Sull'errore di Giacinto Auriti
Propongo la lettura di
queste riflessioni su certi ragionamenti del professor Giacinto Auriti, che non
ho mai condiviso, come invece ho sempre condiviso la sua onesta e coraggiosa
denuncia per truffa dell'8 maggio 1993 presentata contro la banca d'Italia,
dimostrando che questa all'atto dell'emissione, presta denaro che invece
dovrebbe accreditare, truffando così la collettività, che da proprietaria
diventa debitrice del proprio denaro.
È mia convinzione che tale denuncia sia sostenuta da una logica di realtà, cioè
da un pensare poggiante su fatti reali, e che altri pensieri riguardanti
la concezione della moneta come fattispecie giuridica, poggino invece su logica
formale ma non sostanziale, e quindi inefficace al punto che gli fece perdere la
causa (cfr. la "Comparsa di costituzione e risposta" del tribunale civile di
Roma contro Giacinto Auriti del 20 settembre 1994).
Credo che Auriti ebbe coraggio nel mettersi contro il sistema bancocentrico ma
che non ebbe il coraggio ulteriore di vedere che tale sistema fu voluto
fortemente dallo Stato, il quale consolidò tale sistema mediante decreti legge
che dal 28 Aprile 1910 al 12 marzo 1936 concessero di fatto alla BCI il
monopolio di emissione dei soldi, grave errore.
Credo altresì che i problemi odierni del nostro Paese possano essere risolti
solo con la rimozione di questo errore, e che tale risoluzione esiga ulteriore
coraggio conoscitivo dei fatti reali, coraggio che non vedo ancora affacciarsi
da alcuna parte sia nella coscienza della classe politica, sia in quella degli
ignari cittadini che la eleggono.
Oggi bisognerebbe contrapporre per esempio al sito "bastaeuro" il sito "bastamonopolio",
perché il vero problema monetario che distrugge il futuro di tutti è
l'anacronismo di un monopolio che principia dal primo secolo dopo Cristo e che
di volta in volta è legalizzato dallo Stato ma, fino a prova contraria, mai fu
legittimato da alcun nativo della nazione italiana.
Nereo Villa Castell'Arquato, sabato di Pasqua 2014
Giacinto
Auriti attribuisce alla moneta la fattispecie giuridica, e questo è un errore.
Spiego il perché.
Auriti dice che la moneta non è “solamente la misura del valore, ma anche il valore della misura” (G. Auriti, “Il paese dell’utopia”, Ed. Tabula fati, Chieti, 2002, pag. 19) in quanto secondo lui l’unità di misura (“ogni unità di misura”) “ha necessariamente la qualità corrispondente a ciò che deve misurare” (ibid.).
Da questo presupposto egli evince poi il seguente sillogismo: “poiché ogni unità
di misura è una convenzione ed ogni convenzione è una fattispecie giuridica, la
moneta è una fattispecie giuridica”.
Il sillogismo è però sbagliato come il suo presupposto: ad una osservazione meno
superficiale delle unità di misura, risulta che non vi è alcuna intrinseca
necessità qualitativa fra l’oggetto misurabile e lo strumento di misura.
Infatti sostenendo che le unità di misura abbiano “necessariamente” le qualità
corrispondenti a ciò che devono misurare, il presupposto di Auriti afferma che
tali “qualità corrispondenti” NON siano intrinseche alle unità di misura, dato
che se fossero intrinseche a tali unità di misura, non avrebbero bisogno di
essere “corrispondenti” a queste.
L’orologio per esempio, pur misurando il tempo, non ha intrinsecamente in sé la
qualità del tempo: le sue lancette indicano semplicemente uno spazio percorso, a
cui NOI attribuiamo del tempo trascorso. Il tempo trascorso è dunque “qualità
corrispondente” allo spazio percorso dalle lancette, solo perché gliela
attribuiamo NOI.
Che noi attribuiamo del tempo allo spazio non significa però che lo spazio ed il
tempo abbiano intrinsecamente le stesse qualità. Se le avessero non avremmo
bisogno delle “qualità corrispondenti” che attribuiamo loro. Quindi l’unità di
misura non ha necessariamente in sé la qualità corrispondente a ciò che deve
misurare. O meglio ce l’ha solo perché siamo noi ad attribuirvela.
Per fare un altro esempio, ogni volta che con la nostra auto andiamo al
distributore, l’erogatore “sfarfalla” carburante secondo un dispositivo
calcolato precedentemente in base al rapporto fra il tempo di “erogazione
sfarfallante” e l’unità di misura “litro”. Però l’erogatore e l’unità di misura
litro, non hanno intrinsecamente né necessariamente la qualità della liquidità
che misurano.
Rispetto al misurante, l’elemento “qualitativo” del misurato, che Auriti chiama
in un esempio “lunghezza” (“qualità della lunghezza”), è già convenzione.
Infatti la lunghezza non può esistere come “qualità” se non in ordine ad una
convenzione. Senza una convenzione non può darsi alcuna lunghezza.
L’errore di Auriti consiste nel credere che la lunghezza sia spazio, o meglio,
nel non accorgersi che la misura di una lunghezza non è spazio ma una necessaria
relazione di pensiero. Una misurazione, e quindi una lunghezza, non è lo spazio,
ma una convenzione, astratta da una realtà che, in quanto tale, non è materia
fisica, bensì una forma di pensiero.
Auriti afferma che “il metro ha la qualità della lunghezza perché misura la
lunghezza” (ibid.). Così facendo parla della qualità della convenzione, perché
“metro” e “lunghezza” non sono altro che qualità convenzionali.
Con simili affermazioni, se non si caratterizza in modo non convenzionale la
“qualità della lunghezza” - e ciò mi sembra impossibile - si parla solo in modo
antilogico o secondo tautologia astrattizzata e fuorviante.
Quindi anche l’equazione di Auriti fra “metro” e “moneta” è antilogica. Egli
scrive: “Come il metro ha la qualità della lunghezza perché misura la lunghezza,
la moneta ha la qualità del valore perché misura il valore” (ibid.).
L’assurdità di questa equazione appare in tutta la sua evidenza nella misura in
cui si specificano essenzialmente i termini: «Come la convenzione “metro” ha la
qualità della convenzione “lunghezza” perché misura la convenzione “lunghezza”,
la convenzione “moneta” ha la qualità della convenzione “valore” perché misura
la convenzione “valore”».
A ciò Auriti aggiunge un’altra deduzione dicendo: “Sicché la moneta non è
solamente misura del valore, ma anche il valore della misura che è il potere
d’acquisto”. Mi pare che anche questa deduzione sia antilogica. In ogni caso la
logica di questo “sicché” resta, fino a prova contraria, oscura.
Il pensiero successivo è il sillogismo altrettanto oscuro che Auriti afferma:
“Poiché ogni unità di misura è una convenzione ed ogni convenzione è una
fattispecie giuridica, la moneta è una fattispecie giuridica”.
A chi accetta come valido questo ragionamento, bisognerebbe chiedere allora se
c’è nel mondo qualcosa che non sia fattispecie giuridica. “Fattispecie”
significa letteralmente “appartenenza di fatto” (Vocabolario etimologico
Pianigiani) ad una determinata specie di cose (ogni cosa che ha una forma
appartiene di fatto ad un giudizio di pensiero circa la sua specie). Ora, se si
crede che le cose che pensiamo siano, per il solo fatto che le pensiamo e le
giudichiamo, tutte fattispecie giuridiche, si può dire in astratto che la
moneta è fattispecie giuridica. Ma tale dire non rispecchia la realtà dei fatti,
dato che l’ambito giuridico è diverso da quello mercatorio in cui la
moneta è circolante. Se ciò è vero (cioè se è vero che l’ambito giuridico è diverso da quello mercatorio)
allora occorre correggere il tiro dicendo concretamente che la fattispecie della
moneta non è quella giuridica ma è quella mercatoria, o in generale, economica.
Distinguere è importante. E distinguere questi due ambiti lo possiamo fare solo
attraverso un terzo ambito, quello del pensare autonomo, cioè di un atto
interiore di libertà culturale. Le fattispecie che ogni uomo può distinguere in
sé sono perlomeno tre:
giuridica, mercatoria, e culturale, e tutte e tre riguardano l’attività
interiore dell’uomo.
Per
esempio in senso mercatorio io posso ritenere giusto distruggere gli agrumi per
far crescere il loro prezzo, però non posso ritenerlo giusto in senso giuridico
o culturale, dato che c'è gente che muore di fame.
In tal senso, ogni rapporto fra larghezza, lunghezza, e profondità delle cose, è
SEMPRE un atto interiore che in generale confondiamo con la loro percezione, la
cui forma, in realtà, è solo quella che si può pensare.
Dunque il pensare umano non è solo fattispecie giuridica come dimostra di credere Auriti con le seguenti parole conclusive del suo ragionamento: “dunque la
materia prima per fabbricare moneta è la medesima che serve a produrre
fattispecie giuridiche: forma e realtà spirituale ossia simbolo e convenzione
monetaria” (ibid.), il che mi ricorda tanto la celebre frase “Tu sei solo
chiacchiere e distintivo!” pronunciate da Al Capone” (nel film “Gli intoccabili”
di Brian De Palma).
Infatti la riduzione del pensare umano a fattispecie giuridica non è altro che
subconscia riaffermazione di un anacronistico monopolio emissorio di tipo
imperialistico e/o mafioso.
Occorre dunque accorgersi che Auriti sbaglia nell’attribuire alla moneta
la
fattispecie giuridica in quanto la fattispecie propria della moneta è quella
economica (e/o mercatoria). Che la moneta riguardi l'economia lo può
comprende anche un bambino. E così è sempre stato fin dall'infanzia dell'umanità
(cfr. a questo proposito la visione omerica in merito agli odierni errori circa
l'etimologia di "economia"
).
Da qui la necessità di rimuovere il monopolio dell’emissione monetaria concesso
dallo Stato alle banche di emissione. Lo Stato è dunque la vera ed unica causa della crisi economica
(monetaggio iniquo, o signoraggio, debito pubblico, ecc.).
Auriti ebbe il merito di denunciare la truffa dell’emissione di moneta creata
dal nulla. Ora però è necessario continuare questa sua denuncia, aggiungendo
quella dell’anacronistico monopolio emissorio, non degno di uno Stato
democratico moderno, che dovrebbe occuparsi solo di diritto e non più di
economia. Infatti il monopolio di emissione dei soldi è fattispecie
imperialistica ("Il periodo di primo sviluppo dei monopoli fu quello
ellenistico, nel quale fu esercitato sull’olio, sul sale, sul papiro, sui
prodotti della pesca, sulle miniere e sulle banche. Roma impose il suo primo
monopolio sulla coniazione delle monete nel I secolo d.c."; Oggi però non c'è più
l'imperatore... Anzi, sembra che non ci sia. Invece c'è, e consiste proprio
nella superstizione della moneta giuridicamente eterodiretta mentre dovrebbe
essere economicamente autodiretta (cfr. la citata esatta
etimologia di "economia"): in una
vera democrazia, ogni cittadino dovrebbe avere il diritto di emissione
monetaria, ed il compito dello Stato di diritto dovrebbe essere, appunto,
quello di garantire tale diritto. Invece lo Stato fa esattamente l'opposto: lo
monopolizza (monocrazia). E con ciò avversa paradossalmente se stesso, cioè la
sovranità monetaria che dovrebbe essere garantita per ogni nativo capace
di produrre merci da mettere nel mercato nazionale e sovranazionale (moneta
compresa, dato che anche la moneta una merce, ed il suo monetaggio è una
questione prettamente economica).
Si veda anche: http://digilander.libero.it/VNereo/risposta-allo-zelota-arenato-nel-diritto-di-stato.htm (gennaio 2016)