Sull'Esperanto

 

Perché fallì la campagna per rendere l'Esperanto la lingua del mondo? Fu a causa dell'incapacità della "Lega Internazionale dell'Esperanto" o per altri motivi? Provo a parlarne per gentile richiesta del signor Camillo Coppola a cui dedico questo scritto.

 

L'inventore dell'esperanto fu il medico ebreo polacco-lituano Lejzer Ludwik Zamenhof (1859-1917) aderente all'Haskole-Haskalah (Illuminismo ebraico) (cfr. l'Encyclopaedia Judaica, s. v. "Bialystok"). La sua invenzione, pubblicata nel 1887 in russo come grammatica dell'Esperanto, intitolata "Doktor Esperanto" ("Dottor Speranza"), anelava all'universalizzazione del linguaggio per la fraternità dei popoli, ma l'Esperanto non riuscì mai a svilupparsi come lingua internazionale.

Il motivo di questo fallimento è a mio parere la mancata conoscenza "del cielo" da cui proviene la parola. La lingua che parliamo non proviene dal mondo sensibile ma da quello soprasensibile. L'anelito a superare il razzismo è nobile ma il superamento delle razze inizia dalla consapevolezza che le razze sono la manifestazione della mancanza di universalità nel pensare. Nella misura in cui si crede che il pensare sia soggettivo si è razzisti. In tal caso, cioè in base al pregiudizio che il pensare umano sia soggettivo, non si può incontrare l'altro da sé e, pretendendo imporre il nostro soggettivismo agli altri, ci si accorge poi che le cose non funzionano. Sull'universalità del pensare ha già scritto Rudolf Steiner nella sua filosofia della libertà, quindi non ne parlerò qui. Dico solo che l'uomo può solo avvicinarsi al cielo finché risiede in terra. Per essere cielo deve lasciare la Terra, cioè il corpo. Solo allora può lavorare ai linguaggi. Almeno fino ad oggi non siamo ancora evoluti al punto di incarnarci senza morire mai più come luce stellare.

Lo spirito del popolo è invece il vero creatore del linguaggio. L'uomo ha un suo spirito individuale col quale non può gareggiare con lo spirito di popolo creandosi un linguaggio. L'io del popolo è diverso dall'io dell'uomo.

L'antica sapienza dei re magi sapeva che l'io di popolo è protetto dal dio Mercurio (1), che ne è l'involucro protettore, e che l'io individuale umano è invece protetto da un altro involucro detto Cristo.

 

Nel cosmo le cose funzionano in modo ordinato. Il cosmo stesso è ordine. Se l'uomo fosse in grado di attivare una lingua da lui inventata, quell'uomo sarebbe come il dio Mercurio, cioè un ente senza un io proprio, come invece è l'uomo. Ma un uomo senza io come potrebbe inventare un linguaggio? Sarebbe impossibile. Lo spirito di popolo invece può farlo in quanto si muove ed opera secondo tutti gli io umani. Questa è la differenza: l'uomo può anche non obbedire al suo involucro protettivo, invece lo spirito di popolo si muove solo in quanto obbediente. Così, per esempio, il pianeta materiale Mercurio non può cambiare il suo moto celeste. L'elemento astrale planetario vive anche nell'uomo ma in modo diverso. Io posso andare a Nord, a Sud, ad Est, a Ovest, o dove voglio. Così non è per gli io degli enti celesti, che si muovono seguendo "prescritte" forme, simili a quelle dei fiori.

L'infante prima impara a parlare e poi a pensare. L'ecolalia, ma si potrebbe dire anche il dio o la dea Eco, gli fa ripetere ciò che sente. Pian piano poi impara a pensare. Così è anche per l'umanità quando è ancora bambina. Quando la parola non è ancora pensiero, è pura immagine: ogni oggetto del mondo esterno o interno si riflette in un'immagine. Per esempio, osservando una rondine, l'attività interiore dell'uomo può essere maggiormente colpita del fatto che questo essere s'innalzi verso l'alto, oppure che si libri armoniosamente nell'aria, oppure ancora che esprima il suo canto. Uno stesso essere può impressionare l'attività interiore umana in modi diversi e per ognuno di essi sorge un'immagine corrispondente che si riflette nel linguaggio. L'uccello è per il latino "avis", perché il latino osserva come esso s'innalza in volo; per il tedesco è "Vogel", perché il tedesco lo vede ondeggiare tra cielo e terra; per lo slavo è "ptie" perché lo slavo preferisce sentirlo cantare.

L'uomo odierno ignora completamente che dietro ogni parola si nasconde un'immagine, perché per lui ogni parola corrisponde soltanto a un concetto astratto. Perciò non può nemmeno comprendere l'esistenza di varie lingue e cerca di costruirne di universali in modo astratto, come l'esperanto. Ma non è compito suo. Il suo compito dovrebbe essere quello di riflettere, pensare ma l'uomo non pensa quasi più.

L'espressione "pensiero espresso in parole" da qualche parte si trova ancora scritta ma questa proposizione ha perso quasi del tutto il suo valore in quanto il linguaggio odierno è purtroppo molto lontano dal pensiero. Lo dimostra il fatto che l'invenzione dell'Esperanto non si è concretizzata perché non si è riflettuto abbastanza sul fatto che l'intendimento fra uomini può esservi solo attraverso il massimo grado di pensiero, l'intuizione. Se gli uomini si intendessero secondo mere parole sarebbero macchine ed invece le parole non sono solo onde meccaniche o password per accedere a qualcosa o a qualcuno.

 

Le parole sono come i mattoni di un ponte che si chiama linguaggio ed è quel ponte che congiunge il mondo interno a quello esterno. La parola detta è non solo materiale (onda meccanica) ma anche immateriale (concetto, idea). In ebraico, linguaggio si dice, come significato derivato, "safà", שפה (si legge da destra a sinistra), ("labbro"), e "safà" significa anche "riva, sponda", perché ciò che ci fa approdare da quell'altra parte, in quell'altro mondo è, appunto la lingua, l'idioma, il linguaggio, mediante cui si può arrivare di là, nel mondo degli altri, o nel mondo delle idee (o dei concetti, che sono i mattoncini delle idee). Il mondo delle idee è di tutti, perché è il mondo spirituale, cioè immateriale. La funzione della parola è infatti - per ogni possibile linguaggio - una funzione di trascendenza, in quanto ogni parola non è altro che un simbolo capace di evocare un'immagine o numeri nel caso dell'ebraico.


Safà è formata dalle lettere SHIN, PHE (= f) ed HE, i cui valori numerici sono rispettivamente 300, 80 e 5, sintesi 16 (3+8+5=16). Il 16 è tra tutti i numeri il primo formato dal quattro conseguente al tre, il cui quadrato 9, sommato al 16 dà 25, quadrato del cinque, e riguarda aritmeticamente (e secondo successione numerica) il teorema di Pitagora. Mi esprimo meglio: fra tutti i numeri solo il tre, il quattro e il cinque hanno la proprietà di esprimere questo teorema come numeri successivi. E ciò è straordinario. L'uomo antico sentiva infatti il 4 come espressione dell'elemento femminile ed il 3 come espressione dell'elemento maschile, dai quali sentiva provenire il 5, espressione dell'elemento "prole". Perché ciò potesse accadere il 3 ed il 4 dovevano ritrovare nel 5 il loro compimento, così come un uomo e una donna lo ritrovavano nella loro prole. In questo modo i pitagorici esprimevano quanto oggi è studiato come Teorema di Pitagora: il 16 e il 9 erano e sono rispettivamente il compimento "individuale" in cui il 4 ed il 3 ritrovavano e ritrovano se stessi, mentre il loro massimo compimento possibile o "d'unione" sta nel compimento del 5 nel 5 x 5, dato appunto da 16 + 9. Per tutti i restanti altri numeri consecutivi l'equivalenza fra quadrati minori e quadrato maggiore non vale. Andrebbe qui considerato, sempre in riferimento alla sintesi 16 di "safà" il seguente dato culturale relativo al Teorema di Pitagora, dato che questo famoso teorema dell'equivalenza fra la superficie del quadrato costruito sull'ipotenusa e la somma di quelle costruite sui cateti del triangolo rettangolo, era noto anche prima di Pitagora, limitatamente però ai lati 3, 4 e 5: in India era indicato come la "seggiola della piccola sposa" e sia i preti Indù che gli "arpedonapti" egiziani, ossia i tenditori di cordicelle o canneggiatori, se ne servivano per innalzare la perpendicolare ad una retta nelle operazioni topografiche. In Persia costituiva la "figura della donna maritata"; in Grecia era il "teorema della maritata" ed il triangolo "3, 4 e 5" era considerato simbolo del Matrimonio: Platone lo inserì nella composizione del suo celebre "numero nuziale". Per Plutarco era "il più bello dei triangoli" e riporta il detto che fosse il simbolo delle divinità egizie Osiris, Isis ed Horus e di tutta la natura in espansione. Tali proporzioni si trovano nella piramide di Chephren (esterno), in quella di Cheope (interno, camera dei Re), in molte pietre usate come lapidi o come coperchi, in canali di aerazione, ecc; così pure le grandi pietre di Baalbek in Siria sono larghe 3 e lunghe 4. In un papiro di magia sono disegnati due cuori uniti con righe, con la scritta: 3 è l'uomo, 4 è la donna. Anche i Cinesi conoscevano questo teorema, poiché nel Tceu-pei sono menzionate le proprietà di detto triangolo. Il teorema venne poi denominato "teorema di Pitagora" perché fu questo filosofo ad applicarlo a tutti i triangoli rettangoli. (Cfr. I. Ghersi, "Matematica dilettevole e curiosa", Ed. Hoepli p. 573).

L'importanza del 16, sintesi del valore numerico di "safà" (labbro, sponda, linguaggio), anche in merito all'idea di partnership, o di unione di cuori, innamoramento, ecc. - anche perché il bacio stesso degli innamorati non può che avvenire attraverso le labbra - non può dunque essere negata. Il bacio è anche una forma convenzionale di saluto come per dire "Salve", o "Salute a te", "Ciao", o Buongiorno", "Shalom". Si noti che in ebraico,
שלום "shalom", in numeri 300, 30, 6, 40, somma totale 376, conduce anch'esso al 16 come sintesi: (3+7+6 = 16) e si potrebbe dire che questo saluto ha in sintesi il valore di "bacio". Insomma, si potrebbe fare per "safà" un capitolo a parte, dato che perfino grammaticalmente è un'eccezione: ha entrambe le forme maschile e femminile di desinenza plurale, la prima forma è "àym", per cui si ha il plurale di safà come sefathàym (labbri), la seconda è "òt" col plurale safòt (labbra).

 

Non credo che un linguaggio possa essere inventato da un uomo, e tanto meno un alfabeto numerico come quello ebraici. L'"inventore" del linguaggio umano, capace di offrire alla conoscenza umana correlazioni e significati così straordinari, non può che essere un ente cosmico o uno spirito "spazialmente" più grande di quello umano, così come un mare è più grande di una sua goccia.

 

A volte però avviene che le "gocce", cioè che certi uomini esaltati, vogliano farsi loro stessi mare, vale a dire si attribuiscano il monopolio di "divinità" (2) anziché riconoscere la divino-umanità nei propri simili...

Anche se la goccia di un mare pretendesse di essere quel mare, creando linguaggi come l'Esperanto (con ciò non intendo attribuire all'anelito sociale del suo inventore Lejzer Ludwik Zamenhof alcuna caratteristica negativa), o come quello della fisica teorica, o di altre "scienziaggini", ideologie, filosofie, partitocrazie, ecc., credute sociali, il mare (il karma) non potrebbe che travolgerla (Genesi 11, 1-9): in origine il linguaggio è uno, universale, poi differenziandosi tramite una selezione, e successiva combinazione di suoni che l'esperienza di ogni gruppo etnico convoglia e formalizza in un codice, in una convenzione, perde necessariamente il suo stretto legame con le forze della natura. Ciò è, appunto, menzionato nell'episodio biblico della Torre di Babele: quando la convenzione diventa così potente da consentire la differenziazione della stessa unica lingua (periodo precedente la costruzione della torre in cui tutti si capivano) nei vari idiomi nazionali, l'uomo va in confusione.

 

L'uomo perciò dovrebbe rimettersi a riflettere sui propri errori e... correggerli se vuole progredire. Progredire significa convenire a convenzioni sempre rinnovabili che siano convenienti per tutti i terrestri, la cui vera nazione è il cielo. I veri extraterrestri siamo infatti noi stessi... Dovremmo prenderne atto, perché questa è la nostra gloria...


Ricapitolando, in principio era, ed è, "la parola": l'uomo - ripeto - non forma il linguaggio dal pensiero, ma impara a pensare dal linguaggio. Questa cosa è importante. Dall'osservazione del linguaggio sorge il pensare. Per questo motivo il linguaggio è qualcosa di vivo, che si manifesta grazie alla combinazione fra la percezione di ciò che internamente l'attività interiore vive e la percezione di ciò a cui essa reagisce in seguito alla relazione col mondo esterno.

Quando l'uomo crea linguaggi da imporre convenzionalmente ai suoi simili genera sette o razze o malattie molto simili all'autismo, in cui si verbalizza ma si è anche verbalizzati. Cioè si permane ecolalici, in quanto non si compenetra intuitivamente la parola con la propria coscienza. Si parla, ma non si comunica e la parola risulta essere un guscio vuoto fatto di mera sonorità. La logica, il Logos, si perde, ed ovviamente ciò genera il bisogno di regole.

La logica, prima di essere tale, è un sentire logico che solo in seconda istanza è confermato dall'intelletto. Così, se l'uomo non si limita a comunicazioni di servizio, evitando gli "spiegoni" intellettivi per riempire la sua parola di senso, se il suo dire pone in armonia il cosa e il come, e se c'è un nesso fra sonorità e pensiero, rivestito dalla sostanza di immagini, allora si riprende il cammino perduto riacquistando il senso della parola e con esso la facoltà pensante.

Se è vero che il linguaggio archetipico è andato perduto con la conseguente confusione delle lingue, è anche vero che è compito umano superare tale confusione affinché il linguaggio non sia legato ad un'unica etnia, ebraica compresa (per quanto reputi questa lingua ancora piena di concreti influssi celesti).

Credo che gli odierni fenomeni migratori abbiano a che fare con questi aspetti, i quali possono essere, più dell'Esperanto, riformatori degli archetipi che l'uomo può ritrovare in sé come forza arcangelica o mercuriale. La principale caratteristica dell'Esperanto fu la sua neutralità, valore per il suo ideatore auspicabile proprio per renderla universale. Ma fu proprio tale neutralità che, paradossalmente, ne decretò l'insuccesso. È vero infatti che dietro al linguaggio si cela un mistero profondo che riguarda la sua origine. La Parola è un dono degli Dei e qualunque lodevole tentativo che sorga dal "basso" è destinato a restare... un tentativo, dato che un linguaggio senza io è come un io muto o incapace di spiegarsi a parole.

Oggi gli educatori dei bambini dovrebbero portare a coscienza che nell'educare in loro il senso della parola, sono collaboratori degli Dei.

"A chi comprende il senso della lingua il mondo si svela in immagine; a chi sente l'anima della lingua il mondo s'apre in quanto essere; a chi vive lo spirito della lingua il mondo dona forza di saggezza; a chi sa amare la lingua essa stessa conferisce la sua potenza; così io voglio volgere cuore e pensiero verso lo spirito e l'anima del Verbo. E nell'amore per lui infine totalmente risentire me stesso" (Rudolf Steiner, Parole di verità).

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(1) Secondo la gnosi dantesca (nel "Paradiso") la sfera di azione del pianeta Mercurio era quella corrispondente in greco alla gerarchia degli "Arcàngeloi" (Dionisio) ed  in latino agli "Archangeli" (Tommaso d'Aquino), che la nomenclatura moderna (R. Steiner) designa come sfera degli spiriti del fuoco o dei popoli. 

(2) Ciò avvenne storicamente e continua ad avvenire a partire dal tempo delle "Verrine" di Cicerone, specialmente nella politica dei banchieri delle banche centrali, cfr., ad es., la seguente dichiarazione di Rothschild: "La nostra politica è quella di fomentare le guerre, ma dirigendo Conferenze di Pace, in modo che nessuna delle parti in conflitto possa ottenere guadagni territoriali. Le guerre devono essere dirette in modo tale che le Nazioni, coinvolte in entrambi gli schieramenti, sprofondino sempre di più nel loro debito e, quindi, sempre di più sotto il nostro potere" (Amschel Mayer Rothschild, 1773); cfr. anche in Cicerone: "Scopro, giudici, un sistema di far bottino di questo genere: il governatore, che dovrebbe acquistare il frumento, invece di acquistarlo, lo vende (165), e storna e incamera tutte le somme di denaro che dovrebbe versare alle varie città. Tutto ciò non mi sembrava più un semplice furto, ma una assurdità incredibile: rifiutare come cattivo il frumento delle città e giudicare buono il proprio; dopo aver giudicato buono il proprio, fissare un prezzo per questo frumento; dopo averlo fissato pretendere una somma dalle città, e tenersi la somma ricevuta dal popolo romano" (Cicerone, "Il processo a Verre", Vol. 2°, traduzione e note di Laura Fiocchi e Dionigi Vottero, Testo latino a fronte, Ed. BUR, Milano 2004, pagg. 748-749). La nota 165 relativa alla parola "vende " è inequivocabile: «"Vendat" non va inteso nel senso che Verre effettivamente vendesse il suo grano alle città, dalle quali invece avrebbe dovuto comprarne. La contrapposizione "non emat sed vendat" è soltanto un 'efficace descrizione della situazione paradossale per cui i coltivatori, a causa della prepotenza e della disonestà di Verre, da creditori dello Stato romano divenivano debitori. Bocciando sistematicamente come cattivo il grano che avrebbe dovuto acquistare, e anche approfittando del fatto che molti coltivatori, spogliati dagli esattori delle decime, non avevano più grano da vendere, Verre ne pretendeva il valore in denaro, in virtù del suo diritto di acquisto. Con questo denaro avrebbe dovuto acquistare al mercato libero il quantitativo di grano di buona qualità che era tenuto a inviare a Roma. Invece, disponendo di tutto il sovrappiù di grano estorto nell 'esazione della decima, si limitava a prelevarne il quantitativo da inviare a Roma come "frumentum emptum", e teneva per sé sia le somme pretese dalle città, sia il denaro stanziato dallo Stato» (ibid.). Ecco perché Cicerone in quel processo dice pure: "L 'enormità dei suoi oltraggi è tale che la gente preferisce subire qualsiasi ritorsione piuttosto che protestare e lamentarsi per la sua scelleratezza". Esattamente come oggi, tempo in cui l 'unica alternativa all 'ingiustizia del tartassato è il suicidio. Cosa c'è infatti di diverso dai tempi odierni, con le istituzioni del tipo di Equitalia, per esempio? Verre è diventato il prototipo del tangentocrate incallito e del rapinatore legalizzato. "Si è calcolato che rubò all'erario romano oltre quaranta milioni di sesterzi e depredò la provincia in modo scientifico" (C.A. Brioschi, "Breve storia della corruzione dall'età antica ai giorni nostri". Ed. Tea, Milano, 2004). Faccio notare che un sesterzio di allora equivaleva al valore odierno di circa 6 euro! E non si può nemmeno dire che questa fosse un'eccezione o un caso unico, dato che "lo stesso Cicerone, che aveva un palese interesse nel presentarlo come un caso esemplare di avidità al potere, affermò al contrario che la sua condotta rappresentava la norma in buona parte dell'impero romano". Oltretutto, Plutarco narra che «Verre riuscì a corrompere lo stesso Cicerone, ottenendo di limitare l 'ammenda punitiva a "soli" tre milioni di sesterzi» (ibid.). Più o meno come oggi, era quindi "normale" che i magistrati (oggi magistrati e banchieri) si arricchissero grazie alla propria carica. Anche se nel caso di Verre si racconta che "le tangenti offerte ai giudicanti non furono comunque sufficienti ad assolvere l'imputato" (ibid.). Oggi la situazione è comunque peggiorata di molto rispetto a quei tempi!