrazione delle sostanze nel supporto, è essenziale soprattutto usare la minima quantità indispensabile di prodotto.
Il consolidamento dei fogli è stato portato avanti curando la adesione dei distacchi tra i singoli fogli nonché la riadesione dei laceri, questa operazione è stata condotta in modo localizzato con l’uso di una resina acrilica, Lascaux 498, previa pulizia delle parti da congiungere e messa in pressione delle parti trattate curando di interporre tra l’opera e il piano del materiale isolante, una pellicola di Melinex.
Sempre con fini di consolidamento, pur avendo anche valenza integrativa, sono state stuccate le lacune di ridotte dimensioni con un impasto a base di polpa di carta e metilcellulosa, Tylose MH 300, intonato cromaticamente alla materia della struttura originale con pigmenti di terra.
Durante l’esecuzione di questa laboriosa operazione, consci delle difficoltà strutturali presenti in altri fogli non ancora trattati, si sono eseguiti pure dei campioni, fuori opera, di impasto come quello già indicato da confrontare con uno uno più tenace, ma altrettanto reversibile, a base di resina acrilica, Lascaux 498, addensata con un polimero acrilico reticolato, Carbopol, sempre pigmentato, con l’intento di verificarne, in un secondo momento, sia la stabilità che le caratteristiche fisico meccaniche in raffronto con il tradizionale impasto che generalmente si impiega anche per i materiali cartacei.
La preoccupazione di poter rendere le integrazioni più stabili e tenaci è funzionale a sostenere le tensioni che una materia così pesante subisce per queste dimensioni in relazione alla volontà di evitare la loro foderatura, evitare questa operazione è stato infatti indicato come priorità dall’ICR per evitare una imbalsamazione del manufatto oltre che per evitare un trattamento differenziato tra pezzi più piccoli e più conservati e i pezzi più grandi e mal conservati. Si ritiene importante sottolineare che questa sperimentazione che tanto ci è interessato non è stata condotta sull’opera ma su dei campioni realizzati fuori opera proprio con intento sperimentale e senza ledere la stabilità del documento storico.
Per assicurare le pelli ad un sostegno, così da consentire la corretta tensione, a queste è stato applicato un tessuto sintetico, 100% poliestere, nel margine perimetrale per una profondità di cinque centimetri, che è poi nascosto sul verso dal telaio, con la medesima resina acrilica usata per il consolidamento. Durante questa operazione si è curato di tagliare il tessuto nella parte incollata con tagli perpendicolari al margine in modo da consentire una tensione del cuoio omogenea, senza ritenzioni e contrazioni perimetrali.
La tela è stata quindi assicurata ad una struttura di sostegno in legno espansibile con cunei agli angoli avendo cura di tendere omogeneamente il cuoio su tutta la superficie, inoltre è anche in fase di studio l’inserimento di molle di tensione automatica al posto dei cunei, una proposta semplice, in linea con le nostre capacità tecnologiche, ma più che sufficiente per una adeguata funzionalità.
La presentazione estetica è stata condotta a tono con colori a vernice in tutte le piccole mancanze, nonché in sotto tono nelle abrasioni più estese, con l’intento di valorizzare al meglio la percezione dell’unità potenziale di questa decorazione senza prevaricare, nemmeno localmente, la consistenza materiale del documento con grandi quantità di materia integrativa.
La protezione finale delle lamine, delle lacche e delle vernici d’oro è stata effettuata con l’applicazione di una resina acrilica in acetone, Paraloid B72 al 3%, curando che la superficie non giungesse ad un ispessimento materico tale da procurare stress sulla stratificazione decorata, cercando di evitare la sopraffazione della morfologia materica del decoro con l’ispessimento resinoso oltre che evitare un eccessivo riflesso pur consentendo una adeguata saturazione cromatica ed un idoneo strato protettivo.
Si ringraziano:
la Soprintendenza per i Beni Artistici e Storici di Venezia, ora al Polo Museale.
Il Soprintendente, la Dott.ssa Giovanna Nepi Scirè
Dott.ssa Francesca De Luca.
L’Istituto Centrale per il Restauro di Roma
Dott.ssa Mariabianca Paris
Dott.ssa Lidia Rissotto
Gli allievi del corso di restauro che si sono occupati:
Ronina Rukonic
Giulia Pattaro
La Dr.ssa Rita Zanchi e il prof. Mario Guadagnino dell’Accademia che hanno rinvenuto i cuoi.
1. Venezia. Complesso della Carità. Il paramento in cuoio dipinto come rinvenuto. |
2. Venezia. Complesso della Carità. Cuoio dipinto particolare del degrado. |
3. Venezia. Complesso della Carità. Proposta di assemblaggio del paramento in cuoio dipinto. Parete ovest. |
2. Venezia. Complesso della Carità. Proposta di assemblaggio del paramento in cuoio dipinto. Parete nord e est. |
3. Venezia. Complesso della Carità. Pezzo "A" , sovraporta saggio pulitura |
3. Venezia. Complesso della Carità. Pezzo "A" , sovraporta schema rilevamento. |
4. Venezia. Complesso della Carità. Pezzo "A" , sovraporta prima del restauro. |
5. Venezia. Complesso della Carità. Pezzo "A" , sovraporta dopo del restauro. Questo pannello è stato esposto alla Mostra "Venus Devoille" per il Semestre italiano di Presidenza Unione Europea, Bruxelles, Palais des Beaux Arts, 10 ottobre 2003 10 gennaio 2004. |
Bibliografia sulla produzione dei cuoi e della produzione a Venezia:
De Bruslons Savary J., Dictionnaire universel du commerce, d’histoire naturelle et des arts et métiers, Cramer et Philibert, Ginevra 1750. Edizione consultata nella traduzione italiana, rivista e ampliata: Dizionario di commercio, Pasquali, Venezia 1770-1771, 4 volumi (in particolare le voci Cordovano e Cuoio nel vol. II; Marrocchino e Pellajo nel vol. IV).
Fougeroux De Bondaroy M., Art de travailler les cuirs dorés ou argentés, Parigi 1762.
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Le illustrazioni sono degli autori