CAGLIOSTRO, LA VITA

 

Innumerevoli biografie hanno cercato di fare chiarezza sul misterioso avventuriero che caratterizzò il secolo dei Lumi: taumaturgo, "amico dell’Umanità", cultore e divulgatore delle scienze esoteriche oppure scaltro imbonitore, comune ciarlatano? Il quesito, finora, non ha avuto risposta certa: il mistero che da sempre avvolge le molteplici attività svolte da Cagliostro contribuisce a tenere vivo l’interesse su di lui.

Giuseppe Balsamo nacque a Palermo il 2 giugno 1743, dal mercante Pietro Balsamo e da Felicita Bracconieri. A causa delle modeste condizioni economiche, alla morte del padre fu affidato al seminario di S. Rocco a Palermo. Nel 1756 entrò come novizio presso il convento dei Fatebenefratelli di Caltagirone per essere affiancato al frate speziale, dal quale apprese i primi rudimenti di farmacologia e chimica. Nel 1768 sposò a Roma Lorenza Feliciani, avvenente e giovanissima fanciulla dell’ età di quattordici anni. Fino al momento del matrimonio non si hanno altre notizie documentate: è presumibile che abbia vissuto di espedienti durante la gioventù. D’altra parte, lo stesso Cagliostro dichiarò pubblicamente di provenire da paesi sconosciuti, di aver trascorso gli anni dell’infanzia alla Mecca e di aver conosciuto gli antichi misteri dei sacerdoti egizi attraverso gli insegnamenti del sapiente Altotas. Sarà monsignor Giuseppe Barberi, fiscale generale del Sant’Uffizio, che nel suo Compendio sulla vita e sulle gesta di Giuseppe Balsamo, redatto nel 1791, smentirà queste dichiarazioni divenendo uno dei suoi più accaniti detrattori. Secondo il Barberi, Cagliostro avrebbe esercitato truffe e mistificazioni anche a Barcellona, Madrid e Lisbona con l’aiuto della maliarda Lorenza, che irretiva uomini facoltosi con arti sottili che andavano dall’avvenenza fisica alla promessa di miracolose guarigioni grazie a polveri e a formule magiche.

Risale al 1771 il primo viaggio a Londra della giovane coppia: sembra che là il Balsamo sia finito in prigione per debiti e, per restituire le somme dovute, fu costretto a lavorare come decoratore. Nel 1772 a Parigi, Lorenza si invaghì dell’avvocato Duplessis e, a causa di questa relazione, fu rinchiusa nel carcere di Santa Pelagia, la prigione delle donne di malaffare. La riconciliazione non tardò ad avvenire e i coniugi, dopo varie peregrinazioni in Belgio e in Germania, rientrarono a Palermo e poi a Napoli. Nello stesso anno, il Balsamo si recò a Marsiglia e si cimentò nelle vesti di taumaturgo: sembra che, dietro lauto compenso, fece credere ad un innamorato di poter riacquistare il vigore fisico mediante l’attuazione di alcuni riti magici. Scoperto l’imbroglio, fu costretto a fuggire e a cercare riparo in Spagna, a Venezia, quindi ad Alicante per terminare la fuga a Cadice. Ritornò a Londra nel 1776, presentandosi come conte Alessandro di Cagliostro, dopo aver fatto uso di nomi altisonanti accompagnati da fantasiosi titoli quali conte d’Harat, marchese Pellegrini, principe di Santa Croce: durante questo soggiorno, insieme alla moglie, divenuta nel frattempo la celestiale Serafina, viene ammesso alla loggia massonica "La Speranza". Da questo momento la vicenda di Cagliostro può essere ricostruita sulla base di documenti ufficiali e non su libelli diffamatori fatti circolare dai nemici più acerrimi. La massoneria gli offrì ottime opportunità per soddisfare ogni ambizione sopita. Grazie alle vie da essa indicate e alle cognizioni acquisite, egli poté riscuotere successi appaganti moralmente ed economicamente che lo portarono, dal 1777 al 1780, ad attraversare l’Europa centro-settentrionale, dall’Aia a Berlino, dalla Curlandia a Pietroburgo e alla Polonia. Il nuovo rito egiziano di cui Cagliostro era Gran Cofto, aveva affascinato nobili ed intellettuali con le sue iniziazioni e pratiche rituali che prevedevano la rigenerazione del corpo e dell’anima. Grande risalto ebbe, inoltre, la figura di Serafina, presidentessa di una loggia che ammetteva anche le donne, con il titolo di regina di Saba. Alla corte di Varsavia, nel maggio del 1780, ricevette un’accoglienza trionfale tributata dal sovrano in persona: la sua fama di alchimista e guaritore aveva raggiunto le vette più alte!

 

Considerevole diffusione ebbero in quegli anni l’elixir di lunga vita, il vino egiziano e le cosiddette polveri rinfrescanti con i quali Cagliostro compì alcune portentose guarigioni curando, spesso senza alcun compenso, i numerosi ammalati che, nel 1781, gremivano la residenza di Strasburgo. Il comportamento filantropico, la conoscenza di alcuni elementi del magnetismo animale e dei segreti alchemici, la capacità di infondere fiducia e, al tempo stesso, di turbare l’interlocutore, penetrarlo con la profondità dello sguardo, da tutti ritenuto quasi soprannaturale: queste le componenti che contribuirono a rafforzare il fascino personale e l’alone di leggenda e di mistero che accompagnarono Cagliostro fin dalle prime apparizioni. Poliedrico e versatile, conquistò la stima e l’ammirazione del filosofo Lavater e del gran elemosiniere del re di Francia, il cardinale di Rohan, entrambi in quegli anni a Strasburgo. Tuttavia, Cagliostro raggiunse l’apice del successo a Lione, dove giunse dopo una breve sosta a Napoli e dopo aver risieduto più di un anno a Bordeaux con sua moglie. A Lione, infatti, egli consolidò il rito egiziano, istituendo la "madre loggia", la Sagesse triomphante, per la quale ottenne una fiabesca sede e la partecipazione di importanti personalità. Quasi nello stesso momento giunse l’invito al convegno dei Philalèthes, la prestigiosa società che intendeva appurare le antiche origini della massoneria. A Cagliostro non restava che dedicarsi anima e corpo a questo nuovo incarico, parallelamente alla sua attività taumaturgica ed esoterica, ma il coinvolgimento nell’affaire du collier de la reine lo rese protagonista suo malgrado, insieme a Rohan e alla contessa Jeanne Valois de la Motte, del più celebre ed intricato scandalo dell’epoca, il complotto che diffamò la regina Maria Antonietta e aprì la strada alla rivoluzione francese. Colpevole solo di essere amico di Rohan e di aver consigliato di rivelare la truffa al sovrano, Cagliostro, accusato dalla de la Motte, artefice di ogni inganno, fu arrestato e rinchiuso con sua moglie nella Bastiglia, in attesa del processo. Durante la detenzione, ebbe modo di constatare quanto grande fosse la popolarità raggiunta: furono organizzate manifestazioni di solidarietà e, il giorno della scarcerazione, fu accompagnato a casa dalla folla acclamante. Nonostante il Parlamento di Parigi avesse appurato l’estraneità di Cagliostro e di sua moglie alla vicenda, i monarchi ne decretarono l’esilio: la notizia giunse a pochi giorni dalla liberazione, costringendo il "Gran Cofto" a riparare frettolosamente a Londra. Da qui scrisse al popolo francese, colpendo il sistema giudiziario e preannunciando profeticamente la caduta del trono capetingio e l’avvento di un regime moderato. Il governo francese si difese opponendo gli scritti di un libellista francese Théveneau de Morande che, stabilita la vera identità di Cagliostro e di Serafina, raccontò sulle gazzette le peripezie e i raggiri dei precedenti soggiorni londinesi, al punto che l’avventuriero decise di chiedere l’ospitalità del banchiere Sarrasin e di Lavater in Svizzera. Rimasta a Londra, Serafina fu persuasa a rilasciare compromettenti dichiarazioni sul marito che la richiamò in Svizzera in tempo per farle ritrattare tutte accuse.

 

Tra il 1786 e il 1788 la coppia cercò di risollevare le proprie sorti compiendo vari viaggi: Aix in Savoia, Torino, Genova, Rovereto. In queste città Cagliostro continuò a svolgere l’attività di taumaturgo e ad istaurare logge massoniche. Giunto a Trento nel 1788, fu accolto con benevolenza dal vescovo Pietro Virgilio Thun che lo aiutò ad ottenere i visti necessari per rientrare a Roma: pur di assecondare i desideri di Serafina, era disposto a stabilirsi in una città ostile agli esponenti della massoneria, considerati faziosi e reazionari. Cagliostro, poi, preannunziando la presa della Bastiglia, carcere simbolo dell’assolutismo monarchico, e la fine dei sovrani di Francia, destava particolare preoccupazione, alimentata anche dalla sua intraprendenza negli ambienti massonici. Non trovando terreno fertile nei liberi muratori, che oramai guardavano a lui solo come ad un volgare lestofante, Cagliostro tentò di costituire anche a Roma una loggia di rito egiziano, invitando il 16 settembre 1789 a Villa Malta prelati e patrizi romani. Le adesioni furono soltanto due: quella del marchese Vivaldi e quella del frate cappuccino Francesco Giuseppe da San Maurizio, che fu nominato segretario. L’iniziativa, pur non conseguendo l’esito sperato, fu interpretata come una vera e propria sfida dalla Chiesa che, attraverso il Sant’Uffizio, sorvegliò con maggior zelo le mosse dello sprovveduto avventuriero.

Il pretesto per procedere contro Cagliostro fu offerto proprio da Lorenza che, consigliata dai parenti, aveva rivolto al marito accuse molto gravi durante la confessione: era stata indotta a denunciarlo come eretico e massone. Cagliostro sapeva bene di non potersi fidare della moglie, che in più di un’occasione aveva dimostrato scarso attaccamento al tetto coniugale, e per questo sperava di poter rientrare in Francia, essendo caduta la monarchia che lo aveva perseguitato. A tal fine scrisse un memoriale diretto all’Assemblea nazionale francese, dando la massima disponibilità al nuovo governo. La relazione venne intercettata dal Sant’Uffizio che redasse un dettagliato rapporto sull’attività politica ed antireligiosa del "Gran Cofto": papa Pio VI, il 27 dicembre 1789, decretò l’arresto di Cagliostro, della moglie Lorenza e del frate cappuccino.

Ristretto nelle carceri di Castel Sant’Angelo sotto stretta sorveglianza, Cagliostro attese per alcuni mesi l’inizio del processo. Al consiglio giudicante, presieduto dal Segretario di Stato cardinale Zelada, egli apparve colpevole di eresia , massoneria ed attività sediziose. Il 7 aprile 1790 fu emessa la condanna a morte e fu indetta, nella pubblica piazza, la distruzione dei manoscritti e degli strumenti massonici. In seguito alla pubblica rinuncia ai principi della dottrina professata, Cagliostro ottenne la grazia: la condanna a morte venne commutata dal pontefice nel carcere a vita, da scontare nelle tetre prigioni dell’inaccessibile fortezza di San Leo, allora considerato carcere di massima sicurezza dello Stato Pontificio. Lorenza fu assolta, ma venne rinchiusa, quale misura disciplinare, nel convento di Sant’Apollonia in Trastevere dove terminò i suoi giorni. Del lungo periodo di reclusione, iniziato il 21 aprile 1791 e durato più di quattro anni, rimane testimonianza nell’Archivio di Stato di Pesaro, ove sono tuttora conservati gli atti riguardanti l’esecuzione penale ed il trattamento, improntato a principi umanitari, riservato al detenuto.

In attesa di segregare adeguatamente il prigioniero, egli fu alloggiato nella cella del Tesoro, la più sicura ma anche la più tetra ed umida dell’intera fortezza.

In seguito ad alcune voci sull’organizzazione di una fuga da parte di alcuni sostenitori di Cagliostro, nonostante fossero state prese tutte le misure necessarie per scongiurare qualunque tentativo di evasione, il conte Semproni, responsabile in prima persona del prigioniero, decise il suo trasferimento nella cella del Pozzetto, ritenuta ancor più sicura e forte di quella detta del Tesoro.

Il 26 agosto 1795 il famoso avventuriero, oramai gravemente ammalato, si spense a causa di un colpo apoplettico. La leggenda che aveva accompagnato la sua fascinosa vita si impossessò anche della morte: dai poco attendibili racconti sulla sua presunta scomparsa giunti fino ai giorni nostri, è possibile intravedere il tentativo, peraltro riuscito, di rendere immortale, se non il corpo, almeno le maliarde gesta di questo attraente personaggio.

 

L’INCANTESIMO ALCHEMICO

L’alchimia, ovvero la pretesa scienza che si riteneva permettesse di convertire i metalli vili in nobili e di creare medicamenti atti a guarire ogni malattia e a prolungare la vita oltre i termini naturali, fu praticata con particolare dedizione da Cagliostro. Attirato da tutto ciò che potesse solleticare il curioso intelletto, ansioso di accedere alle nuove correnti, alle dottrine più originali, alle teorie filosofiche provenienti dall’Oriente e per questo maggiormente inficiate da elementi magici e cabalistici (in Europa vi erano moltissime logge dedite all’ermeneutica alchemica), egli fu senza dubbio interprete dello spirito innovativo che caratterizzò il XVIII secolo. La fortuna di Cagliostro, infatti, è indissolubilmente legata alla sua capacità di incarnare complesse e svariate personalità: mago, medico, veggente, filantropo. Poiché nel Settecento il bisogno di giungere il più vicino possibile alla comprensione del soprannaturale aveva contagiato tutte le classi sociali (affascinate dal culto per il meraviglioso, prodotto dell’Illuminismo, del Saturnismo e dell’ermeneutica alchemica), Cagliostro decise di svolgere la determinante funzione di divulgatore di una scienza che prima di lui era riservata a pochi iniziati, essendo considerata astrusa e proibita. Per poter ricoprire il ruolo di esoterista e di uomo di pensiero egli dovette, dunque, vestire i panni del mago-veggente ma anche del medico-taumaturgo. Le doti taumaturgiche, poi, nel XVIII secolo venivano spesso messe in relazione con quelle alchemiche e di conseguenza la figura dell’alchimista assunse la dignità e il fascino di chi conserva il più profondo segreto della conoscenza, necessario per destreggiarsi nelle teorie relative all’immortalità dell’anima e alla metempsicosi, alimentate nel secolo di Cagliostro da quei filosofi che erano interessati ad un’indagine di carattere spiritualista e materialista insieme.

Cagliostro, dunque, ascende al rango di sapiente, consapevole sia dell’importanza della materia di cui conosce i misteri sia del rispetto delle regole che governano deontologicamente questa scienza: la sua proverbiale filantropia si ispirò, probabilmente, proprio ai principi della filosofia alchemica che impedivano ogni genere di speculazione sulla conoscenza di metodologie destinate esclusivamente al miglioramento delle condizioni di vita dell’uomo. Le cognizioni alchemiche di Cagliostro non si risolvono, quindi, nel puro e semplice procedimento empirico per la preparazione di unguenti e medicamenti, ma aspirano al raggiungimento di una gnosi esoterica che consenta la massima elevazione spirituale.

Dalla abbondante quanto inattendibile letteratura sulla vita di Cagliostro, abbiamo appreso che il suo primo maestro in campo medico e alchemico fu Altotas, un personaggio alquanto oscuro di dubbia provenienza che morì a Malta nel 1767. Sembra che costui fosse esperto di medicina popolare e dell’arte di tingere e trattare i metalli.

 

L’insegnamento che Cagliostro ne ricavò fu certamente legato alla semplice empiria: agli inizi della sua carriera, quando ancora si faceva chiamare Giuseppe Balsamo, l’alchimia fu un mero espediente che gli consentì di fare soldi con la vendita di alcuni "segreti". Dopo il 1772, quando, in seguito all’adesione alla massoneria, egli aveva assunto il nome di Alessandro conte di Cagliostro, incontrò il monaco benedettino Dom Antoine Pernety, uomo di vasta erudizione che era stato chiamato alla corte di Federico II di Prussia, dove aveva conosciuto importanti uomini di cultura che lo avevano iniziato alle scienze ermetiche. Sembra che Pernety abbia poi fondato un proprio rito del quale prese parte lo stesso Cagliostro, suo convinto sostenitore. Proprio da questa eccellente frequentazione, Cagliostro apprese che non era possibile interpretare l’alchimia come una prassi fondata su storte ed alambicchi, ma che invece bisognava intenderla come una scienza ermeneutica che ricerca il segreto della pietra filosofale, con l’ausilio di antiche scritture egiziane e greche. Di conseguenza, egli si appropriò della funzione di custode degli arcani della natura, celati negli antichi caratteri geroglifici. Infatti, secondo quanto tramandato da Ermete Trismegisto, solo pochi aderenti alla filosofia alchemica potevano essere considerati dagli antichi saggi egizi veramente meritevoli di partecipare alla conoscenza più profonda, opportunamente velata da enigmi e linguaggi di difficile interpretazione. Solo chi possiede il più autentico spirito alchemico sarà in grado di comprendere la verità nascosta in fatti apparentemente bizzarri, inverosimili, talvolta addirittura antitetici e fantastici e di impiegarla per scopi benefici. Cagliostro, aderendo a questi concetti, incarnò agli occhi del suo secolo la figura che compendiava in sé l’antica saggezza dell’ermeneuta e l’abilità pratica dell’empirista. Inoltre, riuscì a soddisfare il bisogno collettivo di fantasticare su tutto ciò che era incognito, inesplorato: fu proprio la fantasia popolare a creare il mito del conte alchimista, detentore della massima sapienza, conseguita attraverso viaggi in terre lontane che, opportunamente vagliati, risulteranno essere per lo più frutto dell’immaginazione.

Eppure è pervenuta fino a noi una tradizione che ci parla di un uomo proveniente da paesi sconosciuti in cui avrebbe vissuto in epoche indefinibili, che avrebbe compiuto viaggi favolosi: la Mecca, il Collegio di Salomone fondato dalla regina di Saba, l’antica Tebaide, la torre di Babele, il monte Ararat, dove avrebbe visto i resti dell’arca di Noè. Grazie a questi contatti, Cagliostro avrebbe acquisito profonde cognizioni nelle arti più nobili (spagirica, astrologia, interpretazione dei sogni, alchimia) che, successivamente, esercitò nelle più importanti corti d’Europa, raggiungendo così altissima fama: lo studio della sua casa parigina di Rue Saint-Claude diventerà il luogo in cui verranno ammessi pochi eletti a presenziare le cerimonie rituali; la popolazione potrà solo fantasticare sulle attività misteriche, sbirciando le rare apparizioni pubbliche del celebre occultista. Presentandosi, dunque, come depositario dell’antica sapienza ermetica, Cagliostro negherà la "scienza della storia" di Gian Battista Vico, opponendo alla concezione secondo la quale l’uomo può conoscere solo ciò di cui è autore, e cioé la storia e non la natura, creata da Dio, la teoria che lasciava alla storia la possibilità di presentare dei vuoti, costituiti da eventi non spiegabili razionalmente ma intellegibili solo a chi fosse capace di compiere un percorso intriso di rituali che avrebbero consentito di penetrare con gli occhi della mente spazi infiniti.

 

IL SODALIZIO MASSONICO

 

Il famoso romanzo di Alexandre Dumas dedicato a Cagliostro (il titolo originale è Joseph Balsamo e costituisce il primo libro del ciclo dumasiano dei Mémoire d’un médecin), ha inizio con la descrizione di un rito massonico: sul monte Tonnerre, in una notte illuminata da un suggestivo corteo di fiaccole, un affascinante viaggiatore, dopo aver raccontato le fantastiche gesta della propria vita e dopo aver superato straordinarie prove di coraggio e lealtà, si rivelerà ai seguaci di una loggia massonica come il capo supremo, il "Grande Cofto". Cagliostro, dunque, come traspare fin dal prologo del romanzo, rifiuta la religiosità istituzionale e sceglie un percorso alternativo, fatto di credenze mistiche, esoteriche ed ermetiche che, ispirandosi al bisogno generale di libertà e giustizia, erano confluite nelle più importanti logge massoniche d’Europa.

L’ideologia muratoria ebbe nel Settecento una travolgente e rapida propagazione, come testimonia l’irrefrenabile incremento di ordini e riti ispirati ad antiche fonti sapienziali e ad accattivanti filosofie esoteriche. La fusione di gnosi e rito misterico, chiaramente percepibile fin dal procedimento iniziatico, aveva dato vita ad un insieme di verità di difficile codificazione, sopravvissute alla rovina e all’oblio delle grandi civiltà del passato che le avevano originate, raggiungibili solo da alcuni prescelti. Per questo la tradizione massonica fu insignita di un’aureola salvifica in grado di appagare l’intimo bisogno degli accoliti che, in quanto eletti, svolgevano il delicato compito di sottrarre la conoscenza dei segreti allo scempio dei profani: l’adesione alla massoneria comportava l’apprendimento di cognizioni di carattere teurgico-cabalistico che consentivano di sviluppare una certa padronanza dell’occulto. Tuttavia, a chi osservava questo modello associativo senza però farne parte, sembrava predominante il senso di solidarietà e l’appoggio che gli affiliati erano soliti scambiarsi nei momenti di difficoltà, piuttosto che la conservazione e la trasmissione ai nuovi fratelli dei sacri misteri. Basandosi, dunque, su ferree regole di riservatezza suggellate da un inviolabile giuramento, la massoneria sviluppò una struttura settaria, caratterizzata da un’appartenenza fraterna, in grado di superare qualunque dissenso: commercianti, banchieri, uomini di cultura e d’affari riconobbero nell’associazionismo muratorio la via più rapida ed efficace per raggiungere le vette della scala sociale.

 

A Londra (1776), Cagliostro aveva aderito alla loggia "La Speranza", ottenendo prestigio e notorietà: strinse solide amicizie con gli stranieri e i borghesi che il fascinoso mondo massonico aveva attratto, venendo a contatto con le idee di tolleranza religiosa e di libertà intellettuale propugnate dalla massoneria inglese e con i segreti dei cavalieri templari, custoditi dalla massoneria degli "alti gradi". Prendendo spunto da un antico manoscritto inglese, diede inizio alla massoneria di rito egiziano, basata su pratiche rituali che avevano come scopo la rigenerazione del corpo e dell’anima. Della loggia potevano fare parte tutti gli iscritti alla massoneria ordinaria, sia uomini che donne: Cagliostro, il Grande Cofto, era a capo della loggia, mentre Lorenza, divenuta la contessa Serafina, reggeva le assemblee femminili con il titolo di "Regina di Saba".

Il successo riscosso fu enorme: Cagliostro, che nel fraternizzare massonico aveva visto un canale di promozione e legittimazione sociale con il quale non interferivano la provenienza territoriale, l’ideologia politica o le attività connesse al ceto, aveva saputo tingere di mistero gli avvenimenti riguardanti la sua vita, costruendosi un passato fatto di epoche remote, avventurosi viaggi al limite dei territori conosciuti, ricerche ed esperimenti basati sulla cabala ebraica, sulla negromanzia e sulla teurgia. Nel 1784 ebbe l’occasione di partecipare al convegno dei Philalèthes, un’associazione massonica che, vantando tra i propri seguaci numerosi ricercatori esoterici, voleva indagare sulle origini della Libera Muratoria. Tuttavia, pretendendo umilianti atti di sottomissione al rito egiziano, egli costrinse i Philalèthes a non dare seguito all’invito: la credibilità del Gran Cofto cominciava a vacillare, i massoni che fino a quel momento avevano avuto in lui una fiducia incondizionata decisero di prendere le dovute distanze dal maestro che volle ugualmente celebrare la fondazione della loggia egiziana Isis con una solenne cerimonia cui presero parte nobili, ecclesiastici e militari. Dell’evento si parlò a lungo, fino a quando l’affaire du collier non giunse ad oscurare la notorietà faticosamente guadagnata presso le raffinate e colte corti dell’epoca. Da quel momento la massoneria di Cagliostro venne interpretata come un qualcosa di privato, mancante di un valido spessore culturale, traducibile in una setta dedita a pratiche contro l’ordine divino e naturale che rivendicava la libertà di associazione e di parola. La Chiesa dogmatica, quella che Cagliostro aveva forse inconsapevolmente contrastato, intervenne implacabilmente, facendo ricorso a tutti gli strumenti di persecuzione, primo fra tutti il Sant’Uffizio, di fronte al quale si cercò di sminuire fortemente proprio l’attività massonica al fine di sfuggire alle accuse di sedizione, magia, deismo ed eresia. Se la difesa di Cagliostro fosse stata condotta cercando di avvalorarne idee e dottrine, probabilmente non sarebbe giunta fino a noi la tradizione che lo vuole ciarlatano e mallevadore.

 

L’INCONTRO CON CASANOVA

 

Nel 1769, Giacomo Casanova (Venezia, 1725-Boemia, 1798) incontra per la prima volta Cagliostro e la moglie Lorenza ad Aix-en-Provence, mentre è ancora convalescente a causa di una terribile pleurite. Di ritorno da un faticoso pellegrinaggio a San Giacomo di Campostella in Galizia, dove erano giunti viaggiando sempre a piedi e vivendo di elemosina, i coniugi Balsamo (con questo nome, infatti, Casanova li conobbe), si erano fermati in quella città per rifocillarsi e riprendere il cammino verso Torino, dove avrebbero fatto visita al Santo Sudario. L’incontro è narrato nel capitolo CXXX della Storia della mia vita, redatta negli anni 1789-1790 quasi come passatempo terapeutico dopo una grave malattia e divenuta, insieme alle Memorie, uno degli scritti più interessanti per l’attendibile contenuto autobiografico e per la dilettevole vena polemica e satirica: […] Un giorno a tavola il discorso cadde sopra un pellegrino ed una pellegrina che erano giunti da poco. Essi erano Italiani e venivano a piedi da San Giacomo di Campostella, in Galizia; e dovevano essere persone di alto rango perché arrivando in città avevano distribuito abbondanti elemosine.

Si diceva che la pellegrina doveva essere molto bella, di circa diciotto anni, e che, molto stanca, appena arrivata, era andata a dormire. Il pellegrino e la pellegrina abitavano lo stesso albergo; il che ci rese tutti molto curiosi. Nella mia qualità di italiano dovetti mettermi alla testa della brigata per andare a fare una visita a quei due personaggi che dovevano essere due fanatici o due bricconi.

Trovammo la pellegrina sprofondata in una poltrona con l’aria di una persona affranta dalla fatica. Ella era singolarmente interessante per la giovane età che dimostrava, per la sua rara bellezza velata da una espressione di strana malinconia, e per un crocifisso di metallo giallo, lungo sei pollici, che teneva tra le mani. Al nostro apparire ella posò il crocifisso e si alzò in piedi per farci una graziosa accoglienza. Il pellegrino, occupato ad attaccare delle conchiglie al suo mantello di tela cerata, non si mosse. Posando gli sguardi sulla sua donna, parve volerci dire che non dovevamo occuparci che di lei. Dimostrava ventiquattro o venticinque anni. Era basso, ma ben fatto: sulla faccia, quasi spettrale, aveva i tratti dell’arditezza, della sfrontatezza, del sarcasmo e della bricconeria. Il volto della sua donna, al contrario, rivelava la nobiltà, la modestia, l’ingenuità la dolcezza, e quel pudore timido che dà tanta grazia alle giovani donne. Quei due esseri, che non parlavano francese se non per quanto era loro indispensabile per farsi capire, respirarono quando rivolsi la parola in italiano. La pellegrina, quantunque non ce ne fosse bisogno perché la sua bella parlata lo rivelava a sufficienza, mi disse che era romana. Il suo compagno mi parve napoletano o siciliano. Il suo passaporto, datato da Roma, lo qualificava col nome di Balsamo. Ella si chiamava Serafina Feliciani, nome che non cambiò mai; mentre il suo compagno lo ritroveremo dopo dieci anni sotto quello di Cagliostro. [ ] L’indomani il marito di costei venne a chiedermi se volevo salire a colazione con loro e se preferivo che essi scendessero da me. Sarebbe stato scortese rispondergli: né una cosa né l’altra. Gli dissi che mi avrebbero fatto piacere se fossero discesi. Durante la colazione trovai modo di chiedere al pellegrino quale era la sua professione, ed egli mi rispose che era disegnatore a penna, specializzato nel chiaroscuro. La sua arte consisteva nel copiare delle stampe, non nel farne; ma mi assicurò che vi eccelleva, e che era in grado di copiare una stampa in modo da rendere impossibile distinguere la copia dall’originale. [ ] Mi fece vedere una copia di Rembrandt, più bella, se possibile dell’originale. Malgrado ciò mi assicurò che il suo mestiere non gli rendeva tanto da vivere; ma io non lo credetti. Egli mi faceva l’impressione di uno di quegli uomini di talento poltroni che preferiscono il vagabondaggio alla vita laboriosa.

Nel giugno del 1778, Casanova incontrò nuovamente l’avventuriero, giunto a Venezia con la bellissima moglie e l’altisonante nome di conte di Cagliostro. I veneziani, ardenti di curiosità per l’uomo che più di ogni altro era riuscito a conciliare i rudimenti della medicina e della farmacopea con principi alchemici, teorie che affondavano le radici nella cabala ebraica e negli antichi cerimoniali egiziani, rimasero affascinati dal suo carisma e contribuirono ad incrementarne fama e fortuna, aprendogli i salotti più alla moda e più chiacchierati di quegli anni. D’altra parte, lo stesso Cagliostro era riuscito a fomentare l’alone di mistero che lo circondava facendo abilmente credere di provenire da paesi lontani e narrando di viaggi attraverso l’Europa settentrionale, dall’Aia a Berlino, dalla Curlandia a Pietroburgo. Nel 1755, Giacomo Casanova aveva conosciuto il rigore dell’Inquisizione veneziana a causa del suo modus vivendi, considerato libertino ed epicureo. Fu accusato di praticare arti magiche, gioco d’azzardo, truffa e di essere legato alla massoneria e ai Rosa Croce. L’attività di scrittore satirico venne giudicata sconveniente, tendente alla miscredenza, all’irreligiosità e causa della corruzione morale e intellettuale di alcuni patrizi. Ne conseguì l’arresto e la reclusione nei Piombi, le terribili carceri veneziane che prendevano il nome dalle lastre di piombo che ne ricoprivano il tetto. Da quel luogo di indicibili sofferenze il Casanova riuscì a fuggire dopo quindici mesi, come egli stesso racconta nella Storia della mia fuga. Solo dopo diciotto anni, nel 1774, ottenne la grazia e il permesso di ritornare a Venezia: quando incontrò per la seconda volta l’avventuriero palermitano, il ricordo dei tormenti della prigionia e dei metodi inquisitori era ancora fervido. Ammaliato dalle grazie della bella Serafina, si prestò a fare da guida alla città di Venezia, avendo espresso i coniugi il desiderio di visitarla. In quell’occasione, Casanova sentì parlare Cagliostro in modo irriverente e contrario ai principi religiosi: inutilmente mise in guardia il suo ospite dal pericolo di un’inchiesta dell’Inquisizione e gli consigliò di non recarsi a Roma. Al culmine della notorietà e dell’ascesa sociale, Cagliostro non darà peso ai preziosi avvertimenti; i timori di Casanova prenderanno corpo dieci anni più tardi e diventeranno una terribile realtà con la reclusione a vita nella fortezza di San Leo.

 

L’AFFARE DELLA COLLANA

 

Nel 1785 in Francia ebbe inizio uno storico processo che molta parte avrà nella determinazione degli avvenimenti che di lì a poco porteranno alla rivoluzione francese. Protagonisti della vicenda, meglio conosciuta come affaire du collier, gli imputati Louis Rohan, Jeanne Valois de la Motte ed Alessandro conte di Cagliostro. Sul coinvolgimento della corona nell’intrigo non indagò alcun tribunale civile, tuttavia, pochi anni dopo, una "giuria" popolare condannerà alla ghigliottina Maria Antonietta di Francia e Luigi XVI, ritenuti responsabili dello sperpero di favolose ricchezze, impiegate per sostenere lo sfarzo di una corte incurante della bancarotta dell’intera nazione ed insensibile alla miseria e alla fame del popolo.

 

La vicenda cominciò quando i gioiellieri Bohemer e Bassange realizzarono per la favorita di Luigi XV, la marchesa du Barry, una preziosa collana in diamanti "alla schiava", composta da 575 gemme, del valore di un milione e seicentomila lire. La collana non trovò acquirenti perché Luigi XV si spense e i gioiellieri furono costretti ad attendere l’ascesa al trono di Luigi XVI per tentare nuovamente la vendita. Pur amando moltissimo i preziosi, Maria Antonietta si era opposta all’acquisto, pronunciando la celebre frase: "Abbiamo più bisogno di navi che di gioielli". Bohemer, dopo molte insistenze, si arrese rassegnandosi ad un lungo periodo di prigionia nella Bastiglia a causa dei grossi debiti contratti per confezionare la favolosa collana. Non molto tempo dopo gli fu consigliato di sottoporre il gioiello al vaglio della contessa Jeanne Valois de la Motte, fidata consigliera della regina, che avrebbe potuto convincere facilmente la sovrana a cambiare idea sull’affare se soltanto l’avesse voluto. La contessa de la Motte, ritenendo il gioiello degno di figurare al collo di Maria Antonietta, garantì la propria disponibilità a fare da tramite per la vendita, e lo sprovveduto gioielliere, rincuorato dalla notizia ricevuta, decise di affidarle la trattativa, ignaro di ciò che sarebbe accaduto. Chi era in realtà Jeanne de la Motte? Cagliostro avrebbe potuto rispondere facilmente al quesito, avendo intuito fin dal primo incontro la vera indole truffaldina della astuta donna. Ella si proclamava discendente dei Valois e, per questo motivo, era riuscita ad ottenere il favore del potente cardinale Louis Rohan, che notoriamente le rimpinguava le tasche, affascinato dal gradevole aspetto fisico e da una certa eleganza e raffinatezza di modi, insoliti per chi, come la contessa, fin dall’infanzia aveva vissuto di espedienti. Grazie alla protezione di Rohan si era procurata una certa considerazione nei circoli più alla moda della nobiltà francese, dove era necessario, per mantenere la posizione acquisita, disporre di ingenti somme di denaro per vestire con le stoffe più preziose o indossare vistosi gioielli. L’abilità della de la Motte consisteva soprattutto nel saper sfruttare a proprio vantaggio gli intrighi di corte di cui veniva a conoscenza o i desideri e le attese delle personalità che frequentava. Già da tempo aveva convinto il prelato di essere in grado di influenzare la regina fino al punto di farla tornare a riflettere su decisioni apparentemente irrevocabili: proprio per questo motivo Rohan le aveva affidato una missione molto delicata, quella di riabilitarlo presso la corte più ambita d’Europa dove egli risultava sgradito da molti anni, a causa di inopportune dichiarazioni sulla politica di Maria Teresa d’Austria, madre di Maria Antonietta. Quest’ultima non poteva dimenticare l’infamante lettera su sua madre, fatta circolare dal cardinale e subito intercettata, anche perché ella era a conoscenza di ciò che lo aveva spinto a scriverla, e cioé il sentimento di vendetta nei confronti di Maria Teresa, contro la cui semplicità e morigeratezza aveva urtato lo stile di vita di un uomo i cui modi avrebbero dovuto corrispondere a quelli di un ecclesiastico, piuttosto che a quelli di un raffinato cortigiano, dedito ai più squisiti piaceri della vita. A causa di ciò, Rohan era tenuto ben lontano dall’entourage della regina, il cui rancore durava ormai da sette lunghi anni. La de la Motte aveva intuito l’ansia del cardinale di essere riammesso al cospetto della sovrana ed era decisa a trarne tutto il vantaggio possibile. Come prima cosa, per dissolvere eventuali dubbi sul suo reale rapporto con regina, imbastì una vera e propria corrispondenza epistolare tra Rohan e Maria Antonietta; in seguito, di fronte alle pressanti richieste da parte del cardinale per ottenere un’udienza ove implorare umilmente il perdono della sovrana, la de la Motte fu costretta ad organizzare un finto incontro tra i due, durante il quale Rohan credette di riconoscere, nella giovane ingaggiata per la farsa, la regina cui egli aveva osato baciare l’orlo dell’abito. La gioia di Rohan era alle stelle come infinito era il sentimento di gratitudine per l’artefice dell’incontro: Jeanne de la Motte poteva avanzare qualunque richiesta senza temere rifiuto. In tale stato di esaltazione Cagliostro trovò il cardinale suo amico, quando nel gennaio 1785 si recò a Parigi. A nulla valsero i tentativi di metterlo in guardia da una figura così falsa come quella della contessa: Rohan non volle sentire ragioni, l’unica cosa veramente importante per lui era aver riacquistato la benevolenza della regina.

Dell’esaltazione del cardinale era ben consapevole anche la contessa che pensò di approfittare dell’occasione offerta dalla vendita della collana per invischiarvi il prelato e gabbare così oltre a questi, anche i gioiellieri e la stessa regina. Sarebbe bastato far sapere a Rohan che la regina si era invaghita del prezioso gioiello, ma non disponendo della somma necessaria per acquistarlo, aveva bisogno di una persona di fiducia che garantisse con il proprio prestigio e, naturalmente, con il proprio patrimonio, la rateizzazione del pagamento. Ovviamente, su tutta la faccenda bisognava mantenere il più assoluto riserbo, essendo le casse della monarchia già in difficoltà da molto tempo. La risposta di Rohan fu quella che la de la Motte aveva furbescamente previsto: oltremodo lusingato dalla scelta della regina, fu ben lieto di dimostrarle la propria devozione dichiarando che avrebbe prontamente provveduto ad anticipare la somma occorrente. Fu così che i gioiellieri, confidando nelle credenziali di Rohan, decisero di avviare l’affare.

 

Il pagamento della collana fu concordato in quattro rate da quattrocentomila lire ciascuna, la prima doveva essere versata il 1 agosto dell’anno in corso (1785). Quando il prelato seppe dalla contessa che Maria Antonietta aveva accettato le modalità di vendita del gioiello, convocò subito Cagliostro per comunicargli la lieta notizia e per chiedergli di interrogare gli spiriti sull’esito della vicenda. Invano Cagliostro tentò di mettere in guardia l’amico da quella che aveva l’aria di essere una vera e propria truffa: accortosi che Rohan non avrebbe permesso neanche a lui di diffidare della serietà della contessa, rassegnato, interrogò l’oracolo che pronunciò una sentenza favorevole all’affare e ai vantaggi che il cardinale ne avrebbe ricavato. Non appena ebbe ricevuto la collana dai gioiellieri, Rohan si affrettò a consegnarla nelle mani della contessa che inscenò per lui la consegna del gioiello all’araldo della regina: l’affare sembrava definitivamente concluso!

Poco dopo, la collana venne suddivisa in mille gemme per essere venduta, senza destare sospetti, in molte parti d’Europa. L’inganno durò fino al mancato pagamento della prima rata: le lamentele dei gioiellieri ad una dama di compagnia della regina fecero cadere l’enorme montagna di bugie sulla quale era stato costruito l’intero affare. Maria Antonietta, venuta a conoscenza della truffa, non intuendone immediatamente la reale pericolosità, rese pubblico lo scandalo e non accettò il risarcimento prontamente offerto da Rohan, che pure si dichiarava del tutto innocente, anzi ne ordinò l’immediato arresto e la reclusione nella Bastiglia. Anche la contessa de la Motte venne arrestata, ma prima di essere imprigionata fece in tempo a trascinare nel fango l’unico uomo che non era riuscita ad ingannare: Cagliostro fu da lei indicato come il vero artefice del complotto, nelle cui tasche erano finiti i proventi della vendita del gioiello. Il sedicente conte aveva ordito l’intrigo per avidità di denaro e per manie di grandezza. Prova della sua colpevolezza il fatto che egli, pur non avendo mai acceso alcuna trattativa per acquistare o vendere, possedeva ogni bene. La contessa omise nella propria dichiarazione che Cagliostro riceveva regolari sussidi oltre che da Rohan, anche dal banchiere svizzero Sarrasin e da altri seguaci del Rito Egiziano. La denuncia sortì l’effetto desiderato perché Cagliostro venne arrestato e rinchiuso nella Bastiglia. Dopo poche ore, la stessa Serafina fu incarcerata con l’accusa di essere l’amante e quindi la complice del cardinale.

 

La notorietà dei personaggi fece sì che la notizia del loro arresto si diffondesse molto rapidamente: grazie al risalto dato dai libelli che circolavano numerosi, la vicenda si trasformò in un vero e proprio scandalo, le cui dimensioni non potevano essere più controllate. Episodi piccanti e fantastiche dicerie alimentavano la curiosità popolare che seguiva attentamente lo svolgimento degli eventi. Prima dell’inizio del processo, cominciarono a circolare i memoriali relativi a ciascun prigioniero che gli avvocati avevano compilato con molta cura, consapevoli di quanto fossero determinanti per una positiva risoluzione della vicenda. Grande successo ebbero quelli di Cagliostro e Serafina con i quali si schierò gran parte dell’opinione pubblica, commossa dall’ingiusta carcerazione inflitta ai due coniugi. Serafina venne liberata dopo pochi giorni, mentre Cagliostro veniva sottoposto a duri interrogatori e a drammatici confronti con la sua accusatrice che continuava imperterrita a costruire intricate bugie per screditare anche Rohan e la stessa regina Maria Antonietta. Tuttavia, la vacillante testimonianza resa dalla de la Motte non convinse i giudici, come già il suo memoriale era risultato inattendibile ai più: tutte le infamanti calunnie in esso contenute si trasformarono in una sentenza di colpevolezza ed in una condanna alla fustigazione, alla bollatura col fuoco e all’ergastolo. La condotta del cardinale e quella del suo amico Cagliostro furono invece giudicate oneste e regolari: entrambi furono assolti con formula piena, fra le grida festanti della popolazione. Infatti, nonostante il coinvolgimento nell’affare della collana ed il processo, Cagliostro vide crescere la sua fama e l’interesse del popolo nei confronti di quelle arti che aveva sempre coltivato per il bene del genere umano, come egli stesso aveva dichiarato nel memoriale. Tuttavia, la gioia per la scarcerazione ed il proscioglimento da ogni accusa fu davvero breve: era ancora festante quando gli fu recapitato l’ordine di lasciare Parigi entro otto giorni e la Francia entro tre settimane. La notizia giunse come un fulmine a ciel sereno e Cagliostro, intuito il pericolo, anticipò la partenza per l’Inghilterra. La sentenza del Parlamento aveva indignato i sovrani di Francia che, ritenendolo colpevole, si vendicarono costringendolo all’esilio dal Paese che massimamente lo aveva stimato ed amato. Anche il cardinale fu obbligato dal re ad abbandonare tutte le cariche di corte: il papa lo sospese lasciandogli, però, intatte le rendite.

L’epilogo della vicenda si avrà soltanto nel 1789, con lo scoppio della rivoluzione: anche dopo la partenza di Cagliostro l’opinione pubblica, il clero, i nobili, il parlamento non cessarono di chiacchierare dello scandalo, mettendo sotto accusa i sovrani la cui condotta era quantomeno dubbia. Non convinse, infatti, la completa estraneità della regina; sembrava che il clamore suscitato dall’inchiesta fosse servito a nascondere dirette responsabilità. L’affaire du collier risultò determinante per le sorti della dinastia capetingia come per quelle del nostro personaggio: le persecuzioni di quanti lo ritenevano protagonista della vicenda continuarono aspramente a Londra, segnando l’inizio del suo declino.

 

IL RIGOROSO ESAME DELL’INQUISIZIONE

 

Grande scalpore suscitò in tutta Europa l’improvvisa notizia, divulgata abilmente da molti giornali e riviste, dell’inatteso arresto del conte di Cagliostro. Il fatto ebbe luogo a Roma, il 27 dicembre 1789, per ordine di papa Pio VI che, preoccupato dai racconti sugli eccezionali poteri e sulle gesta del nostro avventuriero, decise di rimettere nelle mani dell’Inquisizione romana la sorte del più pericoloso interprete dell’inquietudine, dello spirito avventuroso e fantastico che caratterizzò il "Secolo dei Lumi". Il "Grande Cofto" si trovò così a dover fronteggiare i metodi spietati e cruenti del più temuto tribunale dell’epoca, il Sant’Uffizio. Era stato istituito nel 1542 da papa Paolo III su consiglio del cardinale Gian Pietro Carafa (futuro papa Paolo IV), reduce dalla Spagna dove aveva assistito personalmente alla repressione di ogni tendenza eretica ad opera del feroce organismo inquisitorio perfezionato da Tomas de Torquemada, il primo e più famoso "grande inquisitore", che aveva mandato a morte migliaia di presunti eretici.

Il Sant’Uffizio dell’Inquisizione generale romana, seguendo il modello spagnolo, unificò l’attività inquisitoriale che fino ad allora era stata esercitata dai vescovi, nelle diocesi di loro competenza. Composta da sei cardinali, quest’istituzione risultava decisamente nuova perché meno soggetta al controllo episcopale, ma anche perché procedeva affrontando il problema dell’eresia da un punto di vista dottrinale piuttosto che come pubblica miscredenza, dedicando speciale attenzione agli scritti di teologi o di alti ecclesiastici. Il suo raggio d’azione si andò via via estendendo, grazie ad una minuziosa investigazione dei sospetti, fino a divenire vero e proprio strumento del governo papale, inizialmente impiegato per conservare l’ordine interno alla Chiesa ma, successivamente, adoperato per salvaguardare la stabilità di un potere tutto temporale. Fu, dunque, con l’organismo che nel 1633 aveva condannato Galileo che Cagliostro dovette fare i conti, porgendo tuttavia il fianco molto più apertamente del suo predecessore: la manifesta adesione alla massoneria, la divulgazione di culti esoterici, i molteplici esperimenti alchemici di cui era stato protagonista e, non da ultimo, la profetica predizione della caduta del trono capetingio costituivano di per sé, per lo zelante quanto ipocrita e spietato tribunale, prova sufficiente per emettere un verdetto di morte!

 

L’occasione per l’arresto si presentò in seguito alle accuse mosse da Lorenza Feliciani che, avendo trovato un sicuro rifugio a Roma, presso la famiglia, decise di fare importanti rivelazioni sulle attività praticate dal marito e sulle costrizioni che era stata costretta a subire: le veniva impedito con la forza di frequentare la Chiesa e di fare visita ai parenti. Già a Londra Lorenza aveva provato a denunciare il marito, ma Cagliostro era riuscito a salvarsi inducendola a ritrattare; questa volta, invece, con l’aiuto dei congiunti che sottoscrissero numerose delazioni, ella aveva conseguito l’obiettivo più importante: Pio VI in persona, dopo un consulto con alcuni cardinali ed il Segretario di Stato Zelada, deliberò l’arresto di Cagliostro che fu immediatamente condotto nelle carceri di Castel Sant’Angelo, mentre Lorenza fu rinchiusa nel monastero di Sant’Apollinare in Trastevere, a disposizione del Sant’Uffizio. Con un preciso decreto il pontefice, infatti, aveva affidato al Supremo Tribunale il compito di prendere in esame i documenti e gli oggetti che erano stati sequestrati al momento dell’arresto. Ampie facoltà, poi, vennero concesse agli inquisitori che non dovevano riferire necessariamente alla Congregazione, ma potevano agire con la massima celerità nell’indagine e nella requisitoria, pur di portare a compimento il delicato processo. Le accuse rivolte a Cagliostro consistevano principalmente nell’istigazione e nella propagazione della Loggia dei Liberi Muratori e nell’esercizio di pericolosi e fuorvianti principi ereticali: anche rinchiuso nelle segrete di Castel Sant’Angelo, la più sicura fortezza papale, egli appariva pericoloso per la stabilità del soglio pontificio minato, secondo Pio VI, dall’empietà e dalla nefandezza insite negli insegnamenti e nei misteri predicati, volti a svilire le verità della fede. Massimamente esecrabile, inoltre, era considerata l’arte divinatoria che in più di un’occasione Cagliostro aveva dimostrato di praticare, avvalendosi di strumenti il cui impiego risultava contrario alla dottrina cristiana. Egli, dunque, viene dipinto dal Sant’Uffizio come il capo di un credo esoterico che, preannunciando a Villa Malta il movimento rivoluzionario che aveva cancellato una delle monarchie più solide d’Europa, quella francese, aveva dato prova tangibile del male di cui poteva essere origine. L’Inquisizione di Pio VI, nella sua lotta spietata alla massoneria, non vide o non volle vedere che nella realtà dei fatti mancavano le prove neccessarie per incriminare di tutto ciò l’eclettico avventuriero, colpevole soltanto di aver tratto vantaggio dalle suggestioni tanto abilmente create per la gioia di amici e conoscenti. Cagliostro finiva così per impersonare il male presente nel suo tempo, pur non avendo sostanziali connessioni con i più fondati sistemi di pensiero dell’epoca, tanto avversati dalla Chiesa (le elaborazioni culturali di Diderot, D’Alembert, Voltaire, Roussou, ecc. erano considerate responsabili di aver spinto la Francia alla rivoluzione); diveniva protagonista di macchinazioni politiche ordite con il supporto di una massoneria privata ridotta ad una setta dedita al sovvertimento delle regole divine, naturali e sociali. Per questo motivo, grande importanza fu data al Rituel de la Maçonnerie Egyptienne, il manoscritto che conteneva le teorie e le tesi massoniche divulgate da Cagliostro. Il Sant’Uffizio decise di affidarne la disamina a due esperti della materia, il domenicano Tommaso Vincenzo Pani, commissario generale dell’Inquisizione, e Padre Francesco Contarini, consultore del Sant’Uffizio. L’opera venne bollata come empia e accusata di contenere l’impostazione dottrinale di principi ereticali e massonici, pericolosi per l’integrità del credo cattolico. Il pontefice poté così ordinare la distruzione del manoscritto e di tutti gli strumenti massonici sequestrati a Villa Malta. L’esecuzione della sentenza avvenne nella pubblica cerimonia detta sermo generalis o autodafé: dinanzi ad una folla acclamante furono bruciati i libri e gli oggetti del rito egiziano. Di lì a pochi giorni, Cagliostro fu tradotto nelle caliginose carceri della fortezza di San Leo, dove scontò la condanna alla reclusione perpetua; punizione forse ben più grave, per uno spirito libero, della pena di morte che Pio VI sospese poco prima dell’effettiva attuazione.

 

LA PRIGIONIA NEI DOCUMENTI DELL’ARCHIVIO DI STATO DI PESARO

 

Lettera del Cardinale De Zelada al Cardinale Doria, 16 aprile 1791

Ho consegnato questa mia umilissima, perché la faccia pervenire a mani dall’E. V. dall’aiutante de’Corsi, a cui è stato affidato il trasporto alla fortezza di San Leo di Giuseppe Balsamo, denominato conte di Cagliostro, per esservi ritenuto sua vita natural durante, senza speranza di grazia, e sotto stretta custodia. Affinché all’E.V. sien noti gli ordini e le istruzioni che per espresso comando di N.S. ho ingiunti a quel castellano, mi do l’onore di accluderle copia della lettera, che con questo stesso corso di posta gli dirizzo. Non dubita il Santo Padre ch’egli si farà un attento, e premuroso dovere per l’esatto loro adempimento: riposa peraltro intieramente la Santità Sua nello zelo e nell’avvedutezza dell’E.V., persuaso , che non lascerà di prendere tutti i mezzi onde vengano eseguiti i suoi ordini e le sovrane disposizioni. [ ...]

 

 

Lettera del conte Sempronio Semproni, governatore e castellano di San Leo al Cardinale De Zelada, 12 maggio 1791

[ ...] e parmi troppo necessaria una tale circospezione, trattandosi di dover fare con un uomo, che ha un fondo inarrivabile di furberia e raggiro, ed allora rimarrà certamente la Carcere del Pozzetto assai più salubre, anche al detto di questo dottore medico, che ho voluto che visiti, ed esamini con tutta attenzione, convenendo ancor esso, che la Carcere del Tesoro, ove di presente si custodisce Giuseppe Balsamo sia alquanto insalubre, si per l’aria, come per l’umidità, che seco portano le mura di essa fatte all’antica, con una scarpa grandissima, essendo questa, una di quelle tali Carceri fatta costruire ne barbari secoli, che li Malatesta possedevano questo Forte, ridotto indi a fortificazione più moderna da Guidubaldo secondo fu nostro Duca.

Sul proposito della barba, assicuro l’Eminenza Vostra di avere di già ben avvertito quel tale soldato, che lo serve di barba, che stia ben guardingo, se mai tentasse di volontariamente ferirsi, il che per altro non pare credibile, essendo questi un Uomo più amante del suo individuo più di qualunque altro, e che teme al sommo di morire, esso per altro col scarso suo pensare ha detto ieri appunto a questo dottore medico, che nella stessa sua Carcere, spoglia d’ogni arredo fuorché del necessario, vede occularmente in essa di versi Capi, co’ quali se volesse, si potrebbe procurare la morte, e segnatamente cred’io la resistenza delle muraglie, contro le quali potrebbe disperatamente e pazzamente battere il capo per uccidersi.

[ ...] Temendo io nello stato presente, come ebbi l’onore di esprimerli in altra mia, più di una sorpresa esterna, che di un interno tradimento, e ciò in vista di questo particolare Rilegato, che ha un’infinità di incogniti aderenti e fautori [ ...]

 

Lettera del conte Sempronio Semproni, governatore e castellano di San Leo al Cardinale Doria, 31 maggio 1791

[ ...] vedo che con solo mio discapito (era compito dei castellani delle fortezze dello Stato di Urbino provvedere alle cibarie dei detenuti, come all’inizio della lettera sottolinea lo stesso Semproni) può questo (Balsamo) alimentarsi per li soli fissati due pavoli al giorno, essendo uomo di gran pasto, di assai difficile contentazione, e che vuole le piattanze in buona quantità, ed assai bene bene condizionate, come finora ho procurato, che si faccia, ma non volendomi prendere l’odiosità di restringerli il vitto, quasi che volessi lucrare sul di lui assegnamento, rimango per altro io contenro delli scudi otto mensuali ad esso fissati con li quali dovrò passarli ancora la consueta giornaliera Ciocolata, ed uso di biancheria da tavola e da letto, e tutt’altro che gli occorre, come tabacco, fattura di barbe ed altri utensili necessari, e consueti passarsi alli confinati. Fra pochi giorni si porrà mano al noto Coretto, la di cui fattura porterà una ristretta spesa, e con questo verrà ad impedirsi di essere trasportato in Capella, per fare le Sante divozioni, e dove senza pericolo di essere veduto dagli altri confinati, potrà ascoltare, e vedere la S. Messa. [ ...]

Lettera del conte Sempronio Semproni, governatore e castellano di San Leo al Cardinale De Zelada, 19 luglio 1971

[ ...] debbo notificare le continue e repplicate istanze, che tutto il giorno mi fa questo Rilegato Giuseppe Balsamo di poter essere trasportato nella nota carcere detta del Pozzetto, ora che è partito Gasperini, io fin qui mi sono sempre schernito col dire, che ciò da me non dipende, e che è necessario la previa approvazione di V.E. senza di cui io non posso fare innovazione alcuna; vero è che attualmente come le significai in altra mia, nella carcere del Pozzetto si custodisce il Rilegato Leopoldo Redi di Firenze, ma quante credesse espediente di ordinare il trasporto del Balsamo, per fargli respirare un’aria più salubre, ciò può eseguirsi, collocandosi il Redi in una delle carceri nuove di sopra, che ho riconosciuta abitabile, e ben asciutta e nella quale manca, per essere ridotta a suo termine; resta soltanto di doversi apporre alla ferrata esteriore del Pozzetto la nuova ramata già fatta, che io ad ogni cenno farò porre al suo luogo, non avendo ciò prima effettuato per non ristringere di più il Redi, che non lo merita [ ...] .

 

Lettera del conte Sempronio Semproni, governatore e castellano di San Leo al Cardinale De Zelada, 14 settembre 1791

[ ...] Non si è posto nella carcere del Pozzetto, se non che il di lui letto, con vaso da orinare, una sedia, ed il trecantone fissato nel muro per uso di tavola da mangiare. Tale trasporto sarebbe certamente stato eseguito prima ancora, ma siccome considerato che lo sportello di detta carcere, per l’antichità ammetteva qualche fessura, ho creduto bene farlo rifare di nuovo più stabile, e sicuro, con due piccole feritoie ben coperte, e nascoste, per dove all’occorrenza possa occultarmente dal caporale di guardia o mio subalterno spiarsi cosa faccia il Rilegato ivi custodito [ ...] .

Lettera del Cardinale De Zelada al Cardinale Doria, Legato di Urbino, Roma 24 settembre 1791

Da ciò che V.E. mi significa in dettaglio colla sua del 18 del corrente settembre relativamente alla condotta di Giuseppe Balsamo detenuto nella fortezza di San Leo, si deduce un argomento manifesto come della malizia sopraffina di costui, così della necessità che v’è di una somma diligenza e cautela nella sua custodia. Ben opportuna ravviso per tanto l’avvertenza da lei fatta in questa parte al Castellano, del di cui contegno non posso in veruna maniera rimanere contento, subito che la circostanza che quella punta di maccatoio, assottigliata da Rilegato, e la scrittura fatta nel margine di alcune pagine di libri di devozione quanto possono aprir la strada a disordini assai seri, altrettanto denotano la inesattezza nel vegliare sulle operazioni del medesimo. Si compiacerà dunque l’E.V. di partecipare seriamente allo stesso castellano questi miei sentimenti, e di rinnovargli gli ordini più pressanti per la rigorosa custodia del detenuto, all’effetto della quale sarà assai proficuo che frequenti, improvvise ed esatte sieno le visite da farsi non meno nel carcere, che indosso al medesimo, con renderla del tutto intesa, come le ho già fermamente prescritto. Attenderò poi dalla di lei bontà il riscontro preciso di quanto si è trovato presso il Rilegato stesso, e nel di lui carcere primiero. Non lascio contemporaneamente di interpellare l’Architetto Valadier sul progetto fatto dal Baldelli per la costruzione di una nuova cappella in detta fortezza; e ragguaglierò l’E.V. di ciò che il medesimo esprimerà. [ ...]

Lettera del conte Sempronio Semproni, governatore e castellano di San Leo, al Cardinale De Zelada, 4 ottobre 1791

[ ...] le nuove del Rilegato Balsamo, quale da venti, e più giorni a questa parte osserva rigoroso digiuno, che prima aveva ridotto di soli due giorni di mercoledì e venerdì, presentemente per altro si ciba solo di pane e vino, dispensando per carità tutta la solita provvisione, che regolarmente gli faccio passare, benché questo sia secondo il suo gusto di macheroni di Napoli conditi con bautirro e cacio parmigiano, ed umido, ed arrosto di capone [ ...] .

Lettera del conte Sempronio Semproni, governatore e castellano di San Leo, al Cardinale De Zelada, 23 novembre 1791

[ ...] continuando costui a dipingere con somma velocità, senz’aiuto de’ colori, e pennelli tutte le mura della di lui carcere, il che dice di fare per non poter stare inoperoso, ora che si è perfettamente rimesso dalli finti suoi incommodi di apoplessia, servendosi di colore della ruggine de ferri, e per pennelli della lana del materasso, che accomoda nelle paglie, come mi ha fatto ocularmente vedere, onde non potendosi ciò impedire, crederei di lasciarlo fare, quante volte non scrivesse sul muro cose scandalose e non potesse abusarsi con questo mezzo di scrivere cosa alcuna in carta o in tela che potesse uscire dalla di lui carcere: fra le molte insulse ed inconcludenti scritture e pitture, vedesi un emblema allusivo alle sue operazioni massoniche, che dallo stesso aiutante ho fatto racopiare, e che le verrà dal medesimo esibito, unitamente alla caviglia di ferro, che costui aveva svelta dal vecchio tavolato nella carcere del Pozzetto, ove al presente si va costruendo il nuovo, e che aveva occultata nel luogo accennato, con cattiva intenzione, se non si rimediava sul fatto a tale inconveniente. Le visite e controvisite si fanno frequenti, il forte tavolato è stato svelto in un sol punto, e senz’aiuto alcuno d’istrumento corrispondente, poiché nulla se gli è rinvenuto nascosto, e perché ancora se fosse stato corredato di qualche altro forte istrumento, avrebbe tentato di rompere il muro, o il volto della carcere, e non il tavolato del letto, e chiaramente si rileva che con questo aiuto, avrebbe forse tentata qualche violenza, o rottura, se non si fosse sul fatto prevenuta, ed impedita ogni sua intenzione: non so esprimere a S. E. il rammarico da me provato, nel sentire che dall’E. Segr. Di Stato, si attribuisca ogni più vigilante attenzione e premura, che incessantemente si usa sì da me, come da miei subalterni ad una poca custodia, che si abbia di costui, che è un vero estratto di malizia e furberia, per garantirsi dalla quale non basta ogni più oculata avvedutezza. Da questo solo veda a quanto giunge la di lui iniquità, dopo la visita di questa mattina, in un cartellone dipinto nel muro, che era bianco, in un’ora incirca ha scritta l’infame protesta, che ho fatta trascrivere dall’Aiutante medesimo, acciò che la porti a S.E., di cui ne farà quell’uso che crederà opportuno. E frattanto nel fervorosamente raccomandarmi all’autorevole suo Patrocinio, con il solito profondo rispetto, m’inchino al bacio della sacra porpora.

 

Lettera del Cardinale Legato di Urbino al Cardinale De Zelada, 3 dicembre 1791

Le carte e gli altri arnesi da V.E. rimessimi colle venerate sue del 20, e del 27 dello spirato novembre relative alla persona del rilegato Balsamo, giustificano sempre più la di lui malvagità e la necessità che vi è di custodirlo rigorosamente. Quindi trovo assai ben calcolate e lodevoli le disposizioni da Lei date, tanto per farsì, che nulla si manifesti di ciò, che costui opera, o dice nel Carcere, quanto per raffrenare la di lui abominevole temerità; a qual effetto se non sarà sufficiente il timor della catena e de’ ceppi, potrà anche farsi uso discretamente del rimedio delle battiture. [ ...]

 

 

 

Lettera del Tenente Pietro Gandini al cardinale Doria, 14 febbraio 1792

[ ...] costui si è messo in fantasia, che dopo la di lui venuta siano stati qui ristretti i capi partigiani del di lui rito massonico in numero di cinque o sei; che sia stata rilegata in questa città anche la di lui moglie, per cui quasi ogni giorno dà incombenza a soldati che gliela salutino e che si portino bene dalla medesima con questo dippiù, che se dovesse essere strapazzata, volgino sopra di lui qualunque oltraggio e castigo, che farlo piombare sulla di lui amante consorte. Ieri volle digiunare a pane e vino; ed a questo uopo disse l’altra sera, che gli si portasse nel dì seguente cosa alcuna. Assecondato in questa richiesta, voleva poi iersera che gli si rendesse conto di ciò che aveva avuto; ma subito gli furono voltate le spalle. Dopo che io gli presto il cibo, oggi solamente, eccettuata la minestra che ha mangiata quasi tutta, ha rimandata indietro l’altre piattanze cioè il bollito, l’umido, ed antipasto, che sono regali del Tamburo, e ciò per far dispetto a chi glie l’ha somministrata. Vorrebbe sempre una cucina a parte [ ...] .

Lettera del Tenente Pietro Gandini al cardinale Doria, 3 aprile 1792

[ ...] nella giornata egli se la passa disegnando sul muro, procacciandosi il colore dal raschiaticcio delle pitture fatte dal Gasperini. Si è ora fatto altro di lui ritratto in figura di tenere nella sinistra un crocefisso e percuotendosi il petto colla destra [ ...] .

Lettera del Tenente Pietro Gandini al cardinale Doria, 24 aprile 1792

[ ...] oggi è stata fatta al medesimo (Balsamo) una accurata visita personale dal Tamburo e dal muratore Nalini a tutto il fabbricato esterno ed interno della di lui carcere, ma non è stato rilevato e scoperto alcuna innovazione. Dal suddetto muratore si è fatto egli imbiancare tutte le pitture lasciate sul muro dal Gasperini, avendo però voluto che siano conservate tutte quelle fatte per di lui opera [ ...] .

Lettera del Cardinale Doria al Cardinale De Zelada, 28 ottobre 1792

[ ...] intanto avendo egli penetrato le intenzioni di costui di aquistarvi la comprensione di quegli abitanti, col mezzo di tali schiamazzi, mi ha proposto di trasportarlo nella carcere del Tesoro da lui altri e molti abitata, come situata in luogo remoto, a mano facile a sentirvi i suoi strepiti. A me però non era sembrato opportuno questo temperamento sul riflesso, che trattandosi di una carcere, perché a questa il Balsamo è già pratico, potrebbero talaltra tentare la di lui mira ad essere ricondotto per ancor maggior commodo di eseguire qualche attentato, che andasse meditando. Onde nel rispondere al Castellano gli ho suggerito, che meglio sarebbe di collocarlo in una de le Carceri nuove, sempre che questa corrispondesse all’interno del Cortile della Fortezza, e vicina ad una delle due sentinelle, acciocché questa potesse vegliare su i di lui andamenti ed accorrere ad ogni rumore. Diversamente converrà di ritenerlo tuttavia in quella del Pozzetto, ma in tal caso adattare al di fuori delle finestre di essa un riparo di tende in maniera, onde impedire l’effetto delle sue astuzie. [ ...]

Vol. 7734 (1795-96), Governo, Lettere da Roma, tomo di copialettere dirette dall’Arcivescovo Ferdinando Maria Saluzzo al Segretario di Stato, missiva del 28 agosto 1795

Ieri sera giunsi in questa città, come mi diedi l’onore di pervenirne l’E.V. da Pesaro. Qui giunto trovai ripieno il paese della notizia della morte seguita nella fortezza di San Leo di Giuseppe Balsamo detto Cagliostro recatavi dal marchese Mauro Antaldi, che appunto tornò da San Leo ove era stato a trovare quel Castellano. Posteriormente questa mattina mi son giunte lettere da Pesaro, e fra queste una del castellano che aveva avuta l’attenzione di spedirmi con tal notizia. Egli dunque mi dice, che martedì 26 sorpreso verso il mezzo dì il detto Rilegato da un forte colpo di appoplesia, la sera medesima sulle ore 4 incirca cessò di vivere. Fu assistito tanto da Professori quanto da Sacerdoti, e segnatamente dal Paroco, che non lo credette nepur capace d’assoluzione per non aver dato alcuno segno di ravvedimento, e circa il tumularlo fu pensato interpellarne Mons. Vescovo, da cui ne attendeva gli ordini opportuni. Questo è tutto ciò ch’egli mi ha riferito, e che io non ho voluto omettere di riscontrarne l’E.V., cui trattando con profondo rispetto umilmente m’inchino.[…]

 

LA MORTE E LE LEGGENDE LEGATE ALLA SEPOLTURA

 

La notizia della morte di Cagliostro fu trasmessa a Roma dal conte Sempronio Semproni con la massima ufficialità: Reco con questa mia umilissima alla E. V. la notizia qualmente nel giorno 26 dell’andante verso il mezzogiorno, fu colpito da forte apoplessia il rilegato Giuseppe Balsamo detto Cagliostro: per cui fu dalla guardia ritrovato affatto privo di sentimenti e cognizione. Inutilmente furono da professori posti in opera i rimedi dell’arte per scuoterlo dal suo letargo, all’applicazione dei quali fu trovato insensibilissimo. Infruttuosi egualmente riuscirono gli sforzi del parroco e dei sacerdoti per ottenere dal moribondo un qualche segno di ravvedimento. In tale stato sopravvisse fin circa le ore quattro della stessa sera in cui dovette cedere alla violenza del male e spirò. Per istruzione del nostro Mons. Vescovo è stato questi (per essere sempre vissuto con massime decise da vero eretico, né avere mai dati segni di respicenza) sepolto fuori di luogo sacro e senza formalità alcuna ecclesiastica.

Il mistero che ha avvolto la sua vita si trasforma addirittura in leggenda quando si tratta della morte e della sepoltura: le ipotesi più suggestive contemplano la fuga in abiti da sacerdote, la morte cagionata dalla caduta dalla rupe, la misera sepoltura in una legnaia. Tuttavia, l’episodio più inquietante sembra essere accaduto nel 1797, quando la fortezza di San Leo si arrese onorevolmente all’Armata della Repubblica Cisalpina guidata dal generale Dombrowski che la occupò in suo nome. Per celebrare l’impresa, il generale concesse la libertà ai reclusi presenti nella fortezza e sembra che essi, unitisi ad alcuni soldati, cominciarono a scavare nel luogo in cui Cagliostro era stato sepolto. Rinvenuti i poveri resti, si servirono del teschio per brindare alla riconquistata libertà. Il macabro festeggiamento venne raccontato da un testimone oculare, il nonagenario Marco Perazzoni, morto nel 1882, all’età di novantasei anni che, interrogato dal prelato Oreglia di S. Stefano dichiarò: Quando il conte morì io avevo sette anni e mi ricordo benissimo il suo seppellimento. Il cadavere, tutto vestito, posto sopra una mezza porta di legno, venne portato a spalla da quattro uomini, i quali, usciti dal castello, scesero verso la spianata. Essi erano affaticati e sudavano (era di agosto) e, per riposarsi, ad un certo punto deposero il cadavere sopra il parapetto di un pozzetto, che ancora esiste, e andarono a bere un bicchiere di vino. Poi tornarono, ripresero il tragitto e giunsero al luogo del seppellimento. Io -che ero tenuto per mano da un mio parente- seguii il triste e misero convoglio che, non assistito da nessun sacerdote, assumeva un sinistro carattere di diabolica desolazione. A quella vista i rari passanti si allontanavano frettolosi facendosi il segno della Croce. Scavata la fossa, vi calarono il morto: sotto il capo misero un grosso sasso e sul viso un vecchio fazzoletto, quindi lo ricopersero di terra. Quel vecchio fazzoletto rappresentava la pietà umana. Qualche anno dopo vennero i polacchi ad occupare il forte e dettero la libertà ai condannati, che scavata la fossa insieme a dei soldati, presero il cranio del Cagliostro e vi bevvero dentro, nella cantina del conte Nardini di San Leo (L. Rusticucci, Prigionia e morte di Cagliostro nella fortezza di San Leo, Guaraldi Editore, Rimini, 1993).

 

 

 

 

 

 

Anno del Signore 1795, nel giorno 28 del mese di Agosto

Giuseppe Balsamo, soprannominato Conte di Cagliostro, di Palermo, battezzato ma incredulo, eretico, celebre per cattiva fama, dopo aver diffuso per diverse Nazioni d’Europa l’empia dottrina della massoneria egiziana, alla quale guadagnò con sottili inganni un numero infinito di seguaci, incappò in varie peripezie, alle quali non si sottrasse senza danno, in virtù della sua astuzia e abilità; finalmente per sentenza della Santa Inquisizione relegato in carcere perpetuo nella rocca di questa città, con la speranza che si ravvedesse, avendo sopportato con altrettanta fermezza e ostinazione i disagi del carcere per quattro anni, quattro mesi, cinque giorni, colto da un improvviso colpo apoplettico, di mente perfida e cuore malvagio qual era, non avendo dato il minimo segno di pentimento, muore senza compianto, fuori della Comunione di Santa M. Chiesa, all’età di cinquantadue anni, due mesi e diciotto giorni. Nasce infelice, più infelice vive infelicissimo muore il giorno 26 agosto dell’anno suddetto verso le ore 22,45. Nella circostanza fu indetta pubblica preghiera, se mai il misericordioso Iddio volgesse lo sguardo all’opera delle sue mani. Come eretico, scomunicato, peccatore impenitente gli viene negata la sepoltura secondo il rito ecclesiastico. Il cadavere è tumulato proprio sulla estrema punta del monte che guarda ad occidente, quasi ad uguale distanza tra i due fortilizi destinati alle sentinelle, comunemente denominati il Palazzetto e il Casino, sul terreno della Reverenda Camera Apostolica il giorno 28 alle ore 18, 15.

In fede

Luigi Marini, Arciprete di propria mano

 

 

 

 

LETTERATURA

 

Matteini N., Il Conte di Cagliostro, Cappelli, Bologna 1960.

De Chirico R., Il processo della Santa Inquisizione a Cagliostro e la sua fuga da San Leo, Atanor, Roma 1990.

De Mirabeau H. G., Su Cagliostro e Lavater, Guerini e Associati, Milano 1991.

Mercenaro G., a cura di, Cagliostro, Memoriale, Ecig, Genova 1991.

Maruzzi P., Il Vangelo di Cagliostro, Atanor, Roma 1993.

Rusticucci L., Prigionia e morte di Cagliostro nella fortezza di San Leo, Guaraldi, Rimini 1993.

Presenza di Cagliostro, Atti del Convegno Internazionale, San Leo, Giugno 1991, Centro Editoriale Toscano, Firenze 1994.

Vannucci M., Cagliostro, la fantasia dell’inganno, Le Lettere, Firenze 1994.

Petraccone E., Cagliostro nella storia e nella leggenda, Mediamix, Milano 1995.

Riccomini F., L’enigma Cagliostro, Loggia de’Lanzi, Firenze 1995.

Processo a Cagliostro, Atti del Convegno, San Leo, Ottobre 1995, Edimai, Roma 1996.

Gervaso R., Cagliostro, Rizzoli Bologna 1996.

Barberi G., Compendio della vita e delle gesta di Giuseppe Balsamo denominato il Conte Cagliostro, Mursia, Milano 1998.

 

 

 

Sommario

Cagliostro, la vita 2

L’incantesimo alchemico 6

Il sodalizio massonico 9

L’incontro con Casanova 11

L’affare della collana 13

Il rigoroso esame dell’Inquisizione 17

La prigionia nei documenti

dell’Archivio di Stato di Pesaro 20

La morte e le leggende

legate alla sepoltura 26

Letteratura 30

 

 

Proprietà letteraria del

Comune di San Leo-Musei della Città

Testi di Vittoria Rappa, Musei di San Leo

Progettazione grafica di

Anna Rita Nanni, Musei di San Leo

Impaginazione e fotocomposizione di

Gilberto Suzzi, Comune di San Leo