Umberto Bartocci

STORIA DELLA FORMULA DEL MITO NWO

(New Word Order - Nuovo Ordine Mondiale)

Titolo originale:
Albert Einstein e Olinto De Pretto
La vera storia della formula più famosa del mondo
a cura di Nereo Villa

 

Dedica - Ringraziamenti - La terrificante energia dell'atomo e la teoria della relatività - Cosa afferma in sostanza la teoria di Einstein - Quali possibili alternative? La concezione fluidodinamica dell'universo - L'equivalenza massa-energia - L'"Ipotesi dell'etere nella vita dell'universo" - Olinto De Pretto e Michele Besso - Sulla genesi di questo libro
 

Per meglio evidenziarle ho scritto con caratteri maiuscoli le parole in corsivo del libro ed ho evidenziato nel medesimo modo altre parti di testo, anche nelle Note, anch'esse da studiare con attenzione. Tutte le parti da me sottolineate sono sempre accompagnate dalla nota "Mdc" fra parentesi quadrate: [Mdc] (ovvero: Maiuscolo del curatore). Per la Nota biografica circa Olinto De Pretto, curata da Bianca Mirella Bonicelli, per le testimonianze su questo studioso e per la sua opera completa rimando per ora al PDF del testo integrale di questo libro: "depretto-2006". Buono studio!

Nereo, Prato Barbieri 5 luglio 2017

 

 

Perché è necessario e urgente studiare a fondo il contenuto di questo libro:

- per affrontare con coraggio argomenti che il potere e la convenienza politica non vogliono discutere, assecondati dalla prudenza di intellettuali servili, che non escono dal conformismo dei giudizi e delle interpretazioni che sanno lecite e gradite, e consentono vita tranquilla e facili carriere;
- per ricercare quei piccoli indizi che sfuggono a chi controlla i nostri indirizzi culturali e, mostrando crepe e contraddizioni nel sistema di pensiero che ci è proposto come unico legittimo, permettono così di intravedere ciò che si svolge realmente dietro le quinte;

- per riconoscere nella ricerca della verità un'esigenza insopprimibile dell'essere umano, e promuovere tale finalità in modo assolutamente incondizionato, senza nessun vincolo di ordine contenutistico o formale, metodologico o programmatico, nella persuasione che verità e libertà - di pensiero, di espressione, di coscienza - sono due facce della stessa medaglia, e che non può darsi l'una senza l'altra.
- per reagire alla moderna sottile inquisizione dei tanti "uomini in nero" che affollano scuole, università, mezzi di comunicazione, e svolgono, talvolta anche inconsapevolmente, il ruolo di cani da guardia di un sistema che sfavorisce ogni forma di reale pensiero alternativo, e cerca di eliminare screditandole a priori tutte le ricerche che rischiano di metterne in crisi l'autorevolezza.

A Francesca gentile, che con la sua discreta presenza e il suo amore senza pretese

mi ha donato un po' di forza per rialzarmi e riprendere un difficile cammino

Ho rivelato queste cose agli umili e ai semplici,

e le ho tenute nascoste ai ricchi e ai potenti...
 

Dedica - L'autore dedica questo lavoro, con profonda stima per le loro qualità di uomini e di scienziati, agli indimenticabili amici Ing. Arch. Piero Zorzi (scomparso prematuramente nel gennaio del 1991, proprio quando questo scritto, il cui contenuto era già stato succintamente presentato al LXXVI Congresso della Società Italiana di Fisica, tenutosi a Trento nel mese di Ottobre del 1990, stava per essere completato nella sua prima versione), ed al suo inseparabile compagno di studi e ricerche Prof. Omero Speri (scomparso anch'egli nel 1995). È ad essi che si deve se la memoria originale del De Pretto è stata riportata alla luce, attraverso una corretta valutazione non soltanto del suo valore in sé, ma anche della sua importanza in relazione ai primi lavori di Albert Einstein sulla teoria della relatività ristretta. Senza l'apporto di questi due studiosi, pensatori originali ed acuti indagatori dei fenomeni naturali - tanto da essere stati tra i primi ad ipotizzare la possibilità dell'esistenza di processi di "fusione a bassa energia" in alcuni eventi spontanei biologici e geologici, e ad aver tentato di ripeterli artificialmente in laboratorio - il presente contributo alle origini storiche della teoria della relatività non avrebbe mai visto la luce.

 

Ringraziamenti

 

L'autore desidera esplicitamente sottolineare che non gli sarebbe stato possibile portare a compimento questo lavoro nella presente forma senza la preziosa fattiva collaborazione della Dott.ssa Bianca Mirella Bonicelli, diretta discendente di Silvio De Pretto, fratello di Olinto, la quale gli ha cortesemente fornito tante indispensabili informazioni, oltre ad aver curato la nota biografica apposta in appendice, nella quale si ricostruiscono in modo brillante l'ambiente ed i tempi dello scienziato di Schio.

Si menzionano anche il Sig. Silvano Besso, che ha aiutato a chiarire qualche punto oscuro relativo alla storia della sua famiglia, e i Proff. Silvio Bergia, Giorgio Dragoni, e la Sig.ra Paola Fortuzzi, del Dipartimento di Fisica dell'Università di Bologna, per la loro cortese disponibilità in ordine alla consultazione di materiale bibliografico presso la Biblioteca di quel Dipartimento
.

L'autore ringrazia infine gli amici Roberto Monti e Rocco Vittorio Macrì, compagni isolati nella condivisione delle critiche alla teoria della relatività [Maiuscolo del curatore = Mdc], che lo hanno fatto sempre sentire meno solo (il primo dei due va ricordato in modo speciale non solo per diverse interessanti informazioni utilizzate nel seguito del libro, ma anche per avere aiutato l'autore a 'crescere' quale egli attualmente è).

 

Capitolo I


La terrificante energia dell'atomo e la teoria della relatività

 

Se chiedete ad un qualsiasi uomo di scienza quando la più famosa formula della fisica sia stata concepita vi risponderà senza dubbio che fu nel 1905 che Albert Einstein, considerato ai nostri giorni il più grande scienziato di tutti i tempi, pubblicò la sua congettura [evidenziazione in maiuscolo mia - ndc] secondo la quale la massa di un qualsiasi corpo, come dire il suo contenuto di materia, non è altro che una misura dell'energia che esso è in grado di produrre, nella famosa proporzione:

 

E (energia) = m (massa) per la velocità della luce,

che viene indicata solitamente con la lettera c, al quadrato,

 
ovvero, più sinteticamente, come tutti sanno:

 

E = mc².

 

Al primo membro di questa equazione troviamo l'energia totale E, racchiusa in un qualsiasi corpo fisico, ed al secondo la sua massa m, moltiplicata per il quadrato della "costante universale" c (costante almeno secondo la teoria della relatività einsteiniana), vale a dire la velocità della luce nel "vuoto", pari a circa 300.000 Km al secondo. L'equazione si dice esprimere l'equivalenza tra massa ed energia, perché va intesa non soltanto nel senso che una massa è capace di produrre energia, esperienza che tutti abbiamo fatto bruciando un pezzo di legno in un camino per ricavarne calore, ma anche viceversa che l'energia è capace sotto certe condizioni di trasformarsi in massa, in materia. La formula precedente va interpretata in altre parole nel senso di una totale convertibilità, quasi identità tra i due termini, anche se ciò che interessa naturalmente per le applicazioni pratiche è piuttosto il passaggio da m ad E che non quello inverso!

Per quanto riguarda quest'ultimo, deve comprendersi bene che un siffatto grande valore come il quadrato della velocità della luce al secondo membro della precedente formula fornisce un valore molto alto per l'energia situata al primo membro, anche soltanto a partire da una sola unità di massa, ed in effetti è oggi opinione comune che l'equazione in parola ricevette la più terribile delle conferme dalle esplosioni nucleari che devastarono alla fine del secondo conflitto mondiale le sventurate città giapponesi di Hiroshima e Nagasaki [Mdc]. Fu allora che tutto il mondo, attonito, dovette prendere ufficialmente atto della reale esistenza dell'energia contenuta nell'atomo: un'energia enorme, nascosta in ogni grammo di materia, capace di produrre una trasformazione senza precedenti nella storia dell'umanità, fornendo alle nazioni capaci di controllarla un predominio assoluto su tutte le altre.

Tale possibilità, si dice [Mdc], era stata prevista sin dal 1905 da Albert Einstein, e come vedremo quasi un corollario alla sua teoria della relatività, la quale sembrò ricevere quindi da quelle immani catastrofi una delle conferme più spettacolari di tutta la storia della scienza. Ed in verità, il ruolo di Einstein in tale occasione non si limitò a quello del lontano precursore teorico: fu proprio lui ad intervenire, con tutto il peso della propria autorevolezza scientifica, a favore del celebre "Progetto Manhattan" (1) con due lettere (1939-1940) indirizzate all'allora Presidente degli Stati Uniti d'America Franklin Delano Roosevelt, quando si facevano più insistenti le voci relative alle ricerche da parte degli scienziati del III Reich aventi per obiettivo la costruzione di una superbomba capace di capovolgere le sorti di un prevedibile futuro conflitto. Citiamo dalla prima di queste: "Signor Presidente, alcune ricerche svolte recentemente da Enrico Fermi e Leo Szilard, di cui mi è stata data comunicazione in manoscritto, mi inducono a ritenere che un elemento, l'uranio, possa essere trasformato nell'immediato futuro in una nuova ed importante fonte d'energia..." (corsivo aggiunto).

Il fatto che la fisica di questo secolo sia stata così profondamente coinvolta in avvenimenti di questa portata rende naturalmente ogni discussione su di essa assai delicata, ed ogni critica sospetta quasi di 'alto tradimento', per non dire di peggio. I 'fisici', o gli scienziati in generale, sono divenuti oggetto della venerazione popolare, la loro opinione è ricercata dai mezzi di informazione ed accolta come un tempo venivano accolti i pareri dei nobili o dei principi della Chiesa, i loro 'drammi' psicologici, i loro dubbi, fatti oggetto dell'attenzione di scrittori e registi: ricordiamo come caso esemplare il dramma "I fisici", di Friedrich Dürrenmatt (Einaudi, 1972).
 

Qualsiasi possa essere il giudizio etico di ciascuno di noi su quei non troppo lontani avvenimenti, e sul comportamento degli scienziati che vi furono coinvolti, non si possono non ricordare le lucidissime parole di uno dei pochi, per non dire l'unico, tra i protagonisti che ebbero il coraggio di effettuare una scelta radicalmente antitetica. Si tratta di Franco Rasetti, uno dei famosi "ragazzi di via Panisperna", che lavorarono alla fissione dell'atomo sotto la guida di Enrico Fermi, e che espresse nel 1945, in una lettera ad Enrico Persico, un altro
compagno di studi di Fermi, il seguente pensiero: "Sono riuscito talmente disgustato delle ultime applicazioni della fisica (con cui, se Dio vuole, sono riuscito a non avere nulla a che fare) che penso seriamente di non occuparmi più che di geologia e di biologia" (e Rasetti mantenne la promessa!). Persico rispose ammettendo che era "un vero peccato che la fisica si sia così contaminata con interessi politici e militari, ma credo che al punto in cui erano le cose ciò era praticamente inevitabile e non se ne possa far colpa a nessuno".
 

Il lettore interessato potrà trovare eco di questa polemica in Edoardo Amaldi, "Da via Panisperna all'America", a cura di Giovanni Battimelli e Michelangelo De Maria (Editori Riuniti, Roma, 1997), nel quale i curatori commentano al riguardo dicendo che: "Se si può restare affascinati di fronte alla coerenza morale degli argomenti di Rasetti, non si può tuttavia evitare di rilevare che la sua condanna della bomba nucleare e dei fisici che l'avevano realizzata prescinde totalmente, con un distacco aristocratico e 'apolitico' dalla storia, da qualsiasi giudizio sulle circostanze di quegli anni - la guerra mondiale scatenata dai nazisti e la paura che Hitler arrivasse primo alla bomba atomica - che avevano motivato l'impegno nel Progetto Manhattan di molti scienziati, e in particolare dei suoi antichi amici Fermi, Rossi e Segrè", dimenticando però che, quando le bombe, per qualsiasi 'buona ragione' costruite, furono fatte esplodere, la Germania nazista era già capitolata, ed il Giappone era ormai alla resa... [Mdc].

Comunque sia, quella accennata è certamente una delle ragioni per cui il 1905 viene considerato nella storia della fisica di questo secolo come uno degli anni più significativi, e tanto più se si tiene conto di altri ben 4 lavori pubblicati in quello stesso anno dal fino allora quasi sconosciuto Albert Einstein. Uno di essi, quello sull'effetto fotoelettrico, gli valse addirittura il premio Nobel, anche se soltanto nel 1921, o, come vedremo più esattamente, nel 1922, attraverso vicissitudini che val forse la pena di rammentare.

Accade infatti che questo riconoscimento sia stato assegnato ad Einstein per le sue ricerche sull'effetto fotoelettrico, e non per la sua 'creatura' scientifica più nota, vale a dire la teoria della relatività, sicché la motivazione ufficiale non può non essere considerata niente più che un ripiego, per un premio che 'doveva' essere comunque assegnato ad Einstein, per presumibili 'intese' che esulavano dall'ambito strettamente scientifico [Mdc]. Il fatto è che questi rappresentava al tempo sostanzialmente l'unico scienziato sul quale la fisica tedesca poteva far leva per riprendere il suo ruolo di leadership mondiale dopo la Grande Guerra, durante la quale tutti gli altri fisici tedeschi, con appunto quell'eccezione, si erano schierati apertamente su posizioni nazionaliste, sottoscrivendo una dichiarazione a favore delle ragioni degli Imperi Centrali nel conflitto. La conseguenza fu, al termine delle ostilità, che essi si trovarono emarginati dalle potenze vincitrici, tanto da non essere più invitati a convegni o ad altre occasioni del genere. È in questo contesto, ma non solo, come avremo presto l'occasione di discutere, che si cominciò ad operare su larga scala per costruire il mito del grande scienziato [Mdc], ed è, ad esempio, circostanza poco nota che Einstein era così sicuro di ricevere il premio che gli era stato promesso sin da alcuni anni prima che ciò effettivamente si sarebbe verificato, tanto da farne menzione nell'atto di divorzio, sottoscritto nel 1919, dalla prima moglie Mileva Maric, alla quale sarebbe dovuto andare il relativo importo.


Per quanto riguarda poi la motivazione per il Nobel, si incontrarono troppe obiezioni a che fosse menzionata per esso la teoria della relatività, che, nonostante oggi si pretenda limpidissima costruzione intellettuale, e come tale somministrata agli studenti di fisica sin dai primi anni senza fare troppe storie, all'epoca contava invece ancora molti autorevoli critici. Il fatto è che le bombe atomiche non erano
ancora esplose, il raccordo tra relatività ed equivalenza massa-energia non aveva ancora prodotto i suoi frutti concettuali, e non era evidentemente bastata tutta la 'propaganda' che era stata messa in atto a favore della relatività al tempo delle celebri osservazioni di Eddington (1919). Ricordiamo che questi avrebbe 'confermato' con le sue misurazioni nel corso di un'eclisse le previsioni della teoria della relatività generale in ordine ad una prevista deflessione dei raggi luminosi in prossimità di un campo gravitazionale, ed i risultati della spedizione furono diffusi con grande clamore. Peccato per l'obiettività della scienza che sia meglio stendere un velo pietoso sull'imparzialità dimostrata dall'astronomo inglese in tale occasione, e sul modo con il quale selezionò accuratamente le poche misure favorevoli alle previsioni di Einstein, ignorando tutte le altre (2).

Naturalmente, nell'importante, ma scritta con intenti apologetici, biografia di Abraham Pais ("'Subtle is the Lord...' "The Science and the Life of Albert Einstein", Oxford University Press, 1982) non si fa cenno a queste 'voci', ma si può desumere comunque (pp. 502 e segg.) come al tempo ci fossero ancora forti resistenze all'accettazione della teoria della relatività, per le sue caratteristiche del tutto contro-intuitive [Mdc] avremo modo di discuterle più avanti - che la rendevano sgradevole anche a molti pur eminenti intelletti. Nell'approfondito ed abbastanza neutrale testo di Stanley Goldberg "Understanding Relativity - Origin and Impact of a Scientific Revolution" (Clarendon Press, Oxford, 1984), che compie un'analisi ampia e rigorosa sull'accoglienza riservata alla teoria della relatività, sulle sue accettazioni e sui suoi rifiuti, si trovano invece conferme (p. 153) dell'opinione che fu solo dopo [Mdc] il così rumoroso successo dell'esplosione della bomba atomica, considerata la prova più appariscente ed indiscutibile della trasformazione della materia in energia prevista da Einstein, che la teoria della relatività si è definitivamente affermata (3).

L'opinione comune riguardo al valore della teoria di Einstein è oggi arrivata addirittura al punto che si possono esprimere correntemente opinioni di questo genere (corsivi aggiunti): "La possibilità che un dubbio sulla teoria della relatività possa essere accolto è la stessa che avrebbe un dubbio sul sistema copernicano" (Tullio Regge, "Cronache dell'Universo", Ed. Boringhieri, Torino, 1981); "Nessun fisico, a meno che sia folle, può mettere in dubbio la teoria della relatività" (Isaac Asimov, "The two masses", Mercury Press, 1984); "Special relativity: Beyond a Shadow of a Doubt" (Clifford Will, "Was Einstein right?", Oxford University Press, 1988); e così via, le quali hanno l'ovvia conseguenza che, chi invece qualche dubbio in cuor suo lo avverta, si faccia forza e lo taccia, appunto per la vergogna (4) di poter essere considerato un "folle", o, e chissà cos'è sentita come peggiore, una persona corta d'intelletto, che nutre dei dubbi soltanto perché non ce la fa a capire quello che invece tutti gli altri capiscono benissimo (5).

È abbastanza comico peraltro osservare che in siffatti termini di 'sicurezza' si esprimevano anche i fisici della fine del secolo scorso quando difendevano invece la teoria dell'etere - che è, come vedremo nel prossimo capitolo 3, la principale rivale della teoria della relatività - la quale era allora ben viva e vegeta: "L'unica nube nel cielo limpido della teoria dell'etere è il risultato dell'esperimento di Michelson-Morley" (di cui pure presto diremo), Lord Kelvin, 1900; "La probabilità dell'ipotesi dell'etere sfiora la certezza", Chwolson, 1902; mentre è per contro abbastanza drammatico che le condizioni nelle quali versa attualmente la fisica teorica del nostro Secolo diano
origine a difficoltà intellettuali quali quelle in cui mostra di dibattersi un certo G. Della Casa (6). Questo autore presta evidentemente troppa attenzione alle speculazioni degli scienziati, e troppa fede nella superiorità delle loro argomentazioni, probabilmente perché, al contrario di quelle dei 'filosofi', basate sui 'fatti', e quindi più certe. Scrive di conseguenza: "Bisogna ammettere che non si riesce a farsi
un'immagine mentale soddisfacente di certe astrazioni della fisica moderna, ma tali difficoltà non possono essere considerate come argomenti validi contro una visione del mondo che ha dalla sua parte l'esperienza e la logica. La causa di queste difficoltà deve pertanto ricercarsi nella nostra struttura o nell'inerzia a modificare abiti mentali di lungo uso [...] [la teoria della relatività] non si addice troppo al modo di funzionare del nostro povero cervello di mammiferi primati"!

Ed appunto quale povero mammifero primate che il presente autore si permette di esortare il lettore a considerare invece quanto mai azzardate le varie speculazioni filosofiche che si appoggiano sulle teorie oggi più accreditate della fisica contemporanea, all'unico scopo di ricevere così una sorta di attestato di maggiore "credibilità" rispetto ad altre che non mettono in atto tale espediente. Facendo così dimostrerebbe di ignorare che i pretesi 'fatti' non sono sovente altro che "implicazioni remote di teorie possibilmente erronee" (7), e che nella pratica scientifica attuale si apprezza di più la produzione di ricette efficaci allo sviluppo della tecnica, che non la formulazione di teorie sulla realtà naturale che siano tra loro logicamente consistenti. In effetti il quadro conoscitivo che offre la nostra attuale fisica teorica è ben descritto dal famoso matematico René Thom, uno dei pochi ingegni che ai nostri giorni ha il coraggio di dire che: "I fisici in genere sono delle persone che, da una teoria concettualmente mal messa, deducono dei risultati numerici che arrivano alla settima cifra decimale, e poi verificano questa teoria intellettualmente poco soddisfacente cercando l'accordo alla settima cifra decimale con i dati sperimentali! Si ha così un orribile miscuglio tra la scorrettezza dei concetti di base ed una precisione numerica fantastica [...] purtroppo pretendono di ricavare un risultato numericamente molto rigoroso da teorie che concettualmente non hanno né capo né coda" (corsivi aggiunti) (8).

Per coloro che non hanno voglia di affrontare certi problemi fondazionali risulta quindi utilissima l'assurda connessione della teoria della relatività con la questione generale della II Guerra Mondiale, del nazismo e dell'antisemitismo [Mdc] (9), dal momento che questa sorta di rimando ideologico ha fatto sì che a critiche anche fondate si sia instaurata l'abitudine, considerata più che giustificata, di non rispondere affatto (ma vedremo più avanti che la strategia di non rispondere viene applicata anche in assenza di siffatte coperture pseudo-politiche); addirittura, nei casi più rozzi, con il semplice espediente di assimilare quasi gli autori delle critiche ai responsabili dell'Olocausto, e di emarginarli quindi immediatamente dagli ambienti accademici nei quali ci si fa un punto d'onore di essere "politicamente corretti", a prezzo talvolta anche della 'verità', della morale e dell'obiettività scientifica.

Merita forse a questo proposito illustrare quanto asserito con una quasi incredibile testimonianza personale del presente autore. Questi infatti, accogliendo un suggerimento del citato amico e 'compagno di studi' Rocco Vittorio Macrì, ha promosso recentemente, insieme ad altri, un convegno internazionale dedicato a "Cartesio e la scienza", con l'intento di celebrare il IV centenario della nascita del grande filosofo francese, e di approfittare dell'occasione per tentare di riproporre l'attenzione sulla posizione centrale che il pensiero cartesiano dovrebbe occupare nella storia della fisica (di ciò riparleremo nel capitolo 3). Un po' dopo la fine del convegno, e quindi 'a freddo' (si era per l'esattezza nel mese di Novembre; l'incontro si era svolto presso il Dipartimento di Matematica dell'Università di Perugia dal 4 al 7 Settembre 1996), comparve sulla rivista "Micropolis", un supplemento mensile del quotidiano "Il Manifesto", un articolo (il nome del cui autore non val la pena citare) che riferiva all'organizzazione del convegno, definito una "cloaca [...] pestilenziale ed oscena", l'appellativo "Una cattiva azione", e proseguiva poi con accuse di irrazionalismo, quello stesso irrazionalismo di cui "si è nutrito il fascismo". Il commentatore proseguiva nella sua foga intimidatoria avvertendo anche che "Di questa cattiva azione, i responsabili, in una forma o nell'altra, un giorno o l'altro, dovranno pur rendere conto. Noi ci staremo attenti. Terremo gli occhi aperti. Caccia alle streghe? No! Caccia ai cretini [Mdc] (forse non così irresponsabili come sembra) che minano la democrazia"! Ed ecco così dimostrata almeno in un caso la connessione latente "critica alla scienza - attacco alla democrazia" di cui stiamo qui parlando. Un tale ridicolo attacco non è stato senza conseguenze, dal momento che premurosi colleghi si sono precipitati a chiedere preoccupati in sedi ufficiali quale potesse essere il danno in termini di 'immagine' che siffatte polemiche possono avere arrecato al 'prestigio' delle strutture di cui lo scrivente fa ancora parte (e suggerendo quindi che tali attività non fossero più nel futuro autorizzate). Ma qual è il peccato che viene rimproverato agli organizzatori da parte di questo misterioso gruppo di vigilanza, naturalmente se quel "Noi" non è un plurale majestatis che l'articolista si concede quale auto-ricompensa per la propria integrità morale? Di avere concesso in una sede universitaria libertà di parola, in onore di Cartesio e del suo "dubbio sistematico" nei riguardi di ogni imposizione culturale, a tutti coloro che, anche non dell''ambiente', si sentissero comunque capaci di portare qualche 'critica' nei confronti delle teorie correnti, o qualche contributo che avesse trovato difficile ascolto attraverso i normali canali della comunità scientifica - di solito così in altre faccende affaccendata da non aver tempo di concedere almeno un po' di soddisfazione a quelle poche persone che si occupano ancora per diletto di questioni scientifiche (ma al convegno hanno anche partecipato illustri personalità del mondo scientifico 'ufficiale', quali il René Thom dianzi citato, o il Waldyr A. Rodrigues che pure citeremo poco più avanti; e l'autore cessa qui l'elencazione per non fare ulteriore torto a nessuno). La concessione di mezz'ora di tempo per un intervento libero viene definita frutto di "insana stupidità", che non può giustificarsi con uno "pseudo-liberalismo", soprattutto perché "Non si gioca con l'oscurantismo quando 'è ancora gravido il ventre della bestia immonda'" (10). Di fronte a tanta violenza verbale di una persona (o di persone) che, pur professandosi sinceramente democratiche, sono evidentemente di opinione fortemente contraria a quella di Pietro Abelardo, secondo il quale "Nessuna dottrina è così falsa da non contenere qualche verità [...] nessuna discussione tanto frivola da non poter trarre da essa qualche insegnamento" (11), c'è da stupirsi poi se la maggioranza dei responsabili dell'educazione delle future generazioni cerca soprattutto di vivere tranquilla, e si preoccupa principalmente di stringere e mantenere alleanze che consentano qualche possibilità di carriera e di 'onori' a se stessi ed ai propri 'protetti'?!  [Mdc].

Nei confronti delle diverse concezioni che possono proporsi in alternativa con l'impostazione einsteiniana (e di cui diremo brevemente nel prossimo capitolo 3) non si può neanche mostrare qualche interesse, sia pure con la scusa di qualche finalità puramente 'storica': all'affermazione di Einstein e dei suoi seguaci si è accompagnato un vero e proprio atteggiamento di dileggio e di compatimento nei confronti dei sopravvissuti irriducibili avversari di concetti quali la dilatazione dei tempi, cronotopi curvi, quarte e quinte dimensioni, "big-bang" e "big-crunch", etc.. Oggi chi osasse parlare negli ambienti scientifici in modo serio di "etere" o di altre consimili questioni, passerebbe per un ignorante, un oscurantista, o peggio per un provocatore, come colui che intervenisse ad un convegno medico riproponendo agli astanti l'importanza dell'influsso degli astri nell'evoluzione di una qualche malattia; un inguaribile nostalgico, che dimostra con il suo comportamento di voler restare fuori dal progresso scientifico, irrimediabilmente legato a teorie che non rappresentano altro che "il ciarpame della storia della stupidità umana" [Mdc] (12). In realtà, a parte il fatto che ciascuno ha il diritto di fare tutte le ipotesi che vuole su tutto quanto non si sa per certo, e che è poi in fondo quasi tutto (13), quella che dà più fastidio nel tipo di fenomeno sociologico descritto è la confusione di campo che ne risulta: dove sono in effetti il razionalismo e l'irrazionalismo, per ciò che questi due termini possono ancora significare [Mdc]? Nella parte degli anti-relativisti, come chi scrive queste pagine, che vorrebbero una 'fisica razionale', nella quale spazio e tempo significano quel che hanno sempre significato per il nostro intelletto, ed ha senso pensare ad oggetti in modo indipendente dagli osservatori, a relazioni di causa ed effetto tra eventi, etc.? O in quella di chi, usando descrizioni di tipo matematico sempre più avulse dalla 'realtà' e dalla logica naturale [Mdc - Rudolf Steiner avrebbe qui sintetizzato scrivendo "AVULSE DA LOGICA DI REALTà"], pretende di sostenere che un evento che appartiene al futuro di un osservatore è nel passato di un altro, la possibilità di viaggi nel passato e nel futuro (magari passando attraverso un "buco nero"), o di bilocazioni [Mdc] (14)?

E non si pensi al solito che si stia qui esagerando: è il famoso relativista Arthur Eddington, di cui abbiamo già parlato a proposito della sua 'imparzialità scientifica', ad informarci nel suo "Spazio, Tempo e Gravitazione" (Ed. Boringhieri, Torino, 1971) che "qualsiasi entità con una velocità superiore a quella della luce potrebbe essere in due luoghi nello stesso tempo" [:D :D :D - ndc]. Va da sé, la teoria di Einstein non prevede la possibilità di un superamento della velocità della luce, ma oggi che di questa possibilità si comincia a parlare sempre più spesso (15) ed anche concretamente (si è annunciato che il fisico Gunter Nimtz a Colonia avrebbe inviato un messaggio contenente la sinfonia N. 40 di Mozart a velocità diverse volte superiore a quella della luce) ecco che tali fenomeni di ubiquità dovrebbero cominciare ad essere presi in più seria condiderazione!

Per tornare al punto, va anche tenuto ben presente, soprattutto da parte di coloro che sono più indifesi sotto certi aspetti, che la circostanza che certe teorie siano espresse nel linguaggio della matematica non vuol dire assolutamente nulla in ordine alla loro eventuale significatività, o al loro maggiore valore nei confronti di altre teorie che non hanno le stesse credenziali formali, dal momento che la matematica è come il cappello di un prestigiatore, da cui può uscire fuori qualsiasi cosa vi sia stata messa dentro prima [Mdc: credo che qui Bartocci abbia voluto intendere che la matematica è STATA così RIDOTTA oggi nelle mani di questi animali pensanti]. Chi è abile nel suo trattamento può utilizzarla per sostenere tesi di qualsiasi tipo, anche se naturalmente spesso attraverso contaminazioni occulte tra diversi livelli del discorso. Non c'è nulla di così assurdo che un buon matematico non sarebbe capace di descrivere con qualche struttura, purché naturalmente non contraddittorio: basta battezzare una certa funzione cervellotica con il nome di 'tempo', ed ecco che poi questo tempo può avere un'origine e una fine, e quant'altro si vuole (16). Una matematica che si trasforma, con grande dolore del presente autore che è un matematico di formazione, in una sorta di latinorum per diversi moderni don Abbondio, che la utilizzano come espediente retorico per giustificare mode culturali o ben di peggio [Mdc] (17), confondendo la testa alla gente ed allontanando gli intelletti più sensibili dalla 'scienza'. Chi di noi non ha presente qualcuno di quei libri che vaneggiano di immaginarie corrispondenze tra le concezioni cosmologiche moderne ed apocrifi testi pseudo-orientali, o para-normalisti che invocano a sostegno della possibilità dei fenomeni da loro descritti l'autorevolezza di teorie quali la relatività o la meccanica quantistica? Niente divisione tra 'amici' o 'nemici' della scienza dunque, tanto più se la si volesse utilizzare per porre un libro come questo nella schiera dei nemici; ma se la si vuole per forza introdurre, che allora si comprenda almeno bene chi è il vero nemico, e chi no!

Ritorniamo ancora una volta a cercare di persuadere il lettore del fatto che lo sconsolante quadro descritto non sia un'esagerazione, informandolo che addirittura si ritenne nel 1985 (proprio così, non nel 1685!) "non idoneo all'insegnamento nelle Università quale professore
associato" il fisico palermitano Giuseppe Cannata, a lungo docente di fisica presso l'Ateneo di quella città, noto per alcuni suoi tentativi di rivitalizzazione del concetto di etere (vedi il successivo capitolo 3), con la motivazione che le sue interessanti ricerche "si ostinano ad indulgere a idee [...] che dimenticano che la fisica moderna ha nella teoria della relatività una delle spiegazioni più semplici", e che quindi
"tali posizioni sono evidentemente sbagliate ed arretrate" (18). Per il
 

generale atteggiamento persecutorio ed intollerante [Mdc] in proposito della comunità scientifica internazionale [Mdc] (considerata almeno a livello dei suoi "quadri dirigenti", visto che si può ritenere fondatamente che la gran parte dei suoi componenti, ovvero la maggioranza dei 'professori', sia soltanto sotto l'effetto di quella "vergogna" di cui si parlava poc'anzi), si possono consultare ad esempio i tre volumi, fortemente autobiografici, del fisico-matematico Ruggero Maria Santilli ("Documentation - Il Grande Grido", The Institut for Basic Research, Cambridge, Massachusetts, USA, 1984), o quelli del fisico bulgaro Stefan Marinov, "The Thorny Way of Truth", East-West, Graz, nove volumi stampati in proprio dall'autore negli anni dal 1982 fino al 1991 (dal 1992, e fino alla morte, sopraggiunta per una tragica scelta nel 1997, l'autore curò la pubblicazione di una sua personale rivista, dal titolo estremamente significativo di "Deutsche Physik").

Tutto ciò mostra evidentemente che 'l'affare relatività' [Mdc] coinvolge questioni non soltanto scientifiche ma anche ideologiche, o addirittura politiche, e la spiegazione di questo fenomeno può essere trovata nello studio del processo "storico" e delle "cause" di varia natura che portarono all'affermazione così indiscussa e reclamizzata del "personaggio" Albert Einstein [Mdc] e delle sue teorie (19).

Fatto sta che furono proprio i contrasti al tempo ancora vivi nei confronti della relatività la causa della non attribuzione del premio Nobel per la fisica relativo all'anno 1921 [Mdc], e quando si legge il nome di Einstein vicino a questa data nell'elenco degli insigniti dal riconoscimento bisognerebbe ricordare che i fautori di Einstein dovettero comunque accettare un'altra motivazione per il premio, rinunciando a veder citata la teoria della relatività, e che esso fu assegnato soltanto nell'anno successivo - con i fondi del 1921, che erano stati appunto inutilizzati - sicché nel 1922 ci furono in realtà due distinti premi Nobel per la fisica (20)!

Ecco quindi che appare giustamente fondato un particolare interesse per l'equazione in parola, e per la sua asserita connessione con la teoria della relatività, che saranno l'oggetto delle riflessioni esposte in questo libro. Ripetiamo che questa equazione, oltre ad essere stata tra le varie previsioni relativistiche quella forse meglio verificata dal

 

 

punto di vista sperimentale, grazie anche al successivo sviluppo della fisica delle particelle, fu anche certamente uno degli elementi più influenti a favore dell'affermazione definitiva di una teoria la quale, se la formula in parola può dirsi appunto più che celebre, potrebbe essere fondatamente definita la più famosa al livello popolare delle teorie scientifiche del XX Secolo. Oggi si sente parlare anche a sproposito di relatività in films ed in romanzi, e la sua conoscenza viene assurta
paradigmaticamente a 'campione' per la misura delle capacità intellettuali di una persona [
Mdc]. Per comprendere allora meglio il senso di questo libro, e soprattutto agevolare il confronto tra le idee di Einstein e quelle esposte nel successivo capitolo 9, conviene dare qualche ragguaglio su quale sia il significato essenziale di questa teoria, e perché sia capace di suscitare così profondi amori od altrettanto profonde avversioni (ed il lettore avrà già capito che chi scrive queste pagine è sotto l'influenza di una di queste ultime!). Sentimenti questi la cui presenza in discussioni di questo genere riuscirà forse incomprensibile a chi, pensando si tratti comunque di scienza, sia indotto a credere che i suoi contenuti ed i suoi metodi oggettivi siano in grado di allontanare da essa la contaminazione proveniente da queste passioni dell'anima, inevitabilmente presenti invece in altro tipo di indagini, quali quelle storiche, filosofiche, sociologiche, etc.. Sarà allora risultato non secondario della fatica dell'autore se riuscirà a persuadere almeno che, come nell'ambito di tutte le attività dell'uomo, anche nel campo della scienza, e delle sue diatribe, si ritrovano pienamente dispiegate tutte le caratteristiche della nostra condizione di esseri umani, dalle più nobili alle più ripugnanti, e che l'evoluzione della scienza nella storia è stata più spesso influenzata da 'pregiudizi' di natura concettuale che non da obiettive indiscutibili osservazioni [Mdc].

Allo scopo di permettere al lettore di superare quello che è un atteggiamento molto ingenuo e diffuso nei confronti delle proposte formulate dal pensiero scientifico, val forse la pena di sottolineare anche se in poche parole quale sia la vera natura della relazione tra il dominio della teoria e quello dell'esperimento [Mdc], ammesso pure (ma non è sempre il caso, come avremo modo di vedere anche in seguito) che il secondo abbondi di quell'oggettività che dovrebbe allontanare dal campo della scienza i temuti effetti delle nostre passioni. Tale connessione è spiegata invece molto bene ad esempio da S. Goldberg (21), quando dice per esempio che "Einstein sapeva bene che c'è un numero infinito di teorie che soddisfano al criterio di non contraddire l'esperienza", e più in particolare che "I postulati della teoria della relatività ristretta non sono soggetti né a diretta conferma né a refutazione per via di esperimenti [Mdc]. Questo è un punto sottile e importante che viene spesso mancato da coloro che parlano delle relazioni tra esperimenti e teoria" (22).

E purtroppo questo "punto sottile ed importante" viene mancato molto spesso anche dagli addetti ai lavori [Mdc], quando di fronte a qualche contestazione meglio fondata di altre non sanno cosa replicare, se non un generico "ma se la teoria fosse sbagliata come mai riuscirebbero giuste tante sue previsioni che verifichiamo ogni giorno nel nostro laboratorio? Non può essere una coincidenza!". Ovvero, come capita troppo spesso di sentire in discussioni di pura logica anche a livelli che dovrebbero essere elevati: A implica B, io vedo B tutti i giorni, e quindi A deve essere vera! A chi di noi non è mai capitata l'esperienza di assistere a certe discussioni nelle quali si contrapponeva a chi osava avanzare qualche perplessità nei confronti di teorie ufficialmente condivise argomenti del tipo: "ma la scienza ha inventato l'aereo, e la televisione"; e quante volte non è capitato allo scrivente di sentirsi replicare ad alcune sue faticosamente meditate obiezioni su certi aspetti fondazionali di teorie fisiche: "ma non vedi come la corrente ti arriva bene in casa ed accende le tue lampadine? Se tu avessi ragione come potrebbero funzionare così perfettamente le nostre centrali"?, come se saper far arrivare bene la luce in una casa fornisca allo scienziato maggiori garanzie di essere preso sul serio quando parla di cose che non ha mai visto, quali la costituzione interna di una stella, come era fatta la Terra qualche milione di anni fa, o, peggio, l'universo pochi istanti dopo il mitico big-bang (la situazione ricorda da vicino quella dello stregone di qualche tribù primitiva, che, sulla base del merito reale guadagnato in relazione alla capacità di far guarire alcuni mali con le erbe, si allarga fino al punto di voler far credere di essere capace di produrre la pioggia quando danza). E si vuole pietosamente sorvolare su accuse più ruvide ed efficaci del tipo: "ma allora vuoi proprio sputare sul piatto dove mangi?", con riferimento alla funzione (ed allo stipendio!) di docente in una Facoltà scientifica dello scrivente.

In effetti, e soprattutto dopo la tanto decantata analisi epistemologica di Karl Popper, che viene dovunque citata anche a sproposito allo scopo di mettere in pace le coscienze, tutti sanno in realtà assai bene che un'asserzione di tipo generale sulla natura può ricevere tante conferme senza che si possa mai essere certi che essa non verrà in futuro confutata da qualche nuova osservazione; e questa banale analisi epistemologica si completa con l'affermazione che, quando questo capita, ovvero che una teoria sia contraddetta da qualche esperienza, la famosa oggettività del pensiero scientifico riconosce questa circostanza, e dichiara la teoria sconfitta. Ovvero, più sinteticamente, mille conferme non possono mai convalidare una teoria, mentre una sola confutazione la invalida: è in questa caratteristica metodologica che risiederebbe la peculiarità (e la superiorità?!) della scienza rispetto ad altre discipline.

Quanta ingenuità nel sottovalutare la forza di una teoria viva e condivisa, che eminenti personalità hanno sostenuto con impegno e passione, e sulla quale hanno edificato la propria autorevolezza: si può pensare davvero che esse ammettano il loro fallimento senza mettere in atto tutti gli artifici tecnici e dialettici, tutta l'influenza 'politica' di cui sono capaci? Del resto, un tale atteggiamento è considerato non privo di risvolti positivi, ed ammesso dallo stesso Popper, quando riconosce che: "L'atteggiamento dogmatico consistente nell'aderire a una teoria il più a lungo possibile, ha una notevole importanza. Senza questo non potremmo mai scoprire quale è l'effettivo rilievo di una teoria - ce ne libereremmo prima di poter constatare la sua efficacia; e, di conseguenza, nessuna teoria potrebbe svolgere il proprio ruolo, [che consiste] nel conferire al mondo un ordine" (23) . Peccato però per il concetto di 'democrazia' nella scienza che sia proprio questo il momento in cui la straordinaria influenza delle élites dirigenti possa giocare le sue carte migliori, vale a dire nella scelta delle teorie che verranno testate ed insegnate per decenni prima che ce se ne possa sbarazzare, e naturalmente allora con altre teorie sempre suggerite da quei gruppi che sono in grado di controllare case editrici, politica editoriale delle riviste, concessione dei finanziamenti ai diversi progetti di ricerca, riconoscimenti pubblici, avanzamenti di carriera, etc. [Mdc]. Per evitare fraintendimenti e facili falsificazioni di una siffatta teoria (che viene detta spesso con disprezzo "cospirativa"), va detto subito a questo proposito che non è necessario immaginare i gruppi a cui si fa riferimento come monoliticamente coerenti, provvisti al loro interno di uniformità d'opinioni e rigida disciplina. Quello che si può ritenere invece, almeno dall'esterno, è che alcune discussioni fondamentali, anche polemiche, e le conseguenti scelte, avvengono esclusivamente in certi ambiti, e che se si ha l'impressione di un coinvolgimento di più ampi strati di persone è soltanto perché ad un certo punto l'acquisizione del 'consenso' è comunque un elemento indispensabile per quella che dovrà alla fine risultare la teoria 'vincente' (e la teoria della relatività non sfugge a questo quadro concettuale neppure per quel che riguarda le fiere avversioni che suscitò anche in sede d'élites). Un'analisi di siffatti moderni meccanismi del 'progresso' della storia esula certamente dalle possibilità di questo libro, ma si può rinviare il lettore interessato ad avere almeno un sentore del punto di vista interpretativo che qui si segue al libro del presente autore "America: una rotta templare - Un'ipotesi sul ruolo delle società segrete nelle origini della scienza moderna, dalla scoperta dell'America alla Rivoluzione copernicana", Ed. Della Lisca, Milano, 1995, ed agli affascinanti scritti di Maurizio Blondet: "Gli Adelphi della Dissoluzione - Strategie culturali del potere iniziatico", Ed. Ares, Milano, 1994; "Complotti" I, II, III, Ed. Il Minotauro, Milano, 1995. 1996, 1997.

Ed infine, se ci si interroga sulle possibilità realmente esistenti di abbandono di qualcuna delle teorie imperanti ai nostri giorni, non bisognerebbe sottovalutare ciò che è stato denunciato come un grave pericolo dal fisico-matematico Clifford A. Truesdell (24) , secondo il quale se al tempo della polemica tra tolemaici e copernicani i primi avessero posseduto un computer la vittoria finale sarebbe senz'altro andata a loro, dal momento che questo strumento rende possibili continui riaggiustamenti ad hoc, nei quali nessuno è più capace di orientarsi, "che avrebbero potuto modificare il sistema di Tolomeo per renderlo perfettamente coerente con le osservazioni per altri 1000 anni" (25).
 

Un esperimento 'falsificante' può essere ridimensionato sotto una moltitudine di aspetti, fino a coinvolgere la competenza e la moralità degli autori: significa esattamente quello che hai affermato nei confronti della teoria, la hai compresa davvero bene?, hai eseguito tutte le misure a regola d'arte?, non hai trascurato qualche possibile fattore di disturbo? non avevi per caso bevuto un po' troppo?, e così via di questo passo. La fisica accredita il 'mito' democratico della ripetibilità degli esperimenti, ma di solito questa ripetibilità resta solo ad un livello puramente potenziale, visto che poi di fatto nella storia le vere 'ripetizioni' si contano sulle dita di una mano. Eh sì, perché non è in effetti facile ripetere un esperimento, bisogna essere dotati di tutte le apparecchiature di cui sono dotati gli altri, e poi gli esperimenti costano (chi può mai davvero ripetere ad esempio qualcuno di quei complicatissimi e costosissimi esperimenti che si fanno oggi nei grandi laboratori, autentiche cattedrali di una nuova forma di religione?); per non dire poi del fatto più semplice ed importante, e cioè che ogni fisico ama piuttosto fare i propri esperimenti, che non ripetere quelli degli altri! La verità è che finché le cose tornano secondo le aspettative allora va tutto bene, ma quando questo non è il caso allora sono guai (e lo sperimentatore prudente sa a priori che non è proprio il caso di andarsi ad impegolare in qualche esperimento 'falsificante', tra i tanti più innocenti e remunerativi che potrebbe invece effettuare).

Ci sono naturalmente anche diverse altre strategie per ignorare il più a lungo possibile le eventuali confutazioni, la più semplice delle quali è di minimizzarle e di ignorarle (quando non addirittura di falsificarle 26). Questo è quanto capitò ad esempio a Dayton C. Miller negli anni '20, al termine di una serie di esperimenti che avrebbero secondo lui confutato il punto di vista dei relativisti: i suoi risultati furono ignorati fino al 1955, quando Shankland (27) mise a posto la coscienza di tutti (o di chi ne aveva ancora qualche rimasuglio) avanzando, in modo per la verità non del tutto convincente, un'ipotesi su una possibile sorgente di errore sistematico in cui Miller sarebbe potuto incorrere  (28), ma i suoi esperimenti non vennero mai ripetuti né si può essere certi che lui sia davvero incorso negli errori sperimentali postumamente rimproveratigli.

La stessa identica sorte capita al nostro Quirino Majorana, fisico dell'Università di Bologna e zio del più famoso Ettore di cui parleremo diverse volte in questo libro. Questi infatti, al termine di diverse sue ricerche sperimentali che gli sembrano contraddire i principi della relatività, si trova costretto a scrivere: "Penso che i relativisti dovrebbero prendere in considerazione il mio punto di vista, decisamente contrario alla relatività di Einstein [Mdc]. Se il loro silenzio dovesse continuare, mentre io da anni manifesto il mio pensiero, ciò dovrebbe interpretarsi con l'impossibilità di dimostrare l'inesattezza dell'insieme delle mie considerazioni. Invece, la serena discussione, potrebbe chiarificare una questione, che tanta importanza avrebbe per il progresso della scienza" ("Considerazioni sulle forze nucleari", Rend. Sci. Fis. Mat. e Nat., Acc. Naz. Lincei, Vol. XIII, 1952, p. 103) (29).

Tra le diverse strategie che possono mettersi in atto da ultime c'è poi anche quella di dichiarare quel singolo esperimento un'"eccezione", o qualcosa in attesa di spiegazione, aggiustando la teoria con successive correzioni ad hoc che la rendono capace di assorbire i colpi più duri, in un gioco di eventualmente infiniti rimandi, che cessa di fatto soltanto quando la fatica di ricorrere a continui aggiustamenti diventa superiore al desiderio di sorreggere il quadro concettuale più gradito a coloro che hanno il potere di dettare gli indirizzi culturali della comunità scientifica [Mdc]. Si pensi ad esempio a ciò che accadde quando si scoprirono all'interno del nucleo atomico delle particelle con carica elettrica positiva (i cosiddetti protoni), che se ne stavano lì tutte attaccate insieme senza respingersi come avrebbero dovuto in base alle ordinarie leggi dell'elettricità (cariche di ugual segno si respingono, cariche di segno contrario si attraggono), ed altre 'stranezze'. Si dichiarò forse confutata la Legge di Coulomb, od altre leggi fondamentali della fisica? Certamente no, si introdussero piuttosto nell'ambito della fisica atomica e nucleare non soltanto una ma ben due nuove forze necessarie per far quadrare i conti, le cosiddette interazione forte e forza nucleare debole, e gli esempi si potrebbero naturalmente moltiplicare a piacere.

Per coloro che avessero qualche perplessità sul fatto, del resto già accennato, che ristretti gruppi d'élite possano fino a tal punto condizionare le opinioni degli scienziati 'normali' - anche attraverso l'espediente di favorire il più possibile nei riconoscimenti scientifici la 'specializzazione', che rende di fatto la maggioranza dei 'professionisti' incapaci, e restii, ad inquadrare le questioni sotto il loro aspetto più generale, e li costringe a basarsi quindi sempre più su una 'fede' aprioristica nella validità del giudizio collettivo di una fantomatica
'comunità scientifica'
[Mdc] - val forse la pena di rammentare la testimonianza del famoso epistemologo "anarchico" Paul K. Feyerabend, fisico di formazione ed autore di un molto controverso ed avversato "Contro il metodo" (Ed. Feltrinelli, 1984), relativa ad un altro momento importante della storia della fisica di questo Secolo, l'affermazione della cosiddetta interpretazione ortodossa della Meccanica Quantistica [Mdc] (di cui qualcosina si dirà nel capitolo 3): "In tali manifestazioni si udiva spesso la frase: 'ma von Neumann ha dimostrato...' e questo chiudeva la discussione in quanto allora non c'era quasi nessuno che conoscesse nei particolari la dimostrazione di von Neumann o che osasse contestarne l'autorità: la discussione scientifica fu decisa da una 'voce' autorevole. La storia della fisica e quella della matematica abbondano di esempi di questo genere [...] i 'contributi' degli scienziati alla costruzione della società vanno trattati con la più grande prudenza" (dal capitolo "Gli esperti sono pieni di pregiudizi", in "La scienza in una società libera", Ed. Feltrinelli, Milano, 1981, p. 136). Ciò che è buffo sottolineare, è che il teorema in parola è 'sbagliato', o meglio che è errato il suo utilizzo nella questione in discussione, dal momento che, come del resto tutti i teoremi matematici, presuppone per la propria dimostrazione delle ipotesi che non sono necessariamente verificate nella situazione reale che pretenderebbe viceversa di aver chiarito.

Per tornare al caso relatività, le seguenti citazioni (i corsivi sono aggiunti), scelte tra le innumerevoli possibili, possono dare al lettore qualche esempio "del mistico entusiasmo" (30) con il quale i partigiani di Einstein hanno dichiarato il loro 'amore' per le sue teorie - e sarebbe interessante stabilire se è l'amore il padre della sicurezza che abbiamo visto dianzi ostentata, o viceversa tanta sicurezza l'ispiratrice di un così fervente amore [Mdc]: "Einstein's Theory of Relativity has advanced our ideas of the structure of the cosmos a step further. It is as if a wall which separated us from Truth has collapsed" [tradurre - ndc] ("Truth" ha iniziale maiuscola nel testo, anche se probabilmente non per "responsabilità" dell'autore, peraltro un illustre matematico, bensì per eccessivo entusiasmo del traduttore, tenuto conto che nell'originale tedesco il corrispondente "Wahrheit" è in maiuscolo di necessità, come si conviene a tutti i sostantivi nella lingua tedesca! (Hermann Weyl, "Space -Time -Matter", Dover Pub.ns, New York, 1952); "Un oscuro impiegato dell'Ufficio dei brevetti di Berna vide la verità laddove scienziati autorevoli l'avevano sfiorata senza riconoscerla" (Tullio Regge, Appendice a "Spazio, Tempo e Gravitazione" di A. Eddington, già citato); mentre per quanto riguarda Einstein si possono trovare espressioni di questo genere: "genio prodigioso, che ogni campo della fisica ha rischiarato di nuova luce", e porta impresse nel suo viso le tracce delle "aspre battaglie d'una vita intensa, d'una lotta gigantesca dell'intelletto verso visioni sempre più alte [...] segni dell'Uomo superiore, del fisico sommo, del pensatore che scruta l'atomo e l'universo, tutto illuminando d'una luce nuova" (l'iniziale maiuscola è nell'originale!). 

Val forse la pena di sottolineare come certo modo di fare divulgazione della scienza sta a confutare palesemente quel comodo 'rifugio epistemologico' che gli scienziati moderni si sono così ben costruito, a partire dalla tesi secondo la quale le teorie scientifiche non sono altro che dei "modelli" che vengono elaborati a fini di "utilità" negli esperimenti e nelle applicazioni, che non hanno quindi mai alcuna pretesa di "verità". Se questa fosse di fatto l'impressione che la comunità scientifica lascia trapelare al suo esterno ci sarebbe poco da rimproverare, ma le cose non stanno così, e proprio perché gli scienziati verrebbero altrimenti a perdere parte del prestigio che viene loro conferito nelle società moderne basate sullo sviluppo tecnologico. E del resto non può essere che così, perché nonostante la copertura costituita dallo "scetticismo" filosofico, pure qualunque essere umano tende ad elevare a sistema le conclusioni alle quali perviene, ed a questa regola non sfuggono neanche la scienza e gli scienziati. Questi producono non soltanto risposte tecnologiche alle richieste di
benessere materiale, ma anche 'spiegazioni' e teorie in risposta alle più profonde ed eterne esigenze umane di tipo spirituale, ed è difficile stabilire se il rispetto dal quale è circondata oggi la scienza si fondi più sulla prima funzione che non sulla seconda; anche se, ovviamente, la 'filosofia scientifica' trae la sua evidente incontrastata autorevolezza proprio dalla prima.

Ma facciamoci tutta la forza che ci vuole per cercare di superare certe assurdità ed incongruenze, ed andiamo avanti con la nostra analisi a stana re e ad affrontare finalmente il 'mostro' (ribadendo che i prossimi due capitoli, utili comunque per capire meglio il contenuto delle questioni, e scritti in modo il più semplice possibile, possono essere omessi almeno in prima lettura da chi desidera subito sapere come nacque davvero l'equazione più famosa del mondo...).

 

Note del Capitolo I

 

 

(1) È questo il nome del progetto al quale lavorarono negli Stati Uniti d'America gli scienziati che costruirono le prime bombe atomiche, ed al quale verrà dedicata qualche attenzione in un prossimo libro di questa stessa collana, dedicato all'improvvisa ed ancora oggi misteriosa scomparsa di un altro dei protagonisti della storia della fisica degli anni '30, Ettore Majorana.
(2) Vedi ad esempio la ricostruzione che fa di questa vicenda l'obiettivo Marco Mamone Capria, "La crisi delle concezioni ordinarie di spazio e di tempo: la teoria della relatività", in "La costruzione dell'immagine scientifica del mondo. Mutamenti nella concezione dell'uomo e del cosmo dalla scoperta dell'America alla Meccanica quantistica", a cura dello stesso e dell'Istituto Italiano per gli Studi Filosofici di Napoli, con contributi di Jenner Barretto Bastos jr., Umberto Bartocci, Giuseppe Sermonti, Tito Tonietti,  Ed. La città del Sole, Napoli 1999. E peccato che l'autore citato imputi i tanti documentati 'aggiustamenti' in favore di Einstein ad una 'fisiologica' caratteristica dell'impresa scientifica, e non già alle circostanze del tutto eccezionali [Mdc] che si sono accompagnate all'affermazione della teoria della relatività.

(3) In una copertina della celebre rivista Time (1 Luglio 1946) è raffigurato un Einstein alle cui spalle si erge il caratteristico terribile fungo di un'esplosione atomica, e su di esso troneggia la famosa equazione oggetto della nostra storia!
(4) La lucidissima Viviane Forrester, nel suo inquietante "L'orrore economico" (Ponte alle Grazie Ed, Firenze, 1997) ci avverte a proposito dell'uso premeditato della vergogna da parte di chi tiene alla conservazione del proprio potere - di qualsiasi genere, anche quello di dettare mode culturali - che: "Niente indebolisce, niente paralizza come la vergogna. È un sentimento che altera sin dal profondo, lascia senza risorse, consente qualunque influenza dall'esterno, riduce chi la patisce a diventarne una preda: da qui l'interesse dei poteri a farvi ricorso e a imporla. È la vergogna che permette di fare leggi senza incontrare opposizione, e di trasgredirle senza temere proteste".

(5) E se questo può essere invero qualche volta il caso, non può esserlo certo sempre, tenuto conto dell'illustre schiera degli anti-relativisti, almeno quelli dei primi tempi.

(6) In un articolo dal titolo "Fisica e Magia" apparso su Selezione dal Reader's Digest; l'anno di pubblicazione è purtroppo ignoto al presente autore.

(7) Citazione dal bel libro di Herbert Dingle "Science at the Crossroads" (Martin Brian & O'Keefe, Londra, 1972, p. 122), il quale aggiunge che: "Si è sviluppata nella comunità scientifica la consuetudine di assumere che una teoria fisica è ben fondata quando la sua matematica è impeccabile: la questione relativa al se c'è nulla in natura corrispondente a questa impeccabile matematica non è considerata una questione" [Mdc]. Dingle rappresenta un altro dei numerosi casi che incontreremo in questo libro di uno studioso che ha trovato tutto facile finché era un convinto assertore delle teorie di Einstein, e che si è trovato invece "ignored, evaded, suppressed" quando si è reso conto che qualcosa non andava, ed ha cercato di comunicare queste sue impressioni (testo citato, p. 15).

(8) Da "Parabole e catastrofi - Intervista su Matematica Scienza Filosofia", a cura di Giulio Giorello e Simona Marini, Il Saggiatore Ed., Milano, 1980, p. 27.

(9) Su tale particolare aspetto della questione avremo modo di tornare nel successivo capitolo 3. Per ora informiamo soltanto che in effetti la discussione sulla relatività fu inquinata anche da considerazioni di questo genere, e che una particolare ostilità alla teoria fu manifestata proprio in Germania nei difficili tempi del nazionalsocialismo. Sulla particolare situazione della fisica tedesca nel periodo del III Reich si veda l'interessantissimo testo di A.D. Beyerchen, "Gli
scienziati sotto Hitler - Politica e comunità dei fisici nel Terzo Reich", Ed. Zanichelli, Bologna, 1981. Va tenuto però presente che non furono solo dei fisici tedeschi ad opporsi alla teoria della relatività [Mdc] su basi (anche) ideologiche: la stessa cosa accadde ad esempio in Unione Sovietica, dove alla teoria fu contestata l'accusa di "idealismo" (vedi i ricordi del fisico russo Georges Gamow, uno dei primi teorizzatori della teoria del "big-bang", in "My World Line - An Informal Autobiography", Viking Press, New York, 1970).
(10) Una replica degli organizzatori ad una così esplicita intimidazione è stata pubblicata nel numero di Gennaio 1997 della stessa rivista, dopo aver ottenuto la promessa di un 'confronto' pubblico sui temi in discussione, confronto che naturalmente non è stato invece mai successivamente promosso.

(11) Dal "Dialogo tra un filosofo, un giudeo e un cristiano".
(12) La citazione è tratta dall'Introduzione al libro di F. Böll ed altri, "Storia dell'astrologia", Ed. Laterza, 1979.

(13) In realtà, il diritto all'espressione dei dubbi, di qualsiasi natura essi siano, dovrebbe essere assolutamente incondizionato, venendo meno in caso contrario la sua positività in ordine ad una possibile maturazione culturale di tutti. Il guaio è che oggi molti docenti parlano con ammirazione di personaggi come Socrate, e li additano ad esempio ai loro studenti, ma se fossero davvero chiamati a decidere se far bere o no la cicuta a qualcuno simile al grande filosofo greco non esiterebbero a rispondere di sì [Mdc].
(14) È ben noto come alcune di queste ineliminabili conseguenze della relatività vanno in qualche modo a contrastare il principio di causalità [Mdc], nel senso che le cause dei fenomeni dovrebbero essere sempre a lume di naso antecedenti gli effetti, mentre la teoria di Einstein non riconosce come assoluto l'ordine temporale degli eventi. In questo caso la relatività si salva, per usare un termine calcistico, in corner, dal momento che, si dice, anche se queste stranezze si possono invero verificare, rimane comunque impossibile per chi conosce il mio futuro informarmi di esso, dal momento che nessun segnale (almeno quelli "recanti informazione") può viaggiare più veloce della velocità della luce, e quindi non si riuscirebbe a fare in tempo ad avvisarmi prima che l'evento futuro si sia già realizzato. Naturalmente, segnali più veloci della luce con contenuto di informazione potrebbero causare non piccoli problemi alla teoria, e di tale possibilità diremo presto qualcosa.

(15) Vedi ad esempio Waldyr A. Rodrigues e Jian-Yu Lu, "On the Existence of Undistorted Progressive Waves of Arbitrary Speeds in Nature", "Foundations of Physics", 27, 3, 1997, nel quale si dice apertamente che "The existence of superluminal electromagnetic waves implies the breakdown of the principle of relativity" (p. 473) [“L’esistenza di onde elettromagnetiche più veloci della luce implica il fallimento del principio di relatività” - ndc] - ma naturalmente i relativisti hanno già escogitato qualche trovata per dichiarare che tali esperimenti non sono in realtà contraddittori con le loro concezioni.
(16) A proposito ad esempio dell'uso della matematica in biologia, e dei tentativi di rendere comprensibile il fenomeno dell'emergenza dell'ordine dal caos, vedi del presente autore: "Le origini dell'ordine - Su un libro di S.A. Kauffman", Rivista di Biologia, 87, 1994, pp. 387-394.

(17) Il noto studioso d'economia Geminello Alvi, di cui riparleremo ancora in altri Capitoli, ha espresso l'opinione che la matematica in economia non sia a volte altro che un espediente retorico per giustificare le scelte del potere.

(18) Val forse la pena di sottolineare che l'"idoneità" di cui si parla era un semplice attestato che venne concesso ad oltre il 90% dei docenti non ancora inseriti in ruolo ma con responsabilità da diversi anni in corsi di insegnamento universitario.
(19) Vedi ad esempio Alan J. Friedman e Carol C. Donley, "Einstein as Myth and Muse", Cambridge University Press, 1985; ed inoltre, tanto per restare sul tema della fisica del primo '900, anche L. S. Feuer, "Einstein e la sua generazione.  Nascita e sviluppo di teorie scientifiche", Ed. Il Mulino, Bologna, 1990.

(20) Il secondo andò a Niels Bohr, un altro dei fisici che gli avvenimenti successivi vedranno poi coinvolti nel progetto Manhattan alla costruzione della prima bomba atomica.
(21) Nel suo bel libro già citato ("Understanding Relativity - Origin and Impact of a Scientific Revolution", p. 105).
(22) Anche se questa opinione è troppo estrema, in quanto, come vedremo, la scelta dei postulati di qualunque teoria poggia sempre comunque su un certo quadro sperimentale (reale o presunto), distrutto il quale viene meno anche la plausibilità della scelta. Per quanto riguarda la teoria della relatività in particolare, potrebbe essere possibile, come diremo nel prossimo capitolo, osservare fenomeni 'non simmetrici' in elettromagnetismo, e quindi falsificare direttamente uno dei presupposti fondamentali della teoria.
(23) Citazione da Imre Lakatos, "La falsificazione e la metodologia dei programmi di ricerca scientifici", apparso in "Critica e crescita della conoscenza", di autori vari, Ed. Feltrinelli, Milano, 1984, p. 254. L'articolo di Lakatos è particolarmente interessante per quanto riguarda l'argomento qui oggetto di discussione.
(24) In "Il calcolatore: rovina della scienza e minaccia per il genere umano", compreso in una serie di saggi di autori vari apparsi con il titolo "La Nuova Ragione" (Ed. Il Mulino, Bologna, 1980).

(25) In effetti l'osservazione di Truesdell è molto più fondata di quel che non possa oggi apparire ai meno esperti, dal momento che la differenza tra i due sistemi, almeno da un punto di vista osservativo, è molto più esile di quel che non si possa a prima vista supporre (vedi ad esempio del presente autore: "Alle origini della costruzione dell'immagine scientifica del mondo: un problema storiografico", in "La costruzione dell'immagine scientifica del mondo", già citato).
(26) Quello delle vere e proprie falsificazioni operate dagli scienziati in difesa delle loro teorie è un terreno minato sul quale non vogliamo qui scendere in particolari. Rimandiamo il lettore interessato ai due libri di Federico Di Trocchio: "Le bugie della scienza - Perché e come gli scienziati imbrogliano" (Ed. Mondadori, Milano, 1993), "Il genio incompreso - Uomini e idee che la scienza non ha capito" (Ed. Mondadori, Milano, 1997), o a quelli di William Broad e Nicholas Wade: "Betrayers of the Truth - Fraud and Deceit in Science" (Oxford University Press, 1982), e Alexander Kohn: "False Prophets -Fraud and Error in Science and Medicine" (Basil Blackwell, Oxford & New York, 1986, Revised Edition 1988).

(27) R. S. Shankland ed altri, "New Analyisis of the Interferometer Observations of Dayton C. Miller", Reviews of Modern Physics, Vol. 27, N. 2, 1955.
(28) Cenni almeno alla prima parte di questa vicenda, difficile da affrontare per i partigiani dell'oggettività nella scienza, si possono trovare nel libro di Emile Borel, scritto nel 1926, "Space and Time", Dover Pub., New York, 1960, pp. 185 e segg.. Si veda anche il già citato articolo di I. Lakatos (p. 242). E si potrebbe aggiungere la circostanza poco nota che in realtà lo stesso Michelson, autore di uno degli esperimenti storicamente più utilizzati a favore della teoria della relatività, e che esamineremo nel prossimo capitolo, si mise a verificare con altri collaboratori le osservazioni di Miller negli anni 1928-29, ottenendo addirittura, secondo sue prime anticipazioni, il doppio dell'effetto riportato da quello sperimentatore, senza mai pubblicare però alla fine i dati sperimentali da lui ottenuti (vedi Roberto A. Monti, "Theory of Relativity: A Critical Analysis", Physics Essays, Vol. 9, N. 2, 1996, p. 251).

(29) Altrove (stessa rivista, Vol, XIV, 1953, p. 740) Q. Majorana si lamenta che "gli organi competenti, per ingiustificate ragioni, non abbiano mai voluto conceder[gli] adeguati mezzi di lavoro sperimentale", ma probabilmente tra queste "ragioni" ci doveva anche essere quella di non essere il richiedente un ortodosso einsteiniano!

(30) Usa quest'espressione nel 1923 Carlo Somigliana, un notevole nostro fisico-matematico, aggiungendo che di tale "illimitata fede aprioristica [...] non abbiamo mai avuto esempio nel campo scientifico. E ciò fa pensare che esista alla radice di questo movimento d'idee qualche fatto anormale, che turba la serena visione delle cose". Aveva espresso la stessa sensazione nel 1921 Giovanni Boccardi, un astronomo torinese, secondo il quale "Dall'accanimento (è la parola) che alcuni mettono a sostenere la nuova teoria si deve dire che vincoli più forti di quelli scientifici leghino lo Einstein ai suoi partigiani. Così si spiega il can-can che oggi stordisce tutto il mondo". Le citazioni sono tratte dall'assai interessante: Roberto Maiocchi, "Einstein in Italia - La scienza e la filosofia italiane di fronte alla teoria della relatività" (Ed. Franco Angeli, Milano, 1985), il quale si schiera però subito in favore dell'ortodossia aggiungendo che era facile "dimostrare l'inconsistenza di questa tesi", citando una replica (1921) di un altro famoso matematico, Guido Fubini, al Boccardi: "Io non so quali interessi possono accomunare gli astronomi anglo-sassoni, Hilbert, il massimo matematico vivente, e, per non citare altri, il Klein, sottoscrittore della famigerata lettera degli scienziati tedeschi ai neutrali, mentre Einstein [..] è tutt'altro che un nazionalista... ", dimostrando con queste parole di non essere in possesso di molta 'fantasia' storica (oltre a quanto abbiamo detto precedentemente sullo stato della fisica tedesca al termine della Grande Guerra).
 

Capitolo II
 

Cosa afferma in sostanza la teoria di Einstein


È, come abbiamo detto, nell'anno 1905 che Albert Einstein pubblicò i suoi due primi lavori dedicati alla teoria che avrebbe associato al suo nome una fama duratura, e che viene oggi annoverata tra le grandi "rivoluzioni" della storia della fisica, e non soltanto di questo secolo: la teoria della relatività, che viene detta, in questa prima fase, ristretta, d'ora in avanti TRR, o anche speciale, per distinguerla dal successivo completamento che lo stesso scienziato ne eseguì nel 1915-16, ed alla quale si dà il nome di teoria della relatività generale.

Al primo di questi due lavori (al quale ci riferiremo succintamente nel seguito con la lettera A), che era intitolato "Zur Elektrodynamik bewegter Körper", ovvero "Sull'elettrodinamica dei corpi in movimento", pervenuto per la pubblicazione nel mese di Giugno del 1905, e contenuto nel volume N. 17 degli "Annalen der Physik" di quello stesso anno, è stata dedicata una moltitudine di ricerche, che lo hanno analizzato sotto ogni possibile profilo, teorico, sperimentale, storico, filosofico, sociologico.

Il titolo così specialistico di A sta a dimostrare che si tratta di una teoria che ha le sue radici in complesse questioni concernenti la fisica dell'elettromagnetismo, indagare le quali, anche solo per grandi linee, non è qui naturalmente possibile. Per quanto riguarda la sua connessione con questa parte della fisica, ci limiteremo a sottolineare che la teoria della relatività ristretta ha in questo campo l'obiettivo di eliminare alcune "asimmetrie" di trattamento alle quali conduceva la teoria elettromagnetica di Maxwell, senza che a queste asimmetrie teoriche corrispondesse poi alcuna reale asimmetria della natura. Einstein fa a questo proposito il celebre esempio dell'induzione elettromagnetica. Tutti annoverano probabilmente tra i loro ricordi scolastici il fatto che quando un magnete si avvicina ad un conduttore - immaginiamo ad esempio una spira di qualche metallo - in esso si genera una corrente; viceversa, se è il conduttore ad avvicinarsi al magnete con la stessa velocità, si ottiene una identica corrente, ed il fenomeno fisico è quindi perfettamente simmetrico. Se si vanno invece a fare i relativi calcoli con le equazioni che James Clerk Maxwell, un fisico scozzese della seconda metà del secolo scorso, pose a base della sua ancora attuale teoria dell'elettromagnetismo, bisogna distinguere accuratamente i due casi, anche se poi il risultato numerico finale è lo stesso (31).

Cose difficili, per la verità, e quale speranza dunque di poterle sintetizzare in poco spazio, soprattutto per dei non esperti di fisica e di matematica (che se proprio vogliono possono saltare questo capitolo ed il successivo, e proseguire la lettura direttamente dal capitolo 4)? Noi tenteremo questa impresa lo stesso, nella persuasione che il già citato P. K. Feyerabend colga nel segno quando dice che "la metodologia è oggi così affollata da ragionamenti raffinati e vuoti che è estremamente difficile percepire i semplici errori alla base", e che quindi "l'unico modo di conservare il contatto con la realtà è di essere rozzi e superficiali" (32).

Alla base di qualsiasi teoria scientifica infatti, anche la più avanzata, c'è qualcosa di semplice che si può spiegare, e giudicare e capire, senza restare troppo intimoriti dai vari ammonimenti che ci provengono dagli scienziati di professione, moderni sacerdoti di una moderna chiesa, che vogliono riservare per sé l'interpretazione delle nuove sacre scritture [Mdc] (33). "La scienza moderna", ci ammonisce ancora Feyerabend (luogo citato), "non è affatto così difficile e così perfetta come la propaganda scientifica vorrebbe farci credere [...] ci appare difficile solo perché viene insegnata male, perché l'istruzione standard è piena di materiale ridondante e perché l'insegnamento delle scienze comincia troppo tardi nella vita". Il già citato E. Borel ci avverte al contrario c he: "Coloro che sono ansiosi di rifiutare o anche solo di discutere la TRR dovrebbero prima assumersi il compito di studiarla attentamente" e "non è discutendo un articolo, o anche un piccolo libro come questo, che si può sperare di demolire una teoria i cui elementi essenziali si possono spiegare soltanto con l'aiuto dinumerosi sviluppi e di innumerevoli formule matematiche", sicché "fisici e matematici a prima vista alquanto scettici [...] hanno adottato ora un comportamento più prudente e cessato di scrivere sul soggetto della TRR" (Luogo citato, p. 193). E se almeno gli scienziati si mostrassero d'accordo tra di loro, visto che per contro Guido Castelnuovo, un altro matematico tra i primissimi fautori della relatività in Italia, in un suo "Spazio e tempo secondo le vedute di Einstein" del 1922 (ristampa anastatica: Ed. Zanichelli, Bologna, 1983), sostiene che la TRR è "in gran parte accessibile a chi ricordi i fondamenti della matematica e della fisica che vengono forniti nell'insegnamento secondario"; e questo è vero, se ci si limita almeno, come qui faremo, all'aspetto cinematico - vale a dire alla semplice descrizione del moto in termini di spazio e di tempo - trascurando le questioni dinamiche (ovvero quelle concernenti le cause dei moti) e
quelle elettromagnetiche.

Proviamo dunque a capire almeno un poco la relatività partendo, come si dovrebbe sempre, da un Secolo lontano, il '600, e dai tre grandi geni che ne animarono la vita scientifica, Galileo, Cartesio e Newton.

La teoria di Einstein prende l'avvio da una riflessione galileiana, l'argomento della nave, esposto dal celebre scienziato, considerato il fondatore della fisica moderna, nella Giornata II del suo famoso "Dialogo sopra i due Massimi Sistemi del Mondo Tolemaico e Copernicano" (1630; vedi ad esempio Ed. Einaudi, Torino, 1970, pp. 227-228):

"Rinserratevi con qualche amico nella maggiore stanza che sia sotto coverta di alcun gran navilio, e quivi fate d'aver mosche, farfalle e simili animaletti volanti: siavi anco un gran vaso d'acqua, e dentrovi de' pescetti; sospendasi anco in alto qualche secchiello, che a goccia a goccia vada versando dell'acqua in un altro vaso di angusta bocca che sia posto a basso; e stando ferma la nave, osservate diligentemente come quelli animaletti volanti con pari velocità vanno verso tutte le parti della stanza. I pesci si vedranno andar notando indifferentemente per tutti i versi, le stille cadenti entreranno tutte nel vaso sottoposto; e voi gettando all'amico alcuna cosa non più gagliardamente la dovrete gettare verso quella parte che verso questa, quando le lontananze sieno eguali; e saltando voi, come si dice, a pie' giunti, eguali spazii passerete verso tutte le parti. Osservate che avrete diligentemente tutte queste cose, benché niun dubbio ci sia che mentre il vascello sta fermo non debbano succedere così: fate muovere la nave con quanta si voglia velocità; ché (pur che il moto sia uniforme e non fluttuante in qua e in là) voi non riconoscerete una minima mutazione in tutti li nominati effetti; né da alcuno di quelli potrete comprendere se la nave cammina, o pure sta ferma".

Abbiamo detto che questa constatazione che una velocità può essere soltanto relativa, e che non possono darsi effetti 'fisici' di una velocità uniforme (dal verificarsi dei quali potersi dedurre invece un proprio stato 'assoluto' di quiete o di moto) è considerata storicamente di origine galileiana, anche se in fondo già in Copernico possono trovarsi ovvi accenni di questa concezione, laddove si interroga su quale possa essere l'autentico significato fisico di affermazioni quali: è il Sole (o le stelle) a muoversi rispetto a noi, o noi a muoverci rispetto al Sole (Nicola Copernico, "De Revolutionibus Orbium Caelestium", Libro I, capitolo V; si veda ad esempio: Nicola Copernico, "Opere", a cura di Francesco Barone, Ed. UTET, 1979, pp. 190 e segg.). Si può aggiungere poi che anche l'esempio specifico della nave non è in realtà del tutto originale, essendo stato avanzato per primo da Giordano Bruno, nella sua "Cena de le ceneri" (1583), Dialogo terzo, e che il fatto che Galileo non vi faccia alcun riferimento potrebbe sembrare apparentemente simile all'altro caso di 'debito culturale' non riconosciuto che sarà l'oggetto di questo libro. Nel caso di Galileo però l'assenza di citazione è quasi certamente ascrivibile alla sola circostanza che sarebbe stato assai rischioso menzionare qualcuno bruciato sul rogo soltanto pochi anni prima come eretico. Per uno stesso motivo di 'opportunità politica', forse, Galileo non nomina mai nella sua opera neppure Nicola Cusano, un principe della Chiesa che avrebbe potuto fargli comodo annoverare tra i 'precursori' delle sue tesi, ma a Cusano aveva fatto già riferimento il povero Giordano Bruno, chiamandolo addirittura il "divino Cusano", ed il collegamento ideale che avrebbero potuto fare gli avversari di Galileo mediante citazioni analoghe andava ovviamente evitato. Si può pensare che proprio la possibilità di fare riferimento ai nomi di questi due padri fondatori della scienza moderna, Copernico e Galileo, in ordine alla genesi del principio di relatività - fatto questo che mostra piuttosto il carattere conservatore che non rivoluzionario della teoria di Einstein fornisca a tale principio una autorevolezza che è difficile contrastare. Del resto, al primo dei due grandi scienziati lo stesso Einstein dedicò parole appassionate: "Noi onoriamo oggi, con gioia e gratitudine, la memoria di un uomo che, più di qualsiasi altro, contribuì a liberare il pensiero occidentale dalle catene del predominio clericale [...] Una volta che fu riconosciuto che la Terra non era il centro dell'universo, ma soltanto uno dei più piccoli pianeti, le illusioni sul valore centrale dell'uomo divennero insostenibili. Copernico, perciò, attraverso il suo lavoro e la grandezza della sua personalità, insegnò all'uomo ad essere modesto" (in occasione di una serata commemorativa alla Columbia University, New York, Dicembre 1953).

Per ritornare al nostro discorso principale, diciamo che a questa argomentazione della nave, che ha in fin dei conti un'origine sperimentale, Einstein aggiunge una speculazione a priori sulla struttura dell'universo, che possiamo tentare di spiegare nel seguente modo. Pensiamoci soli nel buio dello spazio, senza alcun 'punto di riferimento' materiale a vista d'occhio, ma dotati di assistenti, strumenti, e quanta altra strumentazione scientifica possiamo desiderare. Immaginiamo ora di inviare un raggio di luce in una certa direzione dello spazio, e di avere inviato in quella direzione, e ad una conveniente distanza, uno dei nostri collaboratori per misurare la velocità di quel raggio, o se preferite il ritardo con cui la luce arriva fino a lui: se ci mettiamo d'accordo di 'sparare' verso di lui la luce in un certa ora precisa, sappiamo che lui vedrà la nostra luce qualche istante più tardi, il tempo necessario alla luce per varcare la distanza alla quale il nostro collaboratore si è allontanato da noi. Si sa invero, e da tempo (34), che la luce non ha una velocità infinita, e che, per quanto veloce per i nostri parametri umani, essa deve comunque impiegare un certo tempo per percorrere dei lunghi tragitti. Così, se abbiamo inviato ad esempio il nostro aiutante a 300.000 Km di distanza, ed abbiamo convenuto di accendere un faro rivolto nella sua direzione alle ore 12 in punto, ecco che lui vedrà la 'nostra' luce alle ore 12 ed un secondo, ammesso appunto che la luce viaggi a 300.000 Km al secondo. Supponiamo poi di inviare un altro assistente in un'altra direzione e di ripetere l'esperimento, oppure, ciò che è lo stesso, di inviare alle 12 in punto due raggi di luce da uno stesso punto in due direzioni diverse, e di misurare la velocità dei due raggi. Ciò premesso, c'è qualche buona ragione che ci consenta di prevedere che si otterrebbero due valori diversi per le dette velocità? In questo spazio vuoto, buio, privo di segnali di riferimento che non siano legati a noi ed ai nostri strumenti, potrebbe concepirsi che la luce inviata "di là" sia più veloce della luce inviata "di qua"? Che senso potrebbero mai avere questo "di qua" e questo "di là"? E se ripetessimo questo esperimento ideale in un altro punto dello spazio dovremmo forse aspettarci qualche risultato diverso?

Orbene, la prima delle caratteristiche dello spazio dianzi congetturate a priori si dice la sua isotropia, mentre la seconda si dice la sua omogeneità. Lo spazio non può che essere immaginato isotropo ed omogeneo, affermano Einstein ed i relativisti, e l'essenza della relatività è in fondo tutta qui (35).

Così poco, si dirà, e tante storie per una cosa che è perfettamente accettabile, e che in effetti come tale è stata accettata per secoli prima di Einstein, essendo tali caratteristiche dello spazio ipotesi essenziali per tutto lo sviluppo della meccanica, ovvero delle leggi del movimento dei corpi materiali, a partire dal XVII Secolo? Se questa è la relatività, si tratta di una cosa facile a comprendersi, e noi siamo tutti relativisti, sicché non si comprendono bene quelle 'avversioni' di cui si parlava nel capitolo precedente.

Certo, l'inizio è tutto qui, ed era stato accettato per parecchio tempo da tutti i fisici, con le eccezioni di cui presto diremo, ma ecco che Einstein ci costringe a fare un passo in più, nell'identica direzione del precedente argomento di Galileo. Supponiamo, nella stessa condizione precedentemente decritta, di vedere ad un certo punto un'altra persona

(35) In realtà, c'è qui una difficoltà teoretica sulla quale non è possibile soffermarsi, concernente il fatto che deve comunque ipotizzarsi l'esistenza di almeno un osservatore, o meglio di un sistema di riferimento, per il quale risultano verificate tali asserzioni (come si dice, nel quale valgono le leggi della meccanica 'classica'). L'esistenza di almeno uno di questi riferimenti, e quindi di una classe intera di essi, che vengono detti inerziali, è un'ipotesi appunto della 'fisica classica', quella stessa che Einstein sta cominciando a sconvolgere [Mdc] con il suo ragionamento, in un misto di tradizione e di innovazione cui avremo modo di accennare meglio nel seguito.

come noi, con tutti i suoi strumenti ed i suoi collaboratori, che si muove di moto uniforme rispetto a noi, diciamo 1 Km al secondo. Noi potremo ben dirgli: "ehi tu, perché ti muovi, dove stai andando?", ma lui potrà con ogni ragione risponderci: "ma dimmi piuttosto tu dove stai andando, perché sei tu che ti stai muovendo, e non io che sto qui fermo e tranquillo!"

In altre parole, e a ben riflettere, possiamo dire in effetti soltanto che il nuovo venuto si sta movendo rispetto a noi, e noi rispetto a lui, perché finché lui non c'era non avevamo, né potevamo avere alcuna consapevolezza di un nostro 'moto', e "rispetto a cosa" in effetti? Allo spazio buio e vuoto che ci circondava? Un moto può essere soltanto relativo, ci avverte ancora Einstein, ed in nessun senso assoluto, ovvero, nessuno dei due protagonisti del nostro apologo avrebbe potuto, in assenza dell'altro, dedurre un proprio particolare stato di moto o di quiete rispetto alla imperturbabile indifferenza dello spazio che lo circonda.


È tutto qui?, mi immagino che molti dei lettori penseranno ora. Einstein ha certamente ragione, un movimento non può che essere relativo, dove sono tutte le annunciate 'stranezze' della teoria della relatività? Ancora una volta Einstein ci costringe a fare un passo in più, fermo restando lo scenario che abbiamo fin qui costruito, e cioè a ritornare ai nostri esperimenti sulla velocità della luce, che abbiamo deciso già, senza neppure farli, debbono darci le richiamate indicazioni di omogeneità ed isotropia [Mdc]. Immaginiamoli però effettuati contemporaneamente dai due osservatori uno in moto rispetto all'altro: detti questi due O ed O', O vedrà ad esempio O' mandare i suoi collaboratori uno da una parte, uno da un'altra, e lo vedrà pervenire alle stesse conclusioni di isotropia alle quali era giunto lui. Ma, attenzione, questo comincia adesso ad essere difficile da credere, perché se i collaboratori di O' sono andati proprio uno davanti ad O' nella stessa direzione del moto che O' ha rispetto ad O, e l'altro sulla stessa retta ma dalla parte opposta, ecco che non potremmo credere che O' ottenga le stesse caratteristiche di isotropia che abbiamo ottenuto noi. Perché l'osservatore che sta nella stessa direzione e nello stesso verso della velocità di O' si sta allontanando dal raggio di luce che gli è stato inviato incontro, e non potrà dire di averlo ricevuto dopo 1 secondo, ma dopo 1 secondo più una quantità di tempo proporzionale alla distanza di cui si è allontanato dal punto in cui il raggio di luce era stato spedito. Analogamente, il collaboratore dalla parte opposta, che si stava avvicinando al punto in cui il raggio di luce era stato emesso, dovrebbe dire di averlo ricevuto dopo 1 secondo meno la stessa quantità di cui sopra. Eppure tutti e due, lo abbiamo già ammesso, dovranno dire di avere ricevuto il raggio di luce dopo 1 secondo, e quindi come la mettiamo?

L'unica via di uscita sarebbe ammettere che la velocità del 'nostro' raggio di luce era uguale in tutte le direzioni perché si riferiva ad una sorgente ferma insieme a noi, che avremmo potuto dire quindi relativamente in quiete, mentre la sorgente di O' si muove rispetto a noi; si potrebbe pensare allora che la velocità della luce da lei emessa (e rispetto a noi) potrebbe variare di conseguenza, ed essere anisotropa. Un po' come accadrebbe per chi vedesse passare un treno davanti a sé, e sul treno ci fosse una persona che spara ad un'altra con una pistola. Noi da terra vedremmo la velocità della pallottola "comporsi" con quella del treno, vale a dire che vedremmo la pallottola più veloce se sparata nello stesso verso con cui procede il treno, più lenta se sparata nell'altra direzione; ovvero, come diremmo, constateremmo una anisotropia. Invece, per un osservatore sul treno, la pallottola avrebbe sempre la stessa velocità nei due versi, vale a dire riscontrerebbe perfetta isotropia. Una ipotesi di questo genere è stata in effetti contemplata da alcuni fisici per evitare le imminenti sgradevolezze concettuali [Mdc] a cui Einstein costringerà ben presto chi lo ha seguito nei suoi ragionamenti fin qui, e se ne fa riferimento, a causa dell'analogia dianzi presentata, come alla cosiddetta ipotesi balistica. Questa viene scartata dal campo delle possibilità reali su una base sperimentale, anche se per la verità con considerazioni non del tutto limpidissime (36). La velocità della luce, si dice, è come quella del suono: che una sorgente sonora si muova o stia ferma, non fa alcuna differenza per la velocità della perturbazione che essa induce nell'atmosfera. Il suono è veicolato infatti dall'aria interposta tra la sorgente del rumore e l'orecchio dell'osservatore: non c'è nessun reale spostamento di qualcosa, le molecole d'aria oscillano avanti ed indietro intorno alla loro posizione di equilibrio nella stessa direzione in cui il suono si propaga, l'oscillazione di una provoca il movimento di un'altra molecola contigua, e così via, fino ad arrivare al ricevitore. Quando la sorgente ha iniziato a perturbare l'atmosfera in qualche modo, in un certo preciso punto ed in un certo preciso istante, ecco che la perturbazione procede per conto proprio, con caratteristiche fisiche che dipendono esclusivamente dal mezzo [Mdc] in cui si propaga (cioè l'aria, ma potrebbe anche trattarsi dell'acqua, o di altro) e non dalla sorgente, la quale può restare ferma, muoversi, scomparire, o ciò che meglio si preferisce immaginare.

Ciò detto, ecco che si ritorna alla questione di prima, come la mettiamo? Come è possibile che entrambi gli osservatori dicano che lo spazio intorno ad essi è isotropo rispetto alla propagazione luminosa, se è contraddittorio che entrambi affermino la stessa cosa [Mdc]?

A questa domanda Einstein risponde paradossalmente [Mdc], e certo in modo molto originale, dicendo che se questa velocità della luce deve essere uguale per i due osservatori, e se questo è impossibile rispetto alla concezione del tempo e dello spazio 'naturali', ecco che bisognerà piuttosto mantenere l'assunto della costanza ed isotropia della velocità, e modificare di conseguenza lo spazio e il tempo dei due osservatori in modo tal che il loro rapporto dia sempre lo stesso valore per la velocità della luce, che si indica con la lettera c. La matematica può far tutto, o quasi [Mdc], ed ecco che è possibile invero fare in modo che gli spazi misurati da O ed O' siano così alterati, come i rispettivi tempi, da evitare il precedente paradosso, anche se a scapito dell'introduzione di ben altre difficoltà, dal momento che lo spazio e il tempo così modificati avranno delle caratteristiche del tutto diverse da quelle che siamo abituati di solito a concepire (forzati anche da un 'linguaggio' che su dette caratteristiche è costruito) (37). Max Born ("La sintesi einsteiniana", Ed. Boringhieri, Torino, 1969, p. 269) così si esprime in proposito: "Era necessaria una revisione dei concetti di spazio e di tempo, basati nell'accezione corrente su ipotesi non provate dai fatti, ed Einstein formulò una nuova teoria che non tenesse alcun conto di simili nozioni preconcette".

Tanto per fare qualche esempio, supponiamo che O' ritenga che un suo collaboratore sia da lui lontano di una certa distanza L; bene, O non sarà d'accordo in questa valutazione, e dirà che la distanza tra O' ed il suo collaboratore è invece minore di questa, in una proporzione che dipende dalla velocità relativa tra i due osservatori (fenomeno della contrazione delle lunghezze). Naturalmente, data l'assoluta simmetria concettuale tra O ed O' accadrà anche il viceversa, ovvero O' riterrà che O sovrastima le sue misure di distanze, perché per lui risultano invece minori (e nella stessa identica proporzione). Per quanto riguarda il tempo invece, intervalli di tempo misurati da O' risulteranno molto più lunghi per O, ovvero se O' dicesse: "tra il verificarsi questi due fenomeni è trascorsa un'ora", O gli replicherebbe: "ma sei matto, non ti accorgi che ne sono passate due?!" (fenomeno della dilatazione dei tempi), ed ancora una volta, ovviamente, varrà anche il viceversa (38). Ne consegue che nella teoria della relatività può accadere ad esempio che due eventi che sono simultanei per un osservatore non lo siano più per un altro [Mdc], o che eventi che stanno nel futuro di O siano nel passato di O', e via di questo passo. E, si noti bene, non c'è nessun assurdo di natura puramente logica, misure di tempi e di spazi possono essere pensate dotate di queste strane caratteristiche, dal momento che la teoria si poggia su un trattamento matematico che in quanto tale sfugge a presunte semplici confutazioni [Mdc].

Tanto per introdurre pochissima matematica, e per di più di tipo assai elementare, diamo la formula che risulta nella teoria della relatività per la cosiddetta "legge di composizione delle velocità". Tutti capiscono che, nel trattamento ordinario dello spazio e del tempo, se Tizio sta correndo a 10 Km all'ora sopra un treno che passa davanti a Caio a 100 Km all'ora (e supponiamo che Tizio stia procedendo nella stessa direzione di marcia del treno), la velocità di Tizio a Caio sarà di 110 Km all'ora, risultante appunto dalla composizione delle due dette. Se diciamo la prima u (quella di Tizio rispetto al treno), e la seconda v (quella del treno rispetto a Caio), la velocità totale di Tizio rispetto a Caio, diciamola w, sarà semplicemente espressa dalla formula di addizione: w = u + v.

Secondo lo spazio ed il tempo relativistici risulterà invece:


w = (u + v)/(1 + uv/c²),

 

e questa formula fornisce con buona approssimazione quella precedente quando u e v sono 'abbastanza piccole' rispetto alla velocità della luce c. In questo caso, infatti, il rapporto u/c sarà un numero abbastanza piccolo, diciamo zero virgola qualcosa, e tale sarà pure il rapporto v/c, sicché il loro prodotto, che è appunto uv/c², sarà ancora più piccolo, ed al denominatore del precedente rapporto si troverà quindi qualcosa che è molto vicina all'unità. In conclusione, la velocità relativistica w è 'quasi uguale' a u + v, il che spiegherebbe perché la relatività sarebbe 'vera' ma nessuno se ne sarebbe mai accorto prima di Einstein: ovvero, proprio perché per le piccole velocità alle quali siamo abituati nell'esperienza ordinaria non c'è quasi nessuna differenza tra le predizioni relativistiche e quelle classiche (39). Ma vediamo cosa succede se Tizio o il treno sono molto veloci, supponiamo ad esempio che il treno vada proprio alla velocità della luce c, vale a dire poniamo nella formula precedente v = c. Si otterrà con semplici calcoli:


w = (u + c)/(1 + uc/c²) = (u+c)/(1 + u/c) =
= c(u + c)/(c + u) = c !


Come dire che, qualsiasi sia la velocità di Tizio rispetto al treno, diciamo anche la velocità stessa della luce, Tizio avrebbe rispetto a Caio sempre la stessa velocità c del treno, ovvero quella che avrebbe se non si muovesse affatto sul treno. Ecco quindi un esempio significativo di come la matematica possa riuscire a fare (quasi) qualsiasi cosa, salvo ad andare a vedere poi se le nostre 'interpretazioni' sono giuste o no [Mdc].

Come ci si può aspettare, naturalmente, Einstein cercò di trovare un fondamento epistemologico al nuovo modo con cui avrebbero dovuto trattarsi lo spazio ed il tempo, ponendo l'enfasi sulle convenzioni per la loro misura sperimentale (40): il tempo è soltanto ciò che viene misurato in un certo modo da strumenti che per comune accordo i fisici chiamano "orologi", secondo procedure molto ben definite, e similmente per lo spazio in ordine alle misure di lunghezze. La nuova teoria guadagnò così il consenso dei fisici sperimentali, che vedevano le regole di misura inserite alla base stessa della fisica [Mdc]; dei matematici (sui quali torneremo nel prossimo capitolo), che vedevano la matematica non convenzionale da essi astrattamente elaborata utilizzata in modo essenziale nella formulazione di una teoria fisica; ma soprattutto ad essa fecero eco tutti coloro che furono lieti di veder così crollare, come non più adeguate alla realtà naturale, le categorie ordinarie (o del senso comune) dello spazio e del tempo, che pure avevano tanto ben servito tutti gli esseri umani per tutto il periodo precedente Einstein ed i suoi esperimenti mentali allo stesso modo che molti erano stati lieti di veder crollare dopo Darwin la fino allora pretesa centralità dell'essere umano, con il conseguente suo inserimento nel regno animale [Mdc].


Comunque si voglia complicare la questione con altre discussioni filosofiche sulla natura e le origini di queste categorie mentali, se a priori o a posteriori, etc., frutto dell'evoluzione, o no, ci sembra di poter affermare in buona fede che la TRR sia sostanzialmente tutta qui, ovvero nella proposta dell'estensione ad ogni campo della fisica della situazione descritta da Galileo. Nessun osservatore può essere in grado di stabilire se si sta movendo o no senza che venga fatto riferimento a qualcosa di tangibile ed esterno; lo spazio vuoto non è "qualcosa", e non esiste alcun modo ragionevole per introdurre una velocità "assoluta", o effetti "assoluti", tutto è soltanto relativo. [Questa idea di relatività di Bartocci è universale e si può pervenire ad essa semplicemente attraverso il sano pensare umano. In fondo è la stessa idea di relatività, che fu percepita in modo sovrasensibile anche da Giordano Bruno in "Opere Latine di G. Bruno" (a cura di C. Monti, Ed. UTET) ed alla quale - proprio perché universale, ognuno può accedere. Su tale idea poggia, per esempio, anche la tutta concezione quantitativa del linguaggio da me sviluppata in "Numerologia biblica. Considerazioni sulla matematica sacra" e "Il sacro simbolo dell'arcobaleno. Numerologia biblica sulla reincarnazione": ogni lettera della lingua ebraica è un "quanto" di Nume, cioè una quantità numerica. Da questo punto di vista la teoria della relatività di Einstein, nonostante le sua insensatezza scientifico-spirituale, può essere detta una necessità storica: "dovrà esistere fino a quando si riuscirà a farne a meno. Oggi infatti tale teoria esiste nella misura in cui l'uomo continua a valersi di concetti che prescindono del tutto dall'uomo. Infatti "volendo conseguire conoscenza del moto o dello stato di quiete, occorre PARTECIPARE all'esperienza del moto o dello stato di quiete: se non sono sperimentati, perfino moto e quiete sono reciprocamente soltanto relativi" (cfr. R. Steiner, "Nascita e sviluppo storico della scienza", VII conferenza, Ed. Antroposofica) - ndc]. La validità del discorso galileiano non si deve confinare soltanto a quei fenomeni che vengono studiati nell'ambito della meccanica classica: tutte le leggi fisiche debbono assumere la stessa forma se stabilite da un osservatore oppure da un altro in moto uniforme rispetto al primo. Questa è la sostanza del famoso principio di relatività, elemento cardine della teoria einsteiniana.

Vediamo tanto per farne un'applicazione come si può interpretare relativisticamente l'esempio del magnete e del conduttore fatto dianzi. Nel caso in cui noi siamo solidali con il conduttore, ed è il magnete a muoversi verso il conduttore, con una data velocità (uniforme), si avrà una certa corrente, la cui intensità sarà funzione di quella velocità. Se invece siamo solidali con il magnete, ed è il conduttore a muoversi verso il magnete, con la stessa velocità di prima, per capire che nel conduttore ci sarà la stessa corrente basta immaginarci in un
riferimento solidale con il conduttore. Da questo nuovo punto di vista nulla sarà cambiato rispetto al caso precedente, vedremo il magnete muoversi verso di noi con la velocità di cui parlasi e l'effetto della corrente sarà identico perché si è supposto appunto che sia nel riferimento solidale con il magnete che in quello solidale con il conduttore valgano le stesse leggi della fisica.

Vista la portata delle possibili applicazioni del principio di relatività, invero assai comodo almeno nelle situazioni in cui vale davvero!, dobbiamo informare che in effetti la TRR consta di due principi, la seconda sua assunzione riguardando la costanza [Mdc] della velocità di propagazione della luce (nel "vuoto", e rispetto ad una classe di osservatori tutti in movimento uniforme l'uno rispetto all'altro). L'enfasi che abbiamo viceversa posto sul primo principio è giustificata dal fatto che il secondo si può considerare in un certo senso come una conseguenza necessaria del primo, come è stato da vari autori successivamente constatato, ed anche qui sostanzialmente evidenziato con i ragionamenti precedenti, che hanno avuto l'effetto di mostrare come entrambi i principi siano in fondo conseguenza dell'assunzione di omogeneità ed isotropia dello "spazio vuoto" (41). La situazione buffa è che molto spesso da parte dei fisici viene dichiarato, o se si
preferisce riconosciuto, che questo secondo principio "è di natura del tutto inesplicabile e dal punto di vista teorico e da quello intuitivo" (vedi ad esempio O. Barbier, "Tempo e relatività", Ed. Bizzarri, Roma, 1976), mentre la generalizzazione del principio di relatività dall'ambito puramente meccanico al contesto più generale, comprendente anche l'ottica e l'elettromagnetismo, sarebbe invece
"intuitivamente accettabile" [in tal senso la relatività di Einstein è in fondo un vasto materiale di studio per una comicità che potrebbe benissimo essere studiata da un Maurizio Crozza del futuro! - ndc]. Considerazioni del genere sono per i motivi sopra detti evidentemente errate, e potremo comprenderne il reale fondamento soltanto nel prossimo capitolo, ma è vero che in effetti ci si rende conto delle difficoltà concettuali inerenti l'eventuale validità del principio di relatività soltanto quando si comincia a ragionare sulle modalità di propagazione della luce, come abbiamo precedentemente fatto.

A questo punto non ci sono alternative: o davvero lo spazio appare omogeneo ed isotropo a tutti gli osservatori che si dicono "inerziali", e non è possibile rilevare alcun effetto fisico di una pretesa 'velocità assoluta', o non è così, e quindi la plausibilità dell'estensione generalizzata del principio di relatività è infondata [Mdc]. Osserviamo esplicitamente che non si tratta di mettere in discussione la TRR dal punto di vista della sua coerenza interna, che essa evidentemente possiede in quanto capace di assumere vesti di teoria matematica, ma soltanto di discutere la fondatezza sperimentale dell'assunzione di fondo da cui essa trae tutta la sua eventuale credibilità. È sotto tale aspetto che si può ritenere, senza essere necessariamente dei "folli", che forse la teoria è completamente sbagliata [Mdc], ed in tal caso allora anche responsabile di cento anni di arresto, di un mancato progresso, nella conoscenza della natura e della sua reale essenza; per non dire della direzione del tutto fallace in cui avrebbe sospinto le concezioni filosofiche di questo Secolo relativamente alle eterne questioni concernenti il 'mistero' dell'uomo e dell'ambiente che lo circonda. Ecco quindi che più approfondite e "serene" discussioni (teoriche e sperimentali) sarebbero più che auspicabili, vista l'enorme importanza delle considerazioni di natura antropologica alle quali la teoria di Einstein 'allude'. È atteggiamento comune presso i fisici di negare ogni coinvolgimento filosofico delle loro teorie, che avrebbero soltanto modeste pretese, ma, come riconosce bene Hans Reichenbach: "Sarebbe un altro errore credere che la teoria di Einstein non sia una teoria filosofica. Essa, che è pure la scoperta di un fisico, ha conseguenze radicali per la teoria della conoscenza: ci costringe a riprendere in esame certe concezioni tradizionali che hanno avuto una parte importante nella storia della filosofia, e dà una soluzione a certe questioni, vecchie come la storia della filosofia, che prima non ammettevano alcuna risposta [...] Se sono filosofiche le dottrine di Platone e di Kant, anche la teoria della relatività di Einstein ha importanza filosofica, e non semplicemente fisica. I problemi di cui essa tratta non sono di carattere secondario, ma d'importanza primaria per la filosofia".

E non potrebbe essere altrimenti, perché una soltanto è la filosofia, così come una soltanto è la conoscenza, ed erigere specialistici steccati, che garantiscano agli 'esperti' di poter vivere tranquilli nel loro campicello in una situazione di controllato monopolio [Mdc], è privo di senso, anche se perdonabile tenuto conto delle umane strutturali debolezze.

Comunque sia, e pure allo scopo di capire più profondamente il significato dei principi relativistici - perché ogni cosa si comprende meglio non soltanto per ciò che essa significa, ma anche per ciò che essa non significa - cominciamo ad occuparci di qualche possibile concezione alternativa alla teoria della relatività, annunciando che nel far questo ci troveremo a dover rivisitare una controversia ormai
abbastanza vecchia, che vide coinvolti gli altri due protagonisti della storia del pensiero scientifico del XVII Secolo che abbiamo già nominato, Cartesio e Newton.

 

Note del Capitolo II

 

(31) La questione è approfonditamente esaminata in Umberto Bartocci e Marco Mamone Capria, "Symmetries and Asymmetries in Classical and Relativistic Electrodynamics", Foundations of Physics, 21, 7, 1991, nel quale si dimostra che il fenomeno dell'induzione assunto da Einstein a fondamento paradigmatico per la sua proposta di estensione del principio di relatività all'elettromagnetismo di Maxwell è in realtà soltanto frutto di una mera coincidenza di calcolo, visto che la pretesa simmetria in tanti altri casi teoricamente prevedibili non si verifica. In altre parole, l'elettromagnetismo di Maxwell non è affatto 'relativistico' come i fisici oggi insegnano [Mdc], ma lo diventa soltanto quando i suoi parametri essenziali vengono definiti in modo relativistico, il che allora toglie ogni possibilità di confronto tra due teorie che sono invece essenzialmente diverse. La comprensione di questo fatto permette invece di poter sperare in qualche smentita (dal punto di vista ovviamente del presente autore!), o in qualche ulteriore conferma dal punto di vista dei supporters di Einstein, delle previsioni relativistiche in un ambito puramente elettromagnetico (né ottico né particellare o altro), che sono estremamente rare e poco profondamente analizzate [Si noti la profonda umiltà dell'autore di questo libro, umiltà che conferma la mia opinione secondo la quale anche in arte, i migliori sono SEMPRE anche i più umili! - ndc].
(32) Da "Come difendere la società contro la scienza", apparso in Rivoluzioni scientifiche, a cura di I. Hacking, AA. VV., Ed. Laterza, Bari, 1984.

(33) Questa analogia è fatta propria dal già menzionato Feyerabend (e nel testo citato), quando sottolinea che "Nella società in generale il giudizio dello scienziato è oggi accolto con la stessa reverenza con cui era accolto non troppo tempo fa quello di vescovi e cardinali", e che "la scienza è diventata oggi non meno oppressiva delle ideologie contro cui dovette un tempo lottare", con la conseguenza che "gli eretici nella scienza devono ancora soffrire le pene più severe che questa società relativamente tollerante può applicare" [Mdc], come abbiamo avuto modo di rilevare anche noi nel capitolo precedente.

(34) Le prime stime sul valore della velocità della luce furono effettuate dall'astronomo danese Ole Christensen Romer nel XVII Secolo, attraverso l'osservazione di alcune anomalie nei periodi dei satelliti di Giove, dovute al fatto che il tragitto che la luce impiegava per arrivare da essi alla Terra cambiava in funzione del movimento più veloce della Terra intorno al Sole rispetto a quello di Giove.

(36) Questa ipotesi fu sostenuta in modo particolare da Walter Ritz, ed essa viene confutata di solito (almeno al livello didattico più evoluto) da delicate osservazioni di tipo astronomico, quali quelle di Willem De Sitter sulle stelle doppie, o l'esperimento di Tomaschek, che usava luce di origine stellare per ripetizioni dell'esperimento di Michelson-Morley (vedi il prossimo capitolo). Sta di fatto che il valore probativo di queste esperienze è stato più volte messo in dubbio, anche se da una parte assai minoritaria in campo scientifico [Mdc]; tra i più vivaci sostenitori dell'ipotesi balistica citiamo il nostro Michele De Rosa, un astronomo di Palermo (per maggiori informazioni si veda ad esempio Gino Cecchini, "Il Cielo", Ed. UTET, 1969, Vol. II, pp. 1350 e seg.).

(37) Come dicono nel 1924 due meccanici italiani, Boggio e Burali-Forti: "La filosofia potrà giustificare lo spazio-tempo della relatività, ma la matematica, la scienza sperimentale ed il senso comune non lo giustificano affatto" [Mdc]. Oggi di fronte a certe prese di posizione si dice che al tempo non erano ancora disponibili gli straripanti risultati sperimentali a favore della teoria della relatività di cui possiamo al presente disporre, ma è ovvio che chi scrive queste pagine pensa che questa non sia la verità, e che il successo della relatività sia più dovuto all'istaurarsi di una moda di un certo tipo che ad altre più 'obiettive' ragioni [Mdc].
(38) È questa la base teorica del famoso "paradosso dei gemelli", caro anche a tanto cinema e letteratura di fantascienza, secondo il quale uno di due fratelli gemelli si allontana dall'altro per un giretto nello spazio, e quando ritorna indietro è ancora abbastanza giovane (diciamo che il viaggio gli è durato soltanto qualche annetto), mentre trova il fratello decrepito, se non morto (per quello rimasto sulla Terra sono passati decenni, se non di più). Non è certo questa la sede per approfondire l'aspetto puramente scientifico della questione, ma almeno ad una cosa si vuole qui accennare: quando vi dicono che il fenomeno della "dilatazione dei tempi" è confermato ad esempio dagli esperimenti relativi all'allungarsi della vita media di particelle 'veloci' rispetto alla Terra nei confronti delle stesse particelle invece 'ferme' in laboratorio, pensate che potrebbe essere come se vi parlassero delle variazioni della vita media di un panetto di burro: questa cambia naturalmente assai a seconda che il burro si trovi in un frigorifero o in un forno! (L'autore deve questa battuta al fisico bolognese Roberto Monti, di cui si parla ancora in altri luoghi di questo libro). Interesserà forse il lettore sapere che anche Ettore Majorana considerava questa argomentazione dei gemelli "una pura bestialità" (citazione dal libro di Valerio Tonini di cui avremo modo di parlare più estesamente nel prossimo capitolo 3, p. 54) [Mdc].
(39) Da questo semplice esempio i fisici sono portati a ritenere che questo sia sempre il caso in generale, ovvero che le previsioni relativistiche coincidano sostanzialmente con quelle classiche tutte le volte che si ha a che fare con 'velocità piccole', ma questa opinione è del tutto errata [Mdc], come si dimostra nel già citato "Symmetries and Asymmetries...". Il fatto è che la gran parte dei fisici ama molto il concetto che: "l'evoluzione delle scienze è determinata da un continuo affinamento dei modelli. Non è vero che le teorie nuove cancellano quelle vecchie: ad esempio la meccanica Newtoniana è stata estesa (non sostituita) dalla teoria della relatività di Einstein. Per comprendere i fenomeni che si manifestano a velocità vicine a quelle della luce [...] è necessaria la formulazione di Einstein, ma per piccole velocità [...] [questa] coincide esattamente con quella di Newton e Galileo. Per mandare una sonda nel Sistema Solare la meccanica che a tutt'oggi si usa è quella Newtoniana" (tanto per citare uno dei tanti comuni superficiali esempi di divulgazione, dalla rivista "Scienza e Paranormale", N. 14, 1997, p. 33). Tanto per accennare alla sorgente dell'errore di questa confortante opinione, se è vero che nella formulazione relativistica della II legge della dinamica, ovvero quella che fornisce le equazioni di un moto, cioè F = d(mv)/dt, si trova al secondo membro una massa che per piccole velocità non differisce molto da quella 'classica', il problema fisico reale è costituito da quello che si mette al primo membro, visto che in certi contesti l'espressione di una forza può cambiare in modo radicale dall'approccio classico a quello relativistico (tanto da poter essere uguale a zero in un caso e diversa da zero nell'altro).
(40) E mettiamo pure l'enfasi sul fatto che, per quanto riguarda i suoi non trascurabili aspetti convenzionali, la teoria della relatività non è così facilmente confutabile [Mdc] come alcuni suoi maldestri critici (comunque sempre più coraggiosi di altri) avrebbero preteso.
(41) Questa non è naturalmente una 'dimostrazione', ma soltanto un'argomentazione, dal momento che resterebbe comunque da scartare, come abbiamo già detto, l'ipotesi balistica. Citiamo comunque il già menzionato H. Dingle, il quale afferma correttamente che: "Einstein's second postulate [...] follows wholly and inevitably from the first" (testo citato, p. 216).
 

 

Capitolo III

Quali possibili alternative? La concezione fluido-dinamica dell'universo

 
Vediamo dunque brevemente se ci sono alternative possibili alla teoria della relatività, tenendo ben presente che se il principio fondamentale di detta teoria dovesse risultare infondato, allora la sua eliminazione dal campo della "filosofia naturale" coinvolgerebbe non soltanto l'ottica e l'elettromagnetismo, ma anche quella meccanica da cui pretese considerazioni di indifferenza del moto uniforme avevano preso origine, come nel caso dell'argomentazione galileiana. Questa premessa dovrebbe cominciare a far capire intanto che la TRR non [Mdc] è in realtà affatto "rivoluzionaria", o meglio che lo è soltanto nella misura in cui porta alle estreme conseguenze l'eventualmente assurda concezione di uno spazio vuoto, omogeneo ed isotropo, fisicamente inattivo, incapace di offrire resistenza ai moti, utilizzato come tale da tutti i padri fondatori della meccanica, a partire da Galileo ma soprattutto da Newton (42) (ed in verità, più dai 'newtoniani' che non da Newton stesso, come avremo modo di vedere).

Il punto di partenza per una concezione alternativa non può essere infatti altro che quell'analogia della luce con il suono, che abbiamo già utilizzato per scartare l'ipotesi balistica nel caso di una sorgente in movimento, quando si tenga conto dell'indispensabile ruolo rivestito dall'atmosfera come mezzo di trasmissione delle onde sonore. Come abbiamo già detto, invero, il suono si trasmette da un punto all'altro della superficie terrestre perché tra di essi c'è dell'aria interposta. In assenza di aria non si verifica alcuna propagazione del suono: un campanello messo sotto una campana di vetro nella quale è stato fatto il vuoto all'interno non squilla più, pure se messo regolarmente in funzione.

All'interno dunque di questa 'analogia' non si vede come sia possibile ritenere fisicamente plausibili delle ipotesi, sia pure in prima approssimazione, quali quelle supponenti l'omogeneità e l'isotropia dello spazio rispetto a ciascun osservatore a prescindere dallo stato di moto o di quiete di questi rispetto allo "spazio" stesso, qualora si consideri per l'appunto questo ambiente come non realmente "vuoto", esattamente come capita per l'atmosfera, che è indispensabile per la trasmissione del suono, e costituisce una realtà fisica così tangibile da potersi avvertire il movimento, ancorché uniforme, attraverso di essa. L'osservatore di Galileo, o Cusano o Bruno, non avrebbe nessuna difficoltà a capire che la nave si sta movendo (rispetto al mare) senza guardare un'eventuale scia, ma semplicemente avvertendo la "brezza" dell'aria sul proprio volto (a meno che, naturalmente, non fosse l'aria stessa a muoversi rispetto al mare, e sempre di "vento" si tratterebbe), ed è proprio per questo motivo che Galileo contempla il caso di qualcuno che si sia "rinserrato sotto coperta". Escludere però che possa esistere qualche altro tipo di "vento" è un'assunzione a priori, un "principio", che merita ulteriori conferme sperimentali, altrimenti si trasforma in un dogma. Vale a dire, riportando la precedente metafora al nostro discorso, se lo spazio fosse pieno di qualcosa simile a un'atmosfera (fosse qualcosa simile a un'atmosfera), entro cui si trasmette la luce, il nostro primo osservatore del capitolo precedente, anche nel momento in cui si trova del tutto 'solo' nello spazio, senza apparenti punti di riferimento esterni, non ha alcuna ragione per assumere alla leggera l'equivalenza di tutte le direzioni in cui lancia il raggio di luce, a meno che non abbia qualche particolare motivazione per ritenersi egli stesso in quiete rispetto allo spazio. In caso contrario, è del tutto chiaro che la direzione in cui avviene il suo movimento nello spazio potrebbe essere privilegiata rispetto a tutte le altre, e ci si può aspettare che il comportamento del raggio di luce in questa specifica direzione sia differente.

In verità, lasciando da parte sia il problema della fondatezza sperimentale di entrambe le assunzioni einsteiniane, sia quello dell'asserita perfetta corrispondenza delle previsioni relativistiche alla realtà pure sperimentale determinata successivamente al 1905 (tutta quella serie di fenomeni che sono detti "relativistici", tra i quali più famosi quelli cosiddetti della contrazione delle lunghezze e della dilatazione dei tempi, l'aumento della massa di particelle elementari accelerate, l'esistenza di una velocità limite, etc.), da un punto di vista puramente 'logico' la TRR si presenta sin dall'inizio come una teoria sgradevolmente antinomica, visto che il suo primo principio appare fisicamente compatibile soltanto con l'ipotesi dell'inesistenza [Mdc] di un "mezzo" che riempie lo spazio, mentre il secondo riferisce alla luce proprietà che sono fisicamente plausibili al contrario soltanto con l'esistenza [Mdc] di un mezzo nel quale la luce, a somiglianza del suono, possa propagarsi, con una propria velocità caratteristica dipendente appunto dalle caratteristiche fisiche di quel mezzo. In questo caso, infatti, la velocità con cui si propaga una perturbazione del mezzo non dipende dallo stato di moto o di quiete della sorgente perturbatrice, mentre dipende invece, ed in modo ovviamente essenziale, dallo stato di quiete o di moto dell'osservatore rispetto al mezzo. Se noi siamo in automobile e corriamo verso il punto in cui è caduto un fulmine, ecco che il rombo del tuono ci arriverà prima che se fossimo rimasti fermi al punto di partenza, mentre se ci allontaniamo dal punto di impatto del fulmine il tuono ci raggiungerà ovviamente qualche istante dopo.

Per capire bene la teoria della relatività e le sue premesse bisogna riferirsi al quadro concettuale della fisica della fine del secolo scorso. Da una parte la meccanica, con i suoi grandi trionfi in campo astronomico, che hanno visto la scienza trionfatrice nei confronti delle forze tradizionaliste della Chiesa cattolica dopo il famoso processo a Galileo; dall'altra, la tradizione ottica ed elettromagnetica sviluppatasi nel XIX secolo. Secondo la prima lo spazio è vuoto [Mdc], non esiste alcuna cosa che possa fare impedimento al libero movimento dei corpi, se uno di questi si muove di moto uniforme in un certo istante (ed in un certo riferimento appunto detto "inerziale") continuerà a conservare questo suo stato di moto indefinitamente (questa è la sostanza del cosiddetto "principio di inerzia"). Verso l'inizio del XIX Secolo però alcuni esperimenti con la luce mettono in evidenza un fatto assai curioso, e cioè che diversi raggi di luce sovrapponentisi in un certo punto dello spazio possono dar luogo, anziché a più luce, a buio (i cosiddetti fenomeni di interferenza luminosa). La spiegazione per questo tipo di fenomeni venne ascritta ad un mezzo che riempiva lo spazio e che era responsabile della propagazione della luce, il cosiddetto etere luminifero [Mdc], una sorta di particolare 'atmosfera' per la luce, con analogia al ruolo della reale atmosfera terrestre nel caso della trasmissione del suono. Il buio può prodursi dalla somma di luce più luce così come lo stato di quiete può risultare nella superficie di un lago quando due diverse onde tra loro sfasate vengono a sovrapporsi in modo tale che quando una sale l'altra scende, e viceversa. Si introduce così la cosiddetta teoria ondulatoria della luce, che si contrappone alla gemella ed antitetica teoria corpuscolare, secondo la quale la luce sarebbe composta da minuscole 'particelle' (alle quali ci si riferisce ancora oggi con il termine fotoni) emesse dalla sorgente luminosa. La teoria ondulatoria postula un mezzo in cui la propagazione dell'onda possa aver luogo, quella corpuscolare no, anzi postula che nulla possa disturbare e rallentare la corsa dei fotoni.

Già nel "Tractatus de Lumine", di C. Huygens, del 1690, troviamo echi della concezione ondulatoria, laddove è scritto: "Non c'è dubbio che la luce arrivi da un corpo luminoso a noi come moto impresso alla materia interposta" (43); e gli fa eco qualche anno dopo J. Clerk Maxwell, il già nominato creatore della moderna teoria elettromagnetica, il quale, spiegando la luce come un fenomeno elettromagnetico, ricondusse lo studio dell'ottica a quello dell'elettromagnetismo, e cercò di teorizzare il ruolo fondamentale dell'etere luminifero anche in questa disciplina: "Riempire tutto lo spazio con un nuovo mezzo ogni volta che si debba spiegare un nuovo fenomeno, non è certo cosa degna di una seria filosofia, ma se lo studio di due diverse branche della scienza ha suggerito in modo indipendente l'idea di un mezzo, e se le proprietà che si devono attribuire al mezzo per spiegare i fenomeni elettromagnetici sono identiche a quelle che si attribuiscono al mezzo luminifero per spiegare i fenomeni luminosi, si rafforzerà notevolmente il complesso di prove a favore dell'esistenza fisica del mezzo" (44).

Maxwell aveva infatti dimostrato che la velocità che bisognava supporre per la propagazione delle perturbazioni elettromagnetiche era suppergiù la stessa che era stata determinata per via sperimentale dai primi astronomi che avevano effettuato stime della enorme velocità della luce, e tale identità non poteva appunto essere una coincidenza!

Abbiamo parlato di un mezzo fisico, reale, e pertanto suscettibile in linea di principio di poter essere osservato sperimentalmente, e compreso nelle sue proprietà. Presumibilmente non soltanto protagonista passivo delle varie trasformazioni ed interazioni fisiche che avvengono in esso, bensì partecipe in maniera diretta del verificarsi dei fenomeni naturali, quando addirittura non causa prima di essi. Questa era ad esempio la concezione di Michael Faraday, il famoso fisico sperimentale che tra i primi studiò le impreviste relazioni esistenti tra elettricità e magnetismo, e fu anche in qualche modo quella del dianzi ricordato Maxwell, la cui teoria viene oggi paradossalmente considerata quale uno dei punti a favore della teoria della relatività (45).

Una concezione fluido-dinamica dunque, come può dirsi quella relativa all'introduzione del concetto di "etere", termine che useremo d'ora innanzi per brevità, la quale si oppone alla concezione dello spazio vuoto, come siamo stati abituati ai giorni nostri a concepire lo spazio in cui sono immersi il Sole, la nostra Terra, i pianeti, le stelle, sin dai primi anni di scuola. Tanti piccoli puntini di materia sparsi in un enorme spazio vuoto, anziché 'addensamenti' di etere, nel quale ci troveremmo a vivere come pesciolini in un oceano.

Per comprendere bene quello che successe all'inizio del presente Secolo, bisogna riflettere sulla circostanza che la fisica si trovava allora in una situazione assai curiosa: da un canto lo spazio era tutto vuoto per la meccanica, madre fondatrice della fisica, ed era invece tutto pieno per i teorici dell'ottica e dell'elettromagnetismo, che vedevano nelle proprietà fisiche dell'etere la migliore delle spiegazioni possibili per i fenomeni di loro competenza, attraverso l'uso del criterio di analogia. Una situazione altamente contraddittoria quindi, anche se relativa a due campi di indagine differenti, per una fisica ancora incapace di escogitare gli artifici dialettici post-relativisti [Mdc], quando ad un intelletto ormai ridotto a quello di un "povero mammifero primate", manifestamente insufficiente per intuire i profondi misteri della struttura dell'universo, poté parlarsi del dualismo onda-corpuscolo, di una luce che talvolta si manifesta per noi come un'onda, e talvolta come una particella, ma che in realtà non è nessuna delle due: siamo soltanto noi ad essere incapaci di concepire cosa essa realmente sia, al di fuori delle nostre formule matematiche, per la limitatezza dei nostri concetti mentali basati su una assolutamente scarsa esperienza. Riuscire a prevedere di tanto in tanto con le nostre formule gli effetti quantitativi di certi fenomeni ci deve bastare, come ammonisce l'illustre fisico Richard P. Feynman, Premio Nobel per questa disciplina nel 1965: "What I am going to tell you about is what we teach our physics students [...] and you think I'm going to explain it to you so you can understand it? No, you are not going to be able to understand it. [...] It is my task to convince you not to turn away because you don't understand it. You see, my physics students don't understand it either. That is because I don't understand it. Nobody does. [...] It's a problem that physicists have learned to deal with: They've larned to realized that whether they like a theory or they don't like a theory is not the essential question. Rather, it is whether or not the theory gives predictions that agree with experiment. [...] The theory of quantum Electrodynamics describes Nature as absurd from the point of view of commn sense. And it agrees full with experiment. So I hope you can accept Nature as She is -absurd" ("QED -The strange theory of light and matter", Princeton University Press, 1985, pp. 9-10, corsivi nel testo).

 


 

Questo tipo di argomenti - che Feynman ribadisce all'inizio delle sue celebrate lezioni di Meccanica Quantistica ("The Feynman Lectures on Physics", Addison-Wesley Publ. Co., 1965): "We choose to examine a phenomen which is impossible, absolutely impossible, to explain in any classical way, and which has in it the heart of quantum mechanics. In reality, it contains the only mystery" (46) -mostra chiaramente che nasce con la teoria della relatività una fisica che dovrà rinunciare d'ora in poi e per sempre ad ogni tentativo di spiegazione per analogie, e quindi ad una fisica qualitativa che si accompagni ad una fisica quantitativa [Mdc].

Einstein con abilità retorica assai apprezzabile riuscì prima o poi a convincere tutti, o quasi, utilizzando per alcuni il sacrosanto principio di relatività, per altri l'altrettanto sacrosanto principio dell'invarianza della velocità di propagazione di una perturbazione dalla velocità della sorgente perturbatrice, relativamente al mezzo in cui la perturbazione si propaga (ed ecco spiegata la ragione del fenomeno prima descritto per cui alcuni trovano accettabile ed intuitivo un principio della relatività e non l'altro, o viceversa!). Peccato appunto che le due teorie da cui detti principi provenivano fossero tra loro assolutamente antitetiche, e che in realtà l'opzione di Einstein, come abbiamo visto nei discorsi qualitativi di riconduzione del secondo principio relativistico al primo, sia tutta a favore della concezione dello spazio vuoto, omogeneo ed isotropo, comune ai padri fondatori della meccanica, ma non a quelli dell'elettromagnetismo. Una concezione dello spazio fisico che si confonde con quella dello spazio matematico, il primo una categoria della realtà, il secondo una categoria dell'intelletto [in termini antroposofici: "il primo un oggetto di percezione sensibile, il secondo un oggetto di percezione sovrasensibile - ndc]; il primo suscettibile solo di indagini a posteriori, per mezzo di esperienze, l'altro analizzabile invece a priori, per mezzo di assiomi e ragionamenti deduttivi. Un approccio come si dice "riduzionista" che confonde terribilmente non solo lo spazio ed il tempo, ma addirittura i due ambiti del "reale" e del "pensato", entro i quali si svolge tutta l'esperienza umana [questa osservazione è antroposofica!, indipendentemente dall'eventuale conoscenza o meno, da parte di Bartocci, dell'antroposofia di Steiner - ndc]. Lo spazio veramente vuoto non ha alcun senso fisico, e si trova come tale, ovvero come idealità astratta, soltanto nello studio della geometria, così come lucidamente osservava Ettore Majorana (47): "E poi veniamo ad Einstein e qui io debbo tacere perché Einstein è diventato un idolo intrasgredibile, un tabù. Eppure proprio Einstein ci ha messo undici anni, dal 1905 al 1916, a capire che la Relatività Ristretta era una mera e insignificante geometrizzazione euclidea di un impossibile movimento rettilineo in un inesistente spazio supposto vuoto, del tutto uniforme, omogeneo, isotropo [...]".

Nello spazio veramente vuoto non dovrebbe neppure concepirsi la possibilità di fenomeni fisici come quello della luce, sicché gli osservatori immaginari di cui alle nostre discussioni del capitolo precedente non avrebbero alcuna possibilità, neanche teorica, di scambiarsi segnali luminosi, sincronizzare orologi, etc., secondo le convenzioni einsteiniane [Mdc], perché non avrebbero a disposizione né la luce né tanto meno un principio di costanza per la sua velocità!

Una nuova concezione quella di Einstein, che mostra come si possano conciliare matematicamente quei due principi provenienti da teorie opposte, anche se in modo irrimediabilmente contro-intuitivo [Mdc] (48), e che fa felici per questo ruolo fondante della matematica i cultori di questa disciplina, che non aspettavano altro che vedere la loro teoria indispensabile per l'enunciazione di qualsiasi concetto fisico. Su questo argomento è stato scritto moltissimo, ma un rapido cenno non può in effetti trascurare quali cause dell'affermazione della TRR, oltre le ragioni "filosofiche" che sono state spesso evidenziate, anche la tendenza della fisica di questo secolo di privilegiare l'aspetto 'matematico' delle teorie, e quindi la loro 'bellezza' ed armonia interna. Ad esempio il cosmologo Hermann Bondi ritiene "intollerabile" la possibilità che "tutti i sistemi inerziali siano equivalenti da un punto di vista dinamico ma distinguibili con misure ottiche" (49), ed in effetti la TRR da questo punto di vista è più semplice di altre, soprattutto se si tiene conto che la meccanica dei fluidi non ha ancora sviluppato un formalismo matematico che sia del tutto conveniente ad inquadrare la teoria dell'etere e dei suoi movimenti. Ma il riferimento alla matematica non può essere tutto qui, perché anche questa disciplina ha le sue lotte interne, le sue contrapposizioni filosofiche e di gusto, e bisogna allora sottolineare anche come la teoria di Einstein fu immediatamente sentita un forte alleato a favore di quei matematici che da tempo stavano cercando di proporre, evidentemente influenzati dalla crescente affermazione delle teorie darwiniste, una nuova fondazione della matematica, non più basata sulle intuizioni fondamentali dell'essere umano in ordine alle concezioni di spazio (geometria) e tempo (aritmetica) [Mdc]. Così si esprime ad esempio a favore della nuova impostazione della fisica Hermann Minkowski (1907), un matematico di Göttingen, ambiente in prima linea nella rivoluzione matematica alla quale si è accennato, e tra i primissimi anche a rendersi conto dell'utilità della teoria di Einstein per certe concezioni di filosofia della matematica e della scienza (Minkowski era anche stato tra i professori di Einstein quando questi era ancora studente a Zurigo) (50) : "Le vedute sullo spazio e sul tempo che desidero esporre davanti a voi sono sorte dal terreno della fisica sperimentale, ed in esso risiede la loro forza. Queste vedute sono radicali. D'ora in poi lo spazio preso a sé stante, e il tempo preso a sé stante, sono condannati a scomparire come pure ombre, e soltanto una sorte di unione dei due conserverà una propria realtà indipendente".

E, si noti bene, con questo famoso saggio in cui si espone per la prima volta la costruzione formalista del cronotopo (o spazio-tempo) della teoria della relatività, Minkowski prendeva due piccioni con una fava [Mdc]: da una parte persuadeva i fisici riluttanti ad ingoiare il boccone einsteiniano con il riferimento all'autorità ed al rigore della formulazione matematica che proponeva, dall'altra persuadeva matematici più conservatori, e restii ad apprezzare le moderne tendenze fondazionali riduzioniste e programmaticamente antiintuitive, che esse fossero purtroppo necessarie in ragione della pretesa forza di certi risultati sperimentali, che i matematici non potevano certo approfondire, e che comunque al tempo la teoria della relatività non poteva vantare proprio a suo favore!

Einstein, Minkowski, Feynman, e davvero tanti altri stimati e riconosciuti esponenti della comunità ebraica schierati a favore delle teorie di Einstein (51): è permesso congetturare che questa circostanza è forse una conferma di quanto abbiamo detto nel primo capitolo in ordine a connessioni di natura 'politica' che rendono poco serena, se non decisamente imprudente, e da tanti punti di vista, la discussione di certe questioni? È sorprendente come la stessa considerazione venga effettuata dal già citato Ettore Majorana, che scrive ben prima dell'Olocausto, quando rileva tristemente che "disgraziatamente, sembra che si vogliano inquinare codeste discussioni con balorde idee antisemite. Sarebbe veramente grande disgrazia - che Dio tenga lontana da noi - se fra me e i miei carissimi amici ebrei, come Segrè, per esempio, dovesse anche lontanamente insinuarsi un dubbio di reciproca incomprensione atavica" (dal libro di V. Tonini già citato, p. 55).

Sono veramente non più attuali questi timori?, l'autore lo spera vivamente, anche se non ne è per la verità del tutto convinto.

Nella concezione fluido-dinamica dell'universo diventa come abbiamo detto assurdo condividere i presupposti generali della TRR [Mdc], ritenere per esempio a priori lo spazio omogeneo ed isotropo, anche perché non vanno trascurati in linea di principio, oltre che il movimento degli osservatori rispetto allo spazio, anche possibili movimenti di parti dello spazio fluido rispetto ad altre sue parti (le "correnti dello spazio"). Conformemente a questa ipotesi sulla natura dello spazio, risulta infatti che, se appare genericamente infondato ritenere 'fisicamente equivalenti' due osservatori in moto uniforme l'uno rispetto all'altro, non è neppure da aspettarsi però che questo sia sempre il caso, perché potrebbero immaginarsi due osservatori ciascuno dei quali è in quiete rispetto allo spazio circostante che pure sono in movimento relativo l'uno rispetto all'altro!

Intermezzo - Il riferimento ai possibili "moti propri" del mezzo rispetto ad altre sue parti meriterebbe parecchia più attenzione, soprattutto per coloro, e non sono pochi, che sono pronti a 'sbranare' il presente autore per qualche precedente rinuncia al 'rigore' a favore di una più spedita divulgazione (anche se l'evidenziazione di eventuali sviste tecniche resterebbe comunque un pretesto per il ben più grave reato di 'lesa maestà'). Questo interludio può comunque essere 'saltato' dai lettori meno ferrati in certo tipo di questioni, e più interessati allo svolgersi delle presenti argomentazioni per linee generali.

Va ammesso in effetti che, nel confronto tra TRR e teoria dell'etere bisognerebbe porsi allo stesso livello di presupposti iniziali, ovvero nelle condizioni di uno spazio 'privo di materia', la TRR costituendo per l'appunto una riflessione di tipo preliminare sulla "fisica" che può essere effettuata in questa situazione, nella quale, si potrebbe dire, più che le "cose", ad agire sono gli "osservatori". Naturalmente però, in una teoria dell'etere si potrà sì prescindere da particolare materia in esso contenuta, ma non dall'etere stesso. Ciò premesso, si potrebbe allora obiettare che gli ipotizzati "moti" dell'etere non dovrebbero essere presi in considerazione neppure come possibilità teorica in questa prima fase, perché in una concezione fluido-dinamica corretta essi avrebbero origine solo dalla materia, o viceversa la materia avrebbe origine da essi, e comunque sia, in entrambi i casi, moti dell'etere e presenza della materia verrebbero ad essere tra loro strettamente correlati. Che i moti dell'etere siano originati dalla materia in esso immersa (che è comunque sempre 'etere') è un'ipotesi che si ritrova nel generalmente disprezzato lavoro di Marco Todeschini, "La Teoria delle Apparenze", Ist. It. di Arti Grafiche, Bergamo, 1949 (anche se il sistema, se non vogliamo dire "scientifico", ma anche soltanto "filosofico", di questo autore risulta quanto mai attraente, e degno di essere considerato alla pari di altri ben più noti, ma molto meno ricchi di contenuti); mentre l'ipotesi per così dire inversa, e cioè che sia la materia ad essere 'originata' da questi moti si ritrova invece nei lavori di un altro misconosciuto scienziato dilettante italiano, Niccolò Mancini, le cui "intuizioni" sembrerebbero anch'esse meritevoli di ben altra considerazione che non il silenzio con il quale sono state generalmente accolte (52). A questo stesso proposito si deve citare anche la concezione dell'altrettanto sconosciuto scienziato 'dilettante' italiano Olinto De Pretto, di cui ci occuperemo però in modo particolare nel seguito di questo libro.

Dicevamo, si dovrebbe fare soltanto un discorso ideale sulle condizioni nelle quali si verrebbe presumibilmente a trovare un osservatore immerso in un oceano di etere immobile e "privo di materia" (a parte naturalmente tutto ciò che gli serve per misurare, sincronizzare orologi, etc.), e quindi il 'giusto' raffronto dovrebbe essere eseguito tra una teoria dell'etere 'mobile' e la teoria della relatività generale (TRG nel seguito), che è la teoria con la quale Einstein descrisse anche la gravitazione all'interno delle sue nuove concezioni di spazio e di tempo (53). Un confronto tra queste due teorie esula ovviamente dai limiti che si propone il presente lavoro, pure si può subito immaginare quale tipo di rappresentazione del cosmo possa offrire l'ipotesi dell'etere mobile. Tra questa e la TRG si riscontrerebbe allora una molto maggiore somiglianza qualitativa, perché si può dire, e capire, che la presenza della materia "incurva" lo spazio, anche se sarebbe meglio dire il viceversa, ovvero, che è lo spazio "incurvato" che ci "appare" come materia (54)! Il moto del fluido si potrebbe

descrivere "in grande" con una qualche struttura riemanniana dello spazio fluido, le cui geodetiche corrisponderebbero alle "traiettorie medie" delle "monadi d'etere" (per usare una terminologia del famoso matematico teorizzatore della cosiddetta teoria degli insiemi Georg Cantor). Nella visione di un etere ispirata alla fluido-dinamica il concetto astratto di campo di forze scompare per essere sostituito da quello di "campo di velocità", il quale sarebbe poi lui a determinare i vari tipi di forze, che ci appaiono con caratteristiche differenti pur avendo tutte origine da un'unica causa, l'interazione del 'fluido' con i vari 'corpi' in esso immersi. In altre parole, le forze non sarebbero entità fisiche reali, ma risulterebbero soltanto dalla contemporanea presenza del fluido e dei corpi (pensati questi come altre 'parti' di etere, aventi però diverso stato di velocità), e "reali" sarebbero soltanto quindi le diverse condizioni di moto delle varie parti del fluido. La concezione che è stata appena esposta si ispira in larga parte alle idee del già citato M. Faraday, ed è l'oggetto del lavoro di M. Todeschini da poco menzionato. Come dire che le forze andrebbero sostituite concettualmente con "stati d'eccitazione" dello spazio, che si manifesterebbero sui vari corpi immersi in esso a seconda delle loro caratteristiche fisiche, come massa, carica (55), etc., ma anche stato di moto, e quindi velocità, rotazione, ed infine, perché no, "forma" (il che potrebbe spiegare perché corpi diversi situati nello stesso punto dello spazio reagiscono alla presenza delle "forze" in modi diversi). Il principio di inerzia si enuncerebbe invece affermando che ogni corpo tende ad assumere le condizioni di moto dello spazio circostante (aprendo pertanto la strada verso una oggi inattuale distinzione tra 'moti spontanei' e 'moti forzati'), e così via di questo passo. Naturalmente, ancorché di analogie qualitative si tratti, e quindi possa essere in qualche senso accettabile l'affermazione "relativistica" secondo la quale la "geometria" più adatta a studiare i fenomeni fisici sarebbe la geometria riemanniana, anziché la geometria euclidea, pure la visione "classica" ed intuitiva che qui si propone come possibile alternativa differisce profondamente e dalle concezioni generali e dal formalismo della TRG. Questa si 'edifica' infatti sulla TRR, ed in quanto tale, in conformità al principio di invarianza della velocità della luce (che adesso sarà però soltanto di natura "locale"), esegue tutte le sue costruzioni in uno spazio degli eventi quadridimensionale, la geometria del quale è soltanto pseudo-riemanniana. Secondo la teoria che qui si sostiene invece, conformemente all'ipotesi sulla natura fluido-dinamica dello spazio fisico, si dovrebbe poter sempre lavorare in un ambiente tridimensionale, e con una struttura propriamente riemanniana. Va da sé, anche questa fisica dell'etere dovrebbe poi sempre alla fine collocarsi in un ambiente quadridimensionale degli "eventi", aggregando alle tre dimensioni spaziali anche un'altra temporale, ma spazio e tempo resterebbero comunque sempre tra loro nettamente separati, come in tutta la fisica precedente l'avvento della relatività, e la non-euclideità, o curvatura, dello spazio, resterebbe di pertinenza esclusiva delle sole dimensioni spaziali dello spazio fisico reale, e non già dello spazio-tempo tutto intero (e men che meno dello spazio puramente geometrico dell'intelletto). In altre parole, tale non-euclideità si ritroverebbe solamente nella "matematizzazione" dello spazio fisico reale, e non si verificherebbe alcun contrasto con l'intuizione astratta del concetto di spazio, la quale continuerebbe come sempre ad essere perfettamente descritta dalla geometria euclidea, in conformità con quanto asserito dalla filosofia kantiana. La geometria euclidea resterebbe infatti comunque alla base anche di quella matematizzazione, oltre che di tutta la matematica, visto che non è certo impossibile concepire l'idea di uno spazio astratto euclideo nel quale si svolga il moto "curvo" di un "fluido" che lo riempie tutto.

Ritornando dopo questo "intermezzo" al nostro discorso principale, osserviamo esplicitamente che secondo la concezione fluido-dinamica cessa di essere verosimile anche l'astratto principio di inerzia della meccanica 'classica', e quindi tutta questa disciplina che su esso si fonda, perché lo spazio per quanto 'tenue' deve essere ritenuto in linea di principio capace di opporre una resistenza al movimento dei corpi, e nessun oggetto materiale può essere pensato capace (neppure in una situazione limite ideale) di conservare all'infinito un proprio eventuale stato di moto, rispetto ad un riferimento solidale con l'etere, senza che venga rifornito di 'energia' dall'esterno (avremmo in caso contrario una sorta di "moto perpetuo" implausibile ed innaturale).

Val forse la pena di spendere una parola in più sulle possibilità concettuali offerte dall'introduzione di eventuali interazioni con un mezzo, e sui rischi che possono conseguire dal trascurarle, in ragione dei fenomeni altrimenti inesplicabili che invece proprio ad esse potrebbero essere attribuiti. È ben noto in effetti come la meccanica classica, ovvero newtoniana, sia entrata in crisi quando non si riuscì per il tramite di essa a spiegare la stabilità delle strutture atomiche, o più in generale di rendere conto delle traiettorie delle particelle protagoniste della cosiddetta fisica del microcosmo. Sia la TRR che successivamente la cosiddetta "meccanica quantistica" furono chiamate a supplire a tale fallimento, entrambe non procedendo però ad una autentica revisione della meccanica newtoniana, che per l'appunto trascurava la possibilità dello spazio pieno e delle sue conseguenze, bensì al contrario 'migliorando' quella stessa impostazione portando i suoi principi alle estreme conseguenze, come nel caso di Einstein. La scelta del fisico tedesco fu quella di 'mantenere' il principio di inerzia, e quindi il concetto di "sistema di riferimento inerziale", e di estendere la validità del principio di relatività, che funzionava così bene nell'ambito della dinamica, anche a quello dell'ottica e dell'elettromagnetismo, nonostante tutte le conseguenze che ciò avrebbe implicato in ordine al trattamento dello spazio e del tempo. Ma, visto che la meccanica newtoniana stava già fallendo nel microcosmo, e poiché si è parlato tanto dell'ardimento di Einstein, non sarebbe stato al contrario più degno di essere definito 'coraggioso' chi avesse cercato invece di modificare alcune delle vecchie impostazioni, anziché estenderne forse indebitamente l'ambito? Trascurare la presenza del mezzo può anche essere inessenziale in effetti per prevedere la traiettoria di una palla di cannone, ma probabilmente non quella di una particella che comincia ad avere lo stesso ordine di grandezza di quelle, di natura ancora da determinare, che potrebbero costituire il fantomatico mezzo [Mdc]! Fenomeni quali l'aumento della massa inerziale di un elettrone, con il quale si esprime il fatto che si incontra difficoltà ad accelerarlo ulteriormente quando sia già prossimo a velocità simili a quella della luce, non avrebbero potuto ascriversi più plausibilmente all'aumento con la velocità (o meglio con il quadrato di essa) di una "resistenza" di tipo fluido-dinamico opposta dal mezzo? Anche la meccanica quantistica, ancor meno inquadrabile della relatività negli schemi della "razionalità classica", la quale pretende che il mondo microfisico sia assurdo per il senso comune, avrebbe potuto trovare invece una notevole fonte di ispirazione per possibili ragionevoli 'spiegazioni' nella concezione fluido-dinamica [Mdc]. Si segnalano qui ad esempio alcuni
lavori di B. H. Lavenda ed E. Santamato (56), che cercano di dare della meccanica quantistica un'interpretazione che non impropriamente si potrebbe definire "razionale" nel senso che qui stiamo illustrando. Citiamo dal primo dei lavori citati: "Quantum indeterminism is explainable in terms of the random interactions between quantum particles and the underlying medium in which they supposedly move"; e dal secondo: "It might perhaps be possible to develop a completely classical formulation of quantum mechanics based upon the irregular
motion of a single Brownian particle immersed in a suspension of lighter particles".

Così pure, i limiti della meccanica classica potevano essere ben evidenziati, a livello del microcosmo secondo quanto appena detto, ed a livello del macrocosmo in quanto le interazioni fisiche, svolgendosi presumibilmente nel mezzo, ed anzi forse proprio a causa di questo, non potevano, esattamente per questa ragione, essere supposte istantanee, bensì dotate di una velocità finita, dipendente dalla costituzione del mezzo stesso. Uno spazio veramente vuoto non dovrebbe essere capace di offrire in linea di principio nessun tipo di resistenza, e quindi non bisognerebbe aspettarsi neppure alcun limite superiore alla velocità delle interazioni svolgentisi in esso - non così ovviamente invece nel caso di uno spazio "pieno". Come a dire che, mentre nello studio idealizzato del moto dei corpi effettuato dalla meccanica classica (che si può applicare poi come detto soltanto a quelli macroscopici), si può 'ragionevolmente' trascurare l'interazione con il mezzo, questo non sembra proprio il caso di un fenomeno come la luce, il quale, oltre ad esserci ancora sostanzialmente ignoto, è presumibilmente collegato in maniera strettissima con il mezzo in cui essa si propaga . È strano a pensarci bene un siffatto uso dell'"ignotum per ignotius" (come si dice quando si cerca di spiegare una cosa sconosciuta mediante l'introduzione di un'altra ancora più sconosciuta), con il quale si pretende di dar forma 'razionale', e matematicamente semplice, alla natura utilizzando come principio per una sua spiegazione un fenomeno che ci è così poco noto come la luce [Mdc]!

Senza trascurare l'importanza delle nozioni pratiche e sperimentali che, permesse dallo sviluppo della fisica di questo secolo, hanno consentito l'accumulo di conoscenze sconosciute ed impensabili ai tempi di Galileo e di Newton, pure sembra potersi dire che la sistemazione concettuale che la stessa fisica ha poi di fatto di tali acquisizioni effettuato si possa ritenere, per quanto fin qui detto, estremamente carente ed insoddisfacente, e necessaria pertanto di una pronta revisione.

Due parole potrebbero ancora dirsi in relazione alla concezione fluido-dinamica ed all'astrofisica, disciplina oggi largamente divulgata per quel che concerne le moderne ipotesi sull'origine dell'universo. La famosa radiazione di fondo, contrariamente all'opinione oggi comune secondo la quale consisterebbe della radiazione che ha riempito l'universo successivamente al mitico big-bang primordiale (teoria che, non lo si dimentichi, ha origine e plausibilità solamente in ambito relativistico, e mostra sempre più buchi, anche se non esattamente "neri", da tutte le parti) [Mdc], potrebbe invece costituire, conformemente con la teoria dell'etere, nient'altro che 'un'oscillazione di fondo' di esso, ovvero, il residuo di tutte le 'vibrazioni' che arrivano ormai smorzate dalle parti più lontane dell'universo. Un interessante lavoro di Roberto Monti (57), "Albert Einstein e Walter Nernst: Cosmologie a confronto", esamina la storia della teoria del big-bang, a partire dalle diverse possibili interpretazioni del red-shift sperimentale che è all'origine della teoria cosmologica oggi di maggior successo. Come si sa, infatti, da evidenze sperimentali che sembrano inoppugnabili, la luce che ci arriva dalle lontane stelle sembra aver perso parte della sua energia rispetto a quella che possedeva presumibilmente quando era partita (red-shift significa spostamento verso il rosso, la luce rossa ha minore energia di una luce violetta, in virtù di una nota relazione tra energia e frequenza della luce, la luce che ci arriva dalla maggior parte delle lontane stelle appare "spostata verso il rosso"): ciò può essere affermato sulla base delle nostre ipotesi sulla costituzione di dette stelle, che ci permettono di indovinare il tipo di luce che viene emessa in origine, e di confrontarla poi con quella che effettivamente riceviamo. È chiaro che un 'eterista' potrà facilmente spiegare il fenomeno (almeno qualitativamente) come dovuto ad un assorbimento dell'energia della radiazione luminosa da parte del mezzo, ma come potranno spiegarlo i fisici moderni, visto che per essi non c'è nulla interposto tra la stella e noi che possa avere provocato tale perdita di energia? Si ricorre allora ad un altro noto fenomeno, il cosiddetto effetto Doppler: tutti avranno notato che il fischio di un treno appare più acuto quando il treno si avvicina, e più grave quando si allontana: la ragione di ciò consiste nel fatto che tale caratteristica del suono è legata alla frequenza dell'onda sonora, e che questa varia così come qualitativamente indicato in funzione della velocità del treno rispetto all'atmosfera. Vale a dire, la frequenza aumenta quando il treno si avvicina (ed il nostro orecchio riceve fronti d'onda che sono ravvicinati, perché emessi da punti sempre più vicini a noi), mentre diminuisce per lo stesso motivo quando il treno si allontana. Trascurando il non proprio innocentissimo particolare che un simile effetto si riconosce pure per la luce, che per la fisica moderna non è più un onda e non ha più un mezzo dove propagarsi, ecco che l'effetto Doppler si considera valido anche in ottica, e lo spostamento verso il rosso, ovvero la diminuzione di frequenza della luce, viene così attribuito ad una fantomatica 'velocità di fuga' delle stelle, che si allontanerebbero da noi come il treno di poc'anzi con velocità che appaiono sempre più elevate man mano che le stelle sono più lontane (58). Quindi, un allontanamento dal luogo di una presunta esplosione, e non un semplice effetto della lontananza, come sarebbe stato più naturale e diretto supporre [Mdc]!

E qui c'è luogo per una precisazione, dal momento che la teoria del big-bang non è in verità qualcosa che sia possibile spiegare attraverso normali analogie facenti capo alle nostre intuizioni ordinarie: in effetti, così come abbiamo detto, si tenderebbe ad immaginare un'esplosione avvenuta in un ben preciso punto dello spazio tridimensionale che consideriamo comunemente per inquadrare ogni nostra esperienza avente a che fare con il concetto di 'luogo', ed in un ben preciso istante, che vediamo come una sorta di punto su una retta, a distinguere un 'prima' ed un 'dopo'. Un tale modello non sarebbe né omogeneo né isotropo, caratteristiche queste che abbiamo detto essere una sorta di principi-guida costanti per il pensiero fisico moderno: invece, ciascuno avrà il diritto di ritenersi 'centro' dell'esplosione; ciascuno dovrà osservare tutte le stelle intorno a sé allontanarsi da lui. La nostra intuizione non può farsi alcuna immagine di ciò che il modello del big-bang primordiale asserisce autenticamente, perché dovrebbe riferirsi ad uno spazio-tempo quadridimensionale che nasce e si espande senza che ci sia niente intorno in cui possiamo assistere con gli occhi della fantasia alla sua evoluzione. Poiché non possiamo prescindere da tale spazio circostante per 'vedere' con la mente qualsiasi oggetto, l'unica analogia che si può allora tentare è quella di immaginare una sfera nel nostro 'spazio ordinario' dell'intelletto, la quale all'inizio sia solo un punto (raggio uguale a zero!) e poi via via cresca in ragione del crescere del suo raggio. Le stelle e gli altri oggetti celesti sono fissati sulla superficie di tale sfera, e si allontanano l'uno dall'altro omogeneamente ed isotropicamente senza che ci sia sulla sfera nessun preciso punto dell'esplosione (il quale sarebbe semmai 'fuori', nello spazio 'ambiente'). Ogni stella vede allontanarsi tutte le altre, e questo movimento non è un 'reale' movimento degli oggetti, bensì dello spazio che crescendo trascina tutto con sé (sicché secondo alcuni non c'è alcuna contraddizione con i principi relativistici se si osservano velocità di fuga relative di molto superiori alla stessa velocità della luce). Naturalmente, per 'intuire' davvero la teoria del big-bang, bisognerebbe immaginare una siffatta superficie sferica a 4 dimensioni, anziché a 2, e per di più immersa in uno spazio almeno a 5 dimensioni, senza tenere conto del fatto che il 'tempo', che ci è necessario introdurre per rendere conto della descritta evoluzione dal punto di vista di un osservatore 'esterno', sarebbe soltanto una delle dimensioni di tale sfera, che non possiamo quindi immaginare in altro modo che quale una dimensione 'spaziale'.

Per ritornare al lavoro di Monti, dalla sua lettura si ricavano anche altre divertenti ed inaspettate, poiché non le si divulgano quasi mai!, informazioni storiche. La prima, che il cosiddetto "scopritore" dell'espansione dell'universo, Edwin Hubble, era in realtà molto restio a considerare corretta l'interpretazione che è oggi ufficiale del redshift come conseguenza di un effetto Doppler ("quando i dati sperimentali sono pesati in favore della teoria dell'espansione tanto pesantemente quanto può essere ragionevolmente ammesso, essi cadono ancora al di sotto delle aspettative", ed ancora "le discrepanze possono essere eliminate solo attraverso un'interpretazione forzosa dei dati") [Mdc] - il che fornisce un altro di quegli esempi, ai quali accenna Giuseppe Sermonti ("La luna nel bosco", Ed. Rusconi, 1985, p. 13), di una "prova", ritenuta "cruciale" per la validità di una teoria, che non viene invece ritenuta tale dal suo stesso scopritore! La seconda, che un premio Nobel come Walter Nernst, pur conoscendo perfettamente ormai le interpretazioni relativistiche (siamo nel 1937), propone per lo spostamento verso il rosso lo stesso tipo di spiegazione cui si è prima
accennato (assorbimento), giungendo anche così a prevedere l'esistenza della radiazione cosmica di fondo, quando ancora nessuno ne parlava, e dichiarando la teoria dell'espansione dell'universo "ben poco attendibile" [Mdc], di contro all'alternativa di un universo stazionario, "coerente e fisicamente semplice", e "non in contrasto con nessun tipo di esperienza". Quanto alla relatività poi, Nernst la ignora come argomentazione del tutto irrilevante, meritandosi così nel proprio necrologio, che scrisse Einstein in persona!, il seguente rimprovero: "Fino a che non entrò in gioco la sua debolezza egocentrica, egli mostrò un'obiettività raramente riscontrabile, un senso infallibile degli aspetti essenziali" (corsivo aggiunto)!

Nel video che segue: Roberto Monti legge pubblicamente un suo importante documento intitolato "The real Einstein". Questo studioso è prematuramente mancato il 29/11/1914. Insieme al più anziano chimico Renzo Boscoli, scomparso anni prima, è stato il principale teorico italiano della fusione fredda, molto prima del celebre esperimento di Fleischman e Pons del 1989. Attraverso i suoi studi sulle trasmutazioni subatomiche ha dimostrato la possibilità di intervenire e modificare la struttura degli atomi. Molte sue scoperte sono state raccontate e spiegate nel web (cfr. ad es.: frigolandia.eu) e in numerosi convegni scientifici internazionali. In parallelo con altri fisici eretici organizzò celebri convegni dal titolo “Galileo back in Italy”, sostenendo l’esistenza dell’etere, negata da Einstein. Una vasta raccolta scientifica di suoi testi e documenti sono ora all’attenzione della moglie Gerardina Cesarano con cui ha firmato alcune ricerche e del figlio Emilio Fabio, anch’egli fisico di valore.

 

 


Dette tutte queste cose a favore della concezione fluido-dinamica dello spazio, ci si può chiedere se di questo spazio fluido, a parte alcuni dei richiamati fisici del XIX Secolo, o i ridicolizzati sopravvissuti supporters dell'etere in epoca relativista, non ha mai parlato prima nessuno. Non c'è nessun pensatore al quale si possa fare riferimento per contrastare il monopolio della filosofia newtoniana, alla quale la stessa relatività appartiene di diritto per quanto abbiamo visto [Mdc] (59)?

Questo interrogativo ci conduce a discutere un altro momento importantissimo della storia della fisica, che viene di solito sottovalutato (ed appunto non per caso). In effetti, se l'"assurdità fisica" dello spazio vuoto è già teorizzata in tempi antichi prima da Anassagora e poi da Aristotele, essa trova piena dignità e sistemazione teorica in tempi moderni con il grande René Descartes, latinizzato in Cartesio.

Questi è etichettato dalla cultura comune che si acquista nelle aule scolastiche soltanto un filosofo, ricordato eventualmente anche per i suoi contributi alla matematica (le famose "coordinate cartesiane"), ma pochissimo per quelli alla fisica. Al contrario, i "Principia Philosophiae" (1644) di Cartesio sono un grande trattato di fisica teorica, una fisica di tipo qualitativo, e certo ancora agli esordi, che contiene ogni tanto anche qualche grosso errore (Cartesio pensava ad esempio ad una velocità della luce 'infinita'), ma una fisica che sembra essere comunque avviata sulla strada giusta, e ciò proprio ai primordi delle moderne indagini sulla natura, quando ancora di elettricità, magnetismo, fenomeni di interferenza ottica, etc., nessuno avrebbe mai potuto fantasticare. Come dice bene M. Todeschini (nella suo già citata opera fondamentale, p. 29): "La cosmogonia di Cartesio, prima di essere ripudiata, ebbe un momento di vero trionfo. E fu questo l'istante in cui l'uomo, per pura intuizione andò più vicino alla realtà dell'architettura dell'Universo!" (corsivo aggiunto).

Dal punto di vista della metodologia che ci sta a cuore non possiamo non aggiungere che ancora in Cartesio troviamo, e non certo per caso, enfatizzata l'importanza della spiegazione per analogie (e nel contempo analizzati i suoi possibili 'rischi'): "È vero che i paragoni che si usano di consueto nella Scuola, spiegando le cose intellettuali con le corporee, le sostanze con gli accidenti, o per lo meno una qualità con un'altra di un'altra specie, istruiscono pochissimo; ma poiché in quelli di cui mi servo, non paragono che dei movimenti con altri movimenti, o delle figure con altre figure, etc., [...] pretendo che esse siano il mezzo più proprio per spiegare la verità delle questioni
fisiche che la mente umana possa avere; fino al punto che, allorché si afferma qualcosa relativamente alla natura, che non può essere spiegato da alcun paragone di tal fatta, penso di sapere, per dimostrazione, che è falso" (da una lettera a Jean Morin del 1638, citata nella Introduzione al I volume delle "Opere Scientifiche" di Cartesio, Ed. UTET).

Le riflessioni di Cartesio si considerano oggi appartenenti alla protostoria della fisica e dell'epistemologia, e ad esse si ribatte con malcelato senso di superiorità che si sa ormai che esistono cose delle quali l'uomo non ha la minima esperienza, e per le quali il suo intelletto non è minimamente preparato, sicché non se ne può fare alcuna ragione o immagine. Se è invero lecito supporre che l'evoluzione della specie umana sulla Terra abbia prodotto un intelletto capace di cacciare, comunicare, e quant'altro necessario per la mera sopravvivenza dell'essere umano, non ci si può aspettare invece che esso si sia evoluto in modo tale da poter comprendere intimamente le modalità con cui avvengono i fenomeni del microcosmo o quelli del macrocosmo, che non cadono sotto la sua esperienza diretta; su questa base concettuale si giustifica quell'aspetto di apparente (vale a dire per noi esseri umani) "assurdità" della natura messa in rilievo da Feynman.

Cartesio invece, dal quale questa epistemologia darwinista era ben lontana, pone invece a centro e fondamento della sua analisi filosofica proprio l'uomo  [Mdc], e sulla sua capacità di arrivare alla verità per mezzo delle "percezioni chiare e distinte" di cui appare dotato. Strano destino quello di Cartesio di essere tanto frainteso anche a livello puramente filosofico. Il suo "dubbio sistematico" non è l'espressione di un esistenziale scetticismo di fondo (caro piuttosto a tanto pensiero moderno), quanto invece un modo di rifiutare ogni imposizione culturale [Mdc], ed arrivare liberamente alla verità (tra le quali quella di conoscere "la distinzione che è fra l'anima e il corpo", e che "noi possiamo conoscere più chiaramente la nostra anima che il nostro corpo" - dai detti "Principia", Proposizioni 8 e 11). Allo stesso modo, colui che è considerato da alcuni il "padre dell'ateismo moderno", sostiene "che si può dimostrare che vi è un Dio", e che anzi proprio attraverso di lui si può pervenire ad essere liberati dal dubbio se la nostra facoltà di conoscere sia ingannevole, "poiché avremmo motivo di credere che Dio fosse ingannatore, se ce l'avesse data tale da farci prendere il falso per il vero, quando ne usiamo bene" - Proposizioni 14 e 30).

Di queste cose si potrebbe ovviamente parlare a lungo, ma il lettore avrà ormai ben intuito quali sono i punti essenziali dei diversi contrasti, anche di natura generale filosofica, che stiamo qui cercando di descrivere, ed il ruolo che alcune delle 'mitologie' elaborate dal pensiero scientifico moderno giocano a favore o contro l'una impostazione o l'altra, e compreso quindi come si possa assistere a delle diatribe scientifiche (ancorché rare per l'imperante conformismo della comunità scientifica) che hanno tutto il calore delle dispute politiche, o sportive!

Vogliamo invece cominciare ad avviarci verso la conclusione, chiedendoci come mai la concezione fisica di Cartesio sia stata "ripudiata", addirittura al punto che essa è solitamente ignorata dalle diverse storie, vuoi della filosofia che della scienza, anche soltanto come momento di transito nella formulazione di altre teorie più vere e più giuste.

Il fatto è che in quel mezzo secolo che va dall'enunciazione cartesiana della teoria fluido-dinamica dell'universo al trionfo della meccanica delle misteriose azioni a distanza nell'universo vuoto di Newton si giocò una delle partite più importanti per tutto lo sviluppo futuro della fisica. La vittoria come si sa andò al filosofo e fisico inglese, ed ai suoi "Philosophiae Naturalis Principia Mathematica" (1687), che fin dal titolo fanno riferimento all'opera del grande avversario della concezione newtoniana. Newton si limitò infatti, rispetto al titolo che Cartesio aveva dato alla sua opera, soltanto a due specificazioni, contenute in quel "naturalis", che tende ad escludere il resto della filosofia dalle dispute di fisica, ed in quel "mathematica" (che è tra l'altro scritto con caratteri più grandi degli altri nel frontespizio della prima edizione!), che costituisce probabilmente la vera ragione del suo successo, in un'epoca che cominciava ormai ad avviarsi decisamente verso la quantizzazione e la materializzazione.

Come scrive bene il grande studioso di economia (ma non solo!) Geminello Alvi ("Le se duzioni economiche di Faust", Ed. Adelphi, Milano, 1989, p. 48): "Scienza newtoniana e capitalismo sono impensabili separati perché ambedue richiedono un pensiero privo di levità, densificatosi nella costruzione di artifici", ed il lettore avrà ormai compreso sempre più come all'aspro 'scontro' che stiamo descrivendo non fossero estranee, e come avrebbe potuto esserealtrimenti?, forti componenti ideologiche. "La storia ha dato ragione a Newton e relegato le costruzioni cartesiane fra le immaginazioni gratuite e i ricordi da museo", ed anche noi qui non possiamo fare altro che constatare che la vittoria arrise al modo di fare scienza comune ancora oggi, dal momento che "Descartes, con i suoi vortici, i suoi atomi uncinati, ecc. spiegava tutto e non calcolava niente; Newton con la legge di gravitazione [...] calcolava tutto e non spiegava niente" (60), ed informare che tra gli artefici di questo successo, e della messa in ridicolo delle ipotesi cartesiane, deve annoverarsi addirittura Voltaire, qui nelle vesti davvero per lui inconsuete di 'scienziato' (61). Ci limitiamo a raccomandare ad esempio a chi volesse saperne di più "The Newtonians and the English Revolution 1689-1720", di Margaret C. Jacob (Cornell University 1976; Gordon and Breach Science Publ., New York, 1990), nel quale vengono discusse anche le motivazioni ideologiche alle radici della controversia, e si riconosce qualche ruolo nelle origini della scienza moderna alle cosiddette "società segrete" (o "early Masonic lodge[s]", come sono chiamate in questo testo, p. 207) (62).

Per riassumere, la vera contrapposizione non è quindi quella tra fisica relativistica e fisica newtoniana, bensì tra fisica newtoniana e fisica cartesiana [Mdc], e ciò che accadde semplicemente ai tempi di Einstein (e se si vuole anche prima) è che nessuno ebbe l'unico autentico coraggio che sarebbe consistito nel proporre di tornare indietro, e ripensare alla condanna di Cartesio ed al trionfo di Newton. L'etere era stato rimosso dai newtoniani che pretendevano avrebbe ostacolato il libero moto degli astri nei cieli, e che fosse in contrasto con quanto si sapeva al tempo di leggi astronomiche, e tale rimozione continuò ad essere operante in Einstein e nei suoi seguaci, nonostante il breve momento di ritorno delle concezioni cartesiane nell'elettromagnetismo del XIX Secolo. "Non ci sarà assolutamente luogo per i movimenti delle comete, se quella materia immaginaria non viene completamente rimossa dai cieli", così troviamo scritto nella Prefazione alla seconda edizione (1713) dei "Principia" newtoniani, vergata da un partigiano dello spazio vuoto, Roger Cotes, e le cose sono rimaste oggi allo stesso punto nel quale erano allora. L'affermazione della TRR ha storicamente significato il progressivo assottigliarsi delle schiere di coloro i quali avevano ricominciato a 'credere' nell'esistenza di un mezzo fisico, reale, nel quale si propagassero tutte le varie 'vibrazioni', e che fosse il supporto di ogni fenomeno fisico (63), favorendo anche il massiccio tentativo di revisione in chiave filosofica delle teorie che alle "nozioni preconcette" di spazio e di tempo attribuivano invece ben altro fondamento.

Non si può non parlare poi verso la fine di questo lungo e abbastanza impegnativo capitolo di un argomento che è divenuto quasi d'obbligo nelle discussioni sulla teoria della relatività, e sulla sua corrispondenza ad una 'verità' di tipo sperimentale, senza dimenticare però quanto detto precedentemente in generale sulle relazioni tra teoria ed esperimento. Infatti, e presumibilmente allo scopo di attenuare un certo fastidioso, e politicamente poco opportuno, dogmatismo che risulterebbe da una presentazione puramente assiomatica della teoria - impostazione comunque ancora oggi assai cara ai matematici - è d'abitudine accennare almeno ad una famosa esperienza al di fuori dal campo della fisica del microcosmo, che ebbe un ruolo storico particolare nell'affermazione della TRR, ed è ancora oggi usata appunto a fini persuasivi di tipo didattico. Si tratta del cosiddetto esperimento di Michelson e Morley, la cui importanza come motivazione e punto d'appoggio sperimentale della TRR è andata sempre più crescendo, attenuandosi nel contempo la discussione critica sui fondamenti della teoria. Questo esperimento ha tra l'altro l'effetto psicologico di riportare direttamente ai miti fondatori della scienza moderna, al celebre commento galileiano "Eppur si muove", ed è quindi capace di suscitare i più larghi consensi. Si tratta sostanzialmente della seguente idea: se ci fosse davvero un'etere, e visto che la Terra gira intorno al Sole - e chi può dubitarne? - la Terra si muove evidentemente attraverso questa sostanza (quella cioè che avrebbe impedito i moti secondo i newtoniani). Così, senza fare alcuna fatica, i nostri laboratori terrestri si troverebbero automaticamente nella condizione di un osservatore mobile nell'etere, e se questo fosse il mezzo in cui la luce si propaga, ecco che dovrebbe essere possibile in linea di principio, con osservazioni ottiche precise, accorgersi di tale circostanza; ovvero, il movimento della Terra rispetto all'etere potrebbe essere constatato allo stesso modo che uno sperimentatore in movimento rispetto all'atmosfera potrebbe accorgersi di questo suo stato attraverso osservazioni relative alla propagazione del suono nelle diverse direzioni intorno a lui. Quando è l'aria a muoversi rispetto a noi, o noi rispetto a lei, si parla nel linguaggio comune di "vento", e nel caso dell'etere si parlò appunto di un "vento d'etere". Einstein riferì brevemente, e genericamente, tra i presupposti sperimentali della sua teoria, a non meglio precisati "falliti tentativi di constatare un moto della Terra relativamente al mezzo luminoso", ma qualche anno più tardi fu più preciso, quando ebbe a scrivere, assieme a Leopold Infeld, che: "Il risultato del celebre esperimento di Michelson e Morley fu un 'verdetto di morte' per la teoria di un oceano d'etere immobile attraverso il quale tutta la terra si muoverebbe" (64). Tanto per fare qualche ulteriore esempio, il nostro G. Castelfranchi ("Fisica moderna", Ed. Hoepli, Milano, 1931, p. 182) asserisce che: "l'esperimento di Michelson-Morley è un solido appoggio al postulato einsteiniano sulla costanza della velocità della luce", mentre il diffuso "Fisica Moderna", di R. Gautreau e W. Savin (Ed. Etas, 1982, p. 7) asserisce ormai più sbrigativamente che "Se l'etere esistesse, allora un osservatore sulla terra in movimento attraverso l'etere dovrebbe notare un 'vento d'etere' [...] Il risultato dell'esperienza fu che nessun moto attraverso l'etere veniva rilevato" (corsivo nel testo), passando così direttamente e disinvoltamente dall'assenza del vento d'etere rispetto alla Terra alla inesistenza stessa dell'etere. In tal modo, su una base sperimentale che sembra abbastanza facile da discutersi (65), si pretende evidentemente di rendere più accettabili, e necessarie, le ben note e sgradevoli implicazioni "filosofiche" della TRR per quanto riguarda i concetti di spazio, tempo e causalità. Ma ciò che queste divulgazioni di solito ignorano è: ammesso appunto che la Terra giri intorno al Sole, questo significa forse che essa si muove anche rispetto allo spazio fluido che la circonda? Non può pensarsi, come appunto riteneva Cartesio, che sia tutto lo spazio pieno a ruotare intorno al Sole trascinando con sé la Terra in questo suo movimento? L'etere eventualmente confutato da Michelson e Morley è soltanto un etere inerte, stagnante, ben diverso dall'etere attivo e dinamico che stiamo qui cercando di immaginare [Mdc]!

La questione si fa allora più difficile: la circostanza che Michelson e Morley non trovarono un vento d'etere (in realtà ne trovarono poco, molto meno di quello che uno avrebbe potuto aspettarsi da una velocità quale quella della Terra intorno al Sole, ma in questi pur importantissimi dettagli non possiamo addentrarci) non confuta affatto tutte le possibili teorie dell'etere, ma eventualmente soltanto l'idea che la Terra, e presumibilmente anche tutti gli altri pianeti, si muova rispetto ad esso. Testi più seri esaminano invero anche questa
possibilità teorica, cercando di far vedere come siffatte teorie dell'etere possano essere anch'esse rifiutate, facendo ricorso allora ad altre considerazioni più sottili, ma di solito anche incerte se non addirittura proprio errate. Si battezza infatti (con una punta di vizioso 'relativismo') l'alternativa che qui abbiamo descritto con l'appellativo di "teoria dell'etere trascinato", come se la Terra fosse lei a trascinare l'etere con sé e non viceversa!, e si va a vedere se ad esempio masse d'acqua messe in movimento forzato trascinano o no l'etere con sé, trovando naturalmente di no (66). Possiamo dedicare a tali riflessioni soltanto questo breve cenno, ma sembra di poter onestamente ribadire ai lettori che lo stato degli attuali fondamenti della fisica è molto insoddisfacente [Mdc], forse anche perché i fisici, a differenza dei matematici che eseguirono un'operazione di questo genere agli inizi del presente Secolo, non hanno mai finora avuto il tempo necessario per soffermarsi a meditare in modo sereno ed approfondito sui problemi fondazionali. Presa dalla crescente importanza delle sue applicazioni tecniche, la fisica ha sempre fatto una corsa in avanti senza pensare troppo ai suoi fondamenti concettuali (per dirla in parole povere, oggi chi si occupa di certe questioni non fa carriera [Mdc]), lasciando dietro di sé una confusione teoretica cui non sarà facile porre facilmente rimedio alla generazione che prima o poi sarà inevitabilmente chiamata a rimettere ordine.

Comunque sia, come abbiamo già detto, l'affermazione della TRR procedette di pari passo con l'eliminazione del concetto di etere e degli eteristi, e diventa allora interessante informare che nella coscienza dello stesso creatore della relatività (che pure aveva dichiarato in una prima fase l'etere soltanto "superfluo") deve essere rimasto qualche dubbio, e la sensazione che l'ipotesi di un "mezzo" fosse stata, anche per causa sua, troppo frettolosamente accantonata. Infatti, dedicò ad essa numerose attenzioni fino alla sua morte, anche se naturalmente sempre in modo "non classico", sì da non incorrere in contraddizioni con il suo principio di relatività, ma ammettendo che senza un adeguato concetto di etere non si può fare alcun tipo di fisica [Mdc] (67). Resterà il lettore sorpreso nell'apprendere che da tale tardivo pentimento sembra essere toccato anche Newton, il fiero avversario della teoria cartesiana dei vortici, come appare in una delle sue ultime opere scientifiche, "Opticks" (1704)?

Per tentare una sintesi finale, possiamo dire che, contrariamente a ciò che oggi è comunemente ritenuto ed insegnato, l'ipotesi dell'etere è così naturale, suggestiva, esplicativa, e soprattutto non confutata e non facilmente confutabile, che sarebbe imprudente profetizzare che essa sia definitivamente tramontata, e che, nonostante l'apparente sicurezza con la quale ci si riferisce oggi alla "validità" della TRR e teorie derivate, non tutto è ancora chiaro e definitivo sull'argomento; al contrario, il presente autore ritiene che una revisione, o meglio una "rivoluzione" (e nel senso originale del termine, di un'inversione di rotta di 180 gradi), sia, oltre che possibile, anche necessaria. Naturalmente, bisogna ammettere che ci sono un sacco di problemi irrisolti sull'eventuale struttura di questa elusiva sostanza: come può
essere fatto l'etere, si deve assimilare a un 'continuo', o ad una sostanza discontinua, di tipo granulare? L'esistenza di sue vibrazioni così veloci lo farebbero immaginare molto rigido, ma dovrebbe anche essere molto tenue, per lo scarso attrito che oppone al movimento dei corpi in esso. Ancora, l'analogia tra onde sonore ed onde luminose è solo parziale, dal momento che le prime sono longitudinali (ovvero, come abbiamo già visto nel capitolo precedente, le molecole d'aria oscillano nella stessa direzione dell'onda), mentre le seconde trasversali, ovvero il preteso movimento dovrebbe essere, per motivi di origine sperimentale che non possono dirsi in due parole, perpendicolare alla direzione di propagazione, così come avviene nel caso, che ciascuno ha ben presente, delle normali onde su uno specchio d'acqua: anche in questo caso non si ha infatti alcun reale spostamento di materia, le molecole d'acqua cominciano semplicemente ad oscillare in su e in giù, il movimento delle une si propaga per contatto alle altre, e noi vediamo l'onda che va. Ed allora si può ragionevolmente pensare, se l'etere esistesse davvero, non dovrebbe anche esserci un'evidenza, finora mancante (68), di qualche tipo d'onda longitudinale simile alle onde sonore?

Tante questioni dunque, che la relatività, e con lei l'intera fisica, risolve di botto e senza alcuna fatica semplicemente ignorandole, ma se nessuno comincia ad affrontarle per tentare di risolverle la loro soluzione continuerà purtroppo a tardare, e bisognerà continuare a riconoscere che non esiste al momento una teoria dell'etere bella e pronta da contrapporre alle altre, come pretenderebbero coloro che rifiutano con questa motivazione la pubblicazione di contributi in questa direzione vietata.

Congedo - Abbiamo parlato poc'anzi di conclusione delle considerazioni espresse in questo capitolo, ma si può davvero dirlo concluso senza aver neppure accennato ad un'altra delle possibili alternative alla TRR che qui erano oggetto di discussione? Può non dirsi che termini come 'verità', 'conoscenza', etc., sono diventati ormai quasi offensivi per le orecchie di molti fisici, e che la loro ricerca è un obiettivo al quale gran parte di essi non aspira neanche più?

L'altra alternativa di cui stiamo parlando è, per dirla in parole povere, quella di guardare al sodo, di trascurare l'indagine di ipotesi 'metafisiche', che vengono ritenute inessenziali, quando non addirittura dannose, per lo sviluppo della scienza. Si esprimono in questo modo un pessimismo ed uno scetticismo di fondo sulle possibilità dell'essere umano di essere in grado di comprendere qualcuna delle intime proprietà dell'universo (si ricordino le considerazioni di R. P. Feynman al riguardo!), ed a tale situazione sembrano riferirsi anche le seguenti parole di Ettore Majorana, che troviamo nel già citato libro di V. Tonini (p. 59), parole particolarmente interessanti anche per la tesi che stiamo cercando qui di sostenere, sul ruolo che l'equazione fondamentale dell'equivalenza massa-energia ha giocato e gioca a favore della teoria della relatività: "[...] si hanno, in via Panisperna, idee molto concrete in quanto, come dice Fermi, non è il caso che due osservatori si mettano a litigare per risultati strani e paradossali come quelli della contrazione di un regolo in movimento a velocità prossima a quella della luce, mentre ben altra è l'importanza della scoperta che lega la massa di un corpo alla sua energia: E=mc²".

Se un simile atteggiamento può considerarsi positivo per il progresso della tecnica, fino a che punto invece potrà soddisfare l'essere umano, la sua innata curiosità, se non l'unico motore almeno uno dei motori di tutta l'impresa scientifica? Nasce al contrario una "epistemologia della rassegnazione verso i limiti, reali o supposti, della conoscenza scientifica" (69), che conduce a ciniche 'definizioni' quali "la fisica è semplicemente l'arte di ottenere dei buoni finanziamenti" - che si sentono qualche volta nell'ambiente dei fisici e che trascura la discussione dei problemi fondazionali anche nel momento della didattica, limitandosi a dare stancamente ragione ai vincitori, dimenticandone le vicissitudini e i dubbi. Si trascura così che il fine di un'autentica istruzione dovrebbe essere quello di saper alla fine distinguere tra chi ha vinto e chi aveva o potrebbe avere ancora ragione, e che è comunque sempre bene ripercorrere il cammino già fatto, poiché, anche se ci si dovesse alla fine convincere che ciò che è stato è bene sia stato così come è stato e non altrimenti, questa indagine critica retrospettiva resta sempre comunque l'unico modo per comprendere davvero a fondo le questioni, e farle proprie senza limitarsi a doverle ripetere a pappagallo senza avere ben capito.

Come ci avverte il grande matematico Federigo Enriques ("Le matematiche nella storia e nella cultura", Ed. Zanichelli, Bologna, 1938, p. 153): "Per i valori dello spirito come per quelli materiali dell'economia, sussiste una legge di degradazione: non si può goderne pacificamente il possesso ereditario, se non si rinnovino ricreandoli nel proprio sforzo di intenderli e di superarli".

 

Note del Capitolo III

 

(42) Ed anche a Newton in effetti Einstein dedicò parole appassionate: "Or sono duecento anni, Newton si spegneva. È nostro dovere ricordare la memoria di quello spirito luminoso. Come nessuno prima e dopo di lui, egli ha determinato il
corso del pensiero e degli studi in Occidente [...] egli merita la nostra più alta venerazione" (da un articolo pubblicato in "Die Naturwissenchaften", Vol. XV, 1927 - corsivo aggiunto).
(43) Citazione tratta da V. Ronchi, "Storia della Luce", Ed. Laterza, 1953.

(44) Da J. C. Maxwell, "Opere", Ed. UTET, p. 781.
(45) Ma in realtà a torto, come è provato nel già citato "Symmetries and asymmetries...", vedi il capitolo precedente.

(46) Senza che ci sia ovviamente bisogno di evidenziare quale possa essere l'effetto psicologico su studenti, e professori!, di simili parole provenienti da una tale autorità - se non ci siamo riusciti 'noi' non ci riuscirete certo voi - si potrebbe invece sottolineare che resta la sensazione che tali misteri ed assurdità della natura siano tali soltanto per chi rifiuta la concezione fluido-dinamica dell'universo, come presto vedremo, ed informare che, anche al di fuori di questa, fisici come il Franco Selleri che citeremo ancora al termine del presente capitolo sembrano essere viceversa riusciti a sconfiggere la pretesa impossibilità (circostanza questa della quale però nessuno sembra voler naturalmente prendere atto [Mdc]).
(47) Citazione da "Il taccuino incompiuto - Vita segreta di Ettore Majorana", di Valerio Tonini, Armando Ed., Roma, 1984, p. 67. Si avverte che questo libro è considerato dagli 'esperti' un falso, ma è questa interessata opinione ad essere falsa, come il presente autore avrà modo di argomentare nel già annunciato libro dedicato alla scomparsa del giovane fisico italiano.

(48) Alla critica di stampo moderno sul ruolo fondante dell'intuizione è stato dedicato un apposito convegno, svoltosi nel 1989 presso l'Università di Perugia: "I fondamenti della matematica e della fisica nel XX Secolo: la rinuncia all'intuizione", Proceedings a cura di U. Bartocci e James Paul Wesley, Benjamin Wesley Publ., 1990.

(49) Citazione da Rudolph Resnick, "Introduzione alla Relatività Ristretta", Ed. Ambrosiana, Milano, 1969, p. 37.
(50) A proposito del ruolo di Göttingen nella storia della relatività vedi l'interessantissimo, e ben orientato, testo di Lewis Pyenson, "The Young Einstein - The Advent of Relativity", A. Hilger Ltd, Bristol and Boston, 1985, nel quale, notando il ruolo fondamentale dei matematici a favore dell'affermazione della teoria di Einstein si parla esplicitamente di "Physics in the shadow of Mathematics" (p. 101). È in questo libro che si trova raffigurato un disegno inquietante (per la prospettiva storica che qui si tenta) conservato presso la Niels Bohr Library, American Institute of Physics, New York, eseguito in occasione del X Anniversario dell'Associazione di Göttingen per la Matematica Applicata e la Fisica, nel quale è rappresentata una fila di professori universitari che si incontra con una analoga fila di industriali (o banchieri): ciascuno di questi reca in mano un paio di sacchetti di denaro, uno dei quali passa nelle mani dei professori, il tutto sotto la supervisione di un altro dei padri fondatori di Göttingen, Felix Klein, qui raffigurato come un Sole. Per quanto riguarda invece la "rivoluzione" matematica cui si è fatto cenno si vedano ad esempio del presente autore: "La svolta formalista nella fisica moderna", Quaderni Progetto Strategico del CNR Tecnologie e Innovazioni Didattiche, Epistemologia della Matematica, a cura di Francesco Speranza, N. 10, 1992; "Riflessioni sui fondamenti della matematica ed oltre", Synthesis, 4, Di Renzo Ed., Roma, 1994. Quest'ultimo articolo era stato proposto per la pubblicazione al Bollettino dell'Unione Matematica Italiana, visto che le riflessioni in esso contenute erano particolarmente rivolte ai docenti di matematica di ogni ordine e grado, ma i dirigenti della detta rivista lo hanno laconicamente rifiutato. Nella versione successivamente apparsa in "Synthesis" si fa riferimento a questo rifiuto con le seguenti parole: "Questo episodio, ultimo tra tanti dei quali l'autore è al corrente, conferma purtroppo l'impressione che troppi membri della comunità scientifica si siano ormai trasformati in "dotti custodi dell'Ordine", cercando quindi di sfavorire la comunicazione delle informazioni e delle opinioni che possano modificare gli stati di equilibrio culturale che li hanno espressi. Spiega perfettamente il fenomeno l'osservazione di Benedetto Croce secondo la quale "La maggior parte dei professori hanno definitivamente corredato il loro cervello come una casa nella quale si conti di passare comodamente tutto il resto della vita; da ogni minimo accenno di dubbio vi diventano nemici velenosissimi, presi da una folle paura di dover ripensare il già pensato e doversi mettere al lavoro. Per salvare dalla morte le loro idee preferiscono consacrarsi, essi, alla morte dell'intelletto".

(51) Sempre a proposito del ruolo dell'università di Göttingen sotto questo particolare aspetto, si vedano ad esempio gli interessanti lavori di David Rowe, "'Jewish Mathematics' at Göttingen in the Era of Felix Klein" (Isis, 77, 1986, pp. 422-449), "Klein, Hilbert and the Göttingen Mathematical Tradition" (Osiris, 5, 1989, pp. 186-213).

(52) Tra i lavori del Mancini citiamo soprattutto "Energia universale e reazione della materia", Ed. L'Arco, Firenze, 1948.
(53) Si trova così la spiegazione del perché la prima teoria di Einstein sia chiamata ristretta, dacché appunto restringeva il suo ambito di applicazione ai soli fenomeni ele tromagnetici prescindendo da quelli gravitazionali. Circostanza invero strana, che il lavoro di Einstein del 1905 sia stato accettato per la pubblicazione senza tante storie, nonostante lasciasse fuori dalla sua proposta di revisione dei fondamenti della fisica proprio la legge di gravitazione universale di Newton, che era stata una delle glorie della nuova scienza, ed aveva anche avuto il merito piuttosto recente di poter prevedere l'esistenza di nuovi pianeti del sistema solare fino allora sconosciuti perché troppo lontani. Il fatto è che l'espressione della legge di Newton la rende ipso facto non relativistica (laddove si utilizza in essa una 'distanza' tra due corpi che non ha più alcun senso in relatività, secondo la quale un tale parametro può essere solo relativo al sistema di riferimento in cui viene misurato). A qualunque altro autore sarebbe stato chiesto di occuparsi di tale non trascurabile dettaglio, prima di pensare ad elevare a principi della fisica le proprie zoppicanti considerazioni sulla 'natura' dello spazio vuoto, e ad esso in effetti Einstein lavorò per il successivo decennio. Anche in questa occasione comunque, appare chiaro che Einstein conobbe una sorte ben diversa da quella riservata oggi ai suoi critici, ai quali si richiede di risolvere tutti i problemi ed in una sola volta quando propongono di modificare un particolare del quadro.

(54) Osserviamo esplicitamente che nella TRG quello che si incurverebbe è lo spazio-tempo vuoto, ovvero il "nulla", circostanza questa sempre fonte di accesa polemica da parte dei critici di Einstein. Tra questi il fisico Paul Ehrenfest, contemporaneo di Einstein, che si esprime con le seguenti parole: "Einstein, il mio stomaco disturbato odia la tua teoria -quasi odia anche te! Come posso educare i miei studenti? E cosa posso rispondere ai filosofi?".
(55) Ed anche di alcune di queste caratteristiche fisiche potrebbe essere data un'immagine intuitiva [Mdc] attraverso la teoria dell'etere, come dimostra il già citato G. Cannata in un suo "Mechanical Image of Electromagnetism", apparso sui Proceedings del menzionato convegno sulla rinuncia all'intuizione.

(56) "The Underlying Brownian Motion of Nonrelativistic Quantum Mechanics", Foundations of Physics, Vol. 11, N. 9/10, 1981; "Stochastic Interpretations of Nonrelativistic Quantum Theory", Int. J. of Th. Physics, Vol. 23, N. 7, 1984.
(57) Roberto Monti lavora a Bologna, presso l'Istituto TE.S.R.E. del C.N.R.. Fino a qualche tempo fa le sue argomentazioni erano apparse per lo più su scritti a circolazione assai limitata, a causa delle difficoltà che l'ambiente accademico "ufficiale" ha frapposto anche soltanto ad una divulgazione delle sue idee, opponendo loro quella che non può non essere considerata come una vera e propria forma di censura scientifica preventiva. Sulla rivista Physics Essays è comunque recentemente apparsa una sua memoria, già citata nel capitolo 1, nella quale si fornisce ad esempio un'altra ancora possibile spiegazione per il risultato dell'esperimento di Michelson-Morley (vedi alla fine del presente capitolo), compatibile addirittura con l'ipotesi di una velocità assoluta della Terra ben diversa da zero. Lo scritto citato nel testo è stato invece pubblicato dalle Ed. Andromeda, Bologna, autentico centro di informazione alternativa in tutti i campi la cui anima è Paolo Brunetti (ma esso è reperibile anche in versione inglese, nei Proceedings of the VIII National Congress of History of Physics, Milano, 1988, con il titolo "Albert Einstein and Walter Nernst: Comparative Cosmology").
(58) Naturalmente non è neanche detto che questa debba essere l'unica soluzione dell'enigma costituito dal red-shift: l'astrofisico Halton Arp propone addirittura che la materia non abbia sempre le stesse caratteristiche in ogni parte dell'universo, in funzione diciamo della sua 'età', sicché potrebbe capitare anche che due ammassi molto vicini nello spazio emettano raggi luminosi con red-shift molto diversi tra loro (vedi ad esempio "La contesa sulle distanze cosmiche e le quasar", Ed. Jaca Book, Milano, 1989 - va da sé, non dovrebbe potersi neanche escludere che le variazioni di frequenza di cui stiamo parlando possano essere in realtà un effetto combinato di tutte e tre le cause qui ricordate, assorbimento, età della materia, effetto Doppler! Arp è un altro dei tanti 'perseguitati' dalla comunità scientifica sotto l'accusa di 'eterodossia' che abbiamo avuto modo di citare in questo libro, e testimonia che: "Vi sono stati recentemente tentativi da parte di alcune persone del settore di fare sparire dei nuovi risultati che erano in disaccordo con il loro particolare punto di vista. Tempo di telescopio necessario per consolidare questo nuovo tipo di scoperte è stato rifiutato. Resoconti di ricerche inviati a riviste sono stati rifiutati o modificati da persone impegnate nella conservazione dello statu quo" (p. 13). A proposito della comune interpretazione del red-shift come un effetto Doppler ci piace ricordare anche la preveggenza del già menzionato H. Dingle, il quale avverte che: "benché sia l'universale convinzione, è una speculazione delle più azzardate" [Mdc] (Luogo citato, p. 217).
(59) Per quanto riguarda 'storie' della teoria dell'etere vedi ad esempio O. Gingerich, "The aethereal Sky: Man's Search for a plenum Universe", in "The Great Ideas Today", Enc. Brit. Inc., 1979 (questo autore prevede anche un possibile prossimo 'ritorno' della teoria dell'etere!), e E. T. Whittaker, "A History of the Theories of Aether and Electricity", due volumi, Dublin University Press, 1910.
(60) Le due citazioni provengono da "Stabilità strutturale e morfogenesi", del già citato R. Thom, Ed. Einaudi, Torino, 1980, p. 8.

(61) Voltaire mostra tutto il suo entusiasmo per le teorie newtoniane, e la sua avversione per i "vortici" di Cartesio, in alcune delle sue famose "Lettere Inglesi", Ed. Boringhieri, Torino, 1958. In una di queste (p. 76) informa che "Un francese che arriva a Londra trova tutte le cose veramente cambiate, in filosofia come in tutto il resto. Ha lasciato il mondo pieno; lo trova vuoto", e si riferisce al "famoso
Newton" come al "distruttore del sistema cartesiano".

(62) Per maggiori informazioni su tale affascinante questione si rinvia al libro del presente autore "America: una rotta templare...", già citato.
(63) Che la teoria della relatività speciale abbia avuto come conseguenza più che la scomparsa, addirittura la messa in ridicolo della teoria dell'etere è fuor di dubbio: vedi ad esempio i già citati ricordi di G. Gamow sulle idee dei giovani fisici del tempo, e sul contrasto che ne originò con quelli della generazione precedente, i quali primi vedevano con piacere il fatto che la fisica si sbarazzasse dell'etere come si era già sbarazzata di altri ipotetici "mezzi" quali il flogisto, etc..
(64) "L'evoluzione della fisica", Ed. Boringhieri, Torino, 1965, p.183.

(65) Almeno in apparenza, come mostrano M. Mamone Capria e F. Pambianco, "On the Michelson-Morley Experiment", Foundations of Physics, 24, 1994, indicando una serie di incredibili errori teorici ma anche numerici nel trattamento della questione (per accennare a quello più grave, si considerano valide nel riferimento supposto mobile le leggi dell'ottica che a rigore dovrebbero valere soltanto in un
riferimento solidale con l'etere, e si costringe la luce a percorrere 'strane' traiettorie).
(66) Ma vedi anche quanto riferito da Giancarlo Cavalleri ed altri in "Esperimenti di ottica classica ed etere" ("Scientia", 111, 1976) a proposito di un'altra tradizionale obiezione di natura astronomica contro la teoria dell'etere "trascinato" (il fatto che non potrebbe darsi il fenomeno dell'aberrazione), la quale obiezione risulta invece, come troppo spesso accade in questo tipo di considerazioni, infondata.
(67) Sul problema dei rapporti di Einstein con la teoria dell'etere, di solito poco reclamizzati dai relativisti più realisti del Re, vedi ad esempio gli approfonditi lavori di Ludwik Kostro, tra i quali: "Outline of the history of Einstein's relativistic ether conception", in Proc. of the II Int. Conf. on the History of General Relativity, Luminy, 1988; "Einstein's new conception of the ether", in Proc. of the Int. Conf. on Physical Intepretations of Relativity Theory, London, 1988; "Einstein and the ether", Electronics and Wireless World, 94, N. 1625, 1988.
(68) Anche se questo forse non è del tutto vero, a giudicare almeno da alcuni recenti risultati sulle radiazioni da sincrotrone, che bisognerà comunque capire per bene.
(69) Per citare una quanto mai azzeccata espressione di Franco Selleri, "La causalità impossibile - L'interpretazione realistica della fisica dei quanti", Ed. Jaca Book, Milano, 1987, p. 13.

 

Capitolo IV

L'equivalenza massa-energia

 

 

Dopo questi due lunghi Capitoli di carattere teoretico ritorniamo adesso finalmente a discutere l'oggetto principale di questo libro, vale a dire il secondo dei lavori relativistici di Einstein del 1905, al quale faremo riferimento con la lettera B. Esso era intitolato "Ist die Trägheit eines Körpers von seinem Energiegehalt abhängig?", ovvero "L'inerzia di un corpo è dipendente dal suo contenuto di energia?", e pervenne per la pubblicazione alla stessa rivista in cui comparve A appena tre mesi dopo, nel Settembre del 1905 (ed apparve nel
successivo volume, il N. 18).

A questo secondo lavoro è stata dedicata una assai minore attenzione critica rispetto a quella viceversa offerta ad A, circostanza questa tanto più sorprendente quando si ponga attenzione al fatto che in esso è contenuta quella che il già citato S. Goldberg - per non basarci soltanto sull'opinione comune, e menzionare uno degli storici più eminenti della teoria della relatività - riconosce come la più celebre di tutte le equazioni della fisica. Con essa si esprime oggi, come abbiamo già detto, la completa, totale trasformabilità della massa in energia, e viceversa. Per esprimerci in parole semplici, ed a prescindere dall'aspetto quantitativo, l'equazione oggetto della nostra attenzione sta a significare qualitativamente che è possibile ricavare da qualsiasi corpo una energia, in una qualsiasi delle sue possibili forme, pari alla enorme quantità indicata nella formula di Einstein; e, inversamente, che un'energia può 'scomparire' per dar luogo al suo posto a nuova materia. Sono celebri a questo riguardo le moderne esperienze della fisica delle particelle, nella quale tali 'trasmutazioni' avvengono continuamente, quando ad esempio luce si trasforma in elettroni (che viceversa la materia possa emettere della luce, se sollecitata in certe condizioni, è esperienza tra le più comuni per ciascuno di noi). è ovvio allora che l'equazione in oggetto ha anche il ruolo di fornire sostanzialmente una concezione unitaria del peraltro complesso concetto di energia, tenuto conto delle molteplici forme con le quali essa si può manifestare.

Ritornando al confronto tra i due lavori A e B, e tanto per fare almeno un esempio significativo per illustrare la ben differente attenzione critica ed epistemologica posta nei confronti dei due, A. I. Miller, nel suo profondo e documentato "Albert Einstein's Special Theory of Relativity" (Addison-Wesley, Reading, Mass., 1981), mentre dedica pagine e pagine al primo dei due menzionati lavori, ne concede soltanto un paio al secondo.

La ragione di una tale relativo 'silenzio' può essere riconducibile a varie circostanze (senza peraltro trascurare la più banale, e cioè la mole di B rispetto ad A, ed il fatto che è in A che sono espressi i fondamenti della nuova concezione dello spazio e del tempo nella fisica).

Una prima è che la breve nota B del Settembre 1905 è stata ritenuta dalla maggior parte dei commentatori come una sorta di naturale corollario, un semplice 'completamento logico' del primo e più massiccio lavoro.

Una seconda è che il modo con il quale Einstein pervenne alla formulazione della equazione fondamentale contenuta in B non è immune da diverse critiche, tanto che in effetti più soddisfacenti deduzioni della stessa equazione sono state successivamente elaborate da diversi autori, tra i quali lo stesso Einstein, ed addirittura in qualche caso senza fare alcun ricorso alla teoria della relatività!

Invero, nonostante quello che comunemente si ritiene, in conseguenza delle informazioni che vengono interessatamente divulgate presso 'il grande pubblico', non c'è alcun bisogno di relatività per dedurre la famosa equazione di cui ci stiamo occupando: ciò è ormai chiaro non soltanto in virtù di quello che diremo in questo libro, ma grazie perfino, come abbiamo preannunciato, ad un lavoro dello stesso Einstein, il quale, molti anni più tardi, scrisse una nuova deduzione della E = mc² su basi puramente classiche (70) (vedi: "Elementary derivation of the equivalence of mass and energy", "Bull. Am. Math. Soc.", 41, 1935, pp. 223-230)! Come si può spiegare un tale ritorno sulle proprie origini scientifiche a 30 anni di distanza? Forse anche perché almeno quella 'sua' equazione si salvasse da un eventuale crollo della teoria della relatività, dovuto a qualche nuovo risultato sperimentale (circostanza questa che Einstein sembrò più di una volta sinceramente temere, senza tenere conto della spregiudicatezza teoretica e sperimentale degli altri suoi colleghi che si erano legati allo stesso carro relativistico)? O, forse, per una sorta di tardivo "rimorso", simile a quello che abbiamo visto nei confronti della teoria dell'etere, anche se, dovremmo subito aggiungere alla luce delle considerazioni esposte in questo libro, più nei confronti della verità scientifica che non delle persone?

Comunque sia, proprio le dette due motivazioni avrebbero dovuto al contrario stimolare l'attenzione dei critici nei confronti anche del secondo 'piccolo' lavoro di Einstein, tre paginette in tutto. Ci si può chiedere infatti, a proposito della prima, come mai, se si tratta solo di una conseguenza logica delle argomentazioni contenute in A, essa non ha trovato posto nel primo articolo? E se invece, come ci sembra sia piuttosto il caso di ritenere, questa relazione tra massa ed energia è venuta in mente al suo autore soltanto dopo aver completato il primo lavoro - "almost an afterthought", come intuisce correttamente Goldberg (p. 155) - quale può essere stato lo spunto che ha fornito ad Einstein l'occasione per il secondo scritto?

Ciò premesso, ed in ordine adesso invece alla seconda motivazione, quale il motivo della "fretta" con la quale è stato compilato B, che in effetti si presenta come un articolo che, da vari punti di vista, non è del tutto all'altezza del primo, tanto da essere stato considerato bisognoso di immediate successive revisioni?

E qui bisogna dire che in realtà la critica principale rivolta alla deduzione fornita in B, relativa ad una sorta di "giro vizioso" che sarebbe stato effettuato involontariamente da Einstein -critica che pure viene fatta propria da autorevoli commentatori quali Max Jammer (71), che parla addirittura di un "procedimento [...] fondamentalmente errato" [Mdc], e A.I. Miller (già citato), i quali entrambi accolgono un punto di vista espresso da H. E. Ives (72) - appare esagerata, secondo quanto rilevano invece più correttamente ad esempio J. Stachel e R. Torretti (73). Resta comunque il fatto che la deduzione dell'equazione fondamentale fu oggetto di diversi lavori successivi a quello di Einstein, per i quali si rinvia per esempio alle opere citate di A. Pais e S. Goldberg.


Alle due domande precedenti possiamo aggiungerne anche una terza, di non minore interesse, a riprova del fatto che non tutto è stato ancora chiarito rispetto al lavoro in esame, e che una più approfondita indagine sarebbe pertanto auspicabile. Come mai il titolo di B è espresso nella forma interrogativa? Forse che il suo autore si sentiva egli stesso abbastanza incerto sulla validità di quanto stava asserendo? O si tratta di un semplice espediente di natura stilistica, un modo di fare così un anche soltanto implicito riferimento ad un'ipotesi già precedentemente formulata da altri su tale questione? Ed in questo caso, a chi si riferiva l'autore in particolare? [Mdc]

Per quanto riguarda la prima delle possibilità dianzi elencate, essa sembra trovare fondatezza nelle parole con le quali Einstein conclude in B le proprie argomentazioni, dicendo esplicitamente: "Non è escluso, che con corpi dei quali il contenuto di energia è variabile in alta misura (per es. con sali di radio) una prova della teoria possa riuscire", e poi anche: "Se la teoria corrisponde alla realtà delle cose [...]". A. Pais (p. 148) riporta un passo di una lettera di Einstein a C. Habicht, nel quale, con l'ironia che non era certo assente dalla personalità del fisico tedesco, questi scrive: "The line of thought is amusing and fascinating, but I cannot know whether the dear Lord doesn't laugh about this and has played a trick on me".

L'altro interrogativo, concernente eventuali 'precursori', appare anch'esso di non poco conto, ed in qualche modo correlato alla possibilità di deduzioni non relativistiche della formula in discussione, ma bisogna ammettere che, quando si cerca di stilare una lista dei possibili anticipatori della equivalenza massa-energia, da Poincaré, Lorentz, Hasenöhrl, passando attraverso Stokes, Maxwell, Poynting, Boltzmann, J. J. Thomson, si è invero condotti a riconoscere il carattere assolutamente innovativo del lavoro di Einstein rispetto a
quello di tutti questi possibili ispiratori (74).

Tanto per citare vere e proprie anticipazioni qualitative dell'equivalenza in oggetto, ricordiamo ad esempio le parole di Newton: "Non sono forse materia e luce convertibili l'una nell'altra, e non può la materia ricevere la maggior parte della propria attività dalle particelle di luce che entrano nella sua composizione? Il tramutarsi di materia in luce e di luce in materia è del tutto conforme al corso della Natura, che sembra deliziarsi di trasmutazioni" ("Scritti di Ottica", 1717), e quelle di Laplace: "Ma se la luce è un'emanazione del Sole, la massa di questo astro deve diminuire senza sosta" ("Meccanica Celeste, 1845).

Quella che però deve essere considerata del tutto innovativa da un punto di vista qualitativo, e non sembra potersi ritrovare in tutti questi possibili precursori, è l'ipotesi così arditamente avanzata della totale equivalenza tra massa ed energia, tanto più, si noti bene, in assenza ancora di un qualsiasi riscontro sperimentale sull'argomento (75)!

Ed in effetti, anche se l'equazione di Einstein può essere ritenuta equivalente, ma solo in ambito relativistico, alla altrettanto celebre formula che esprime la variazione della massa con la velocità [Mdc]:

 

 

e questa potrebbe essere a sua volta fatta rientrare in situazioni "analoghe" nelle quali veniva previsto un aumento della massa in funzione della velocità (ovvero di un aumento dell'inerzia al crescere dell'energia), come ad esempio nel caso di una carica elettrica in movimento a causa dell'auto-interazione con il campo da essa stessa generato (massa elettromagnetica), non sembra che tali proposte possano essere assimilate - a parte l'aspetto quantitativo che non è mai del tutto identico -all'ipotesi einsteiniana nella sua più genuina e piena
interpretazione. Il già menzionato Pais (p. 159) sottolinea inoltre come anche in siffatto contesto il lavoro di Einstein presenterebbe peraltro la novità di un approccio puramente cinematico rispetto ad altri di carattere invece dinamico; ma ancor meglio i già citati Stachel e Torretti (autore quest'ultimo di un interessante "Relativity and Geometry", Pergamon Press, 1983) rilevano che non è tanto il passaggio dal caso del corpo radiante a quello generale a dover essere valutato particolarmente ardito nella deduzione eisteiniana, quanto piuttosto la coraggiosa congettura, in virtù di quell'esempio particolare, che tutta la massa potesse essere così convertita in energia. In B Einstein scrive infatti apertamente che "Qui è evidentemente inessenziale che l'energia sottratta al corpo sia proprio andata in energia di radiazione, così che siamo condotti alla deduzione più generale [...]" (76). Cioè, ed è questo il punto sul quale ci soffermeremo specialmente in seguito nel raffronto tra la concezione di Einstein ed un'altra, che il termine Eₒ = mₒc² potesse essere fisicamente interpretabile come vera e propria energia latente in ogni corpo materiale.

Ad alcuni degli interrogativi qui formulati cercheremo nel seguito di dare risposta, arricchendo il palcoscenico nel quale si svolge la vicenda, peraltro già fin troppo affollato, con qualche nuovo personaggio. Uno di questi, nuovo e trascurato da tutti gli studi che abbiamo finora citato, sembrerebbe invece avere tutte le carte in regola per essere riconosciuto non soltanto quale uno dei precursori dell'equivalenza massa-energia, e per di più in modo identico a quello che abbiamo indicato come corretto sia da un punto di vista quantitativo che qualitativo, ma anche probabilmente quale protagonista di un ruolo ben più importante di quanto non voglia oggi essere riconosciuto nel fornire ad Einstein una precisa ispirazione per il suo lavoro B.

Stiamo naturalmente parlando di quell'Olinto De Pretto menzionato nel titolo, di cui cominceremo ad occuparci nel prossimo capitolo, e che collegheremo successivamente, ed in modo non troppo indiretto, ad Albert Einstein per il tramite di un grande amico personale del grande fisico, quel Michele Angelo Besso un cui ruolo 'attivo' nei riguardi di A è invece riconosciuto esplicitamente (anche se purtroppo non così ben chiarito, come la nostra curiosità potrebbe oggi volere, nelle sue effettive modalità).
 

Infatti, la celebre fondazione einsteiniana della teoria della relatività, priva per il resto di ogni altro preciso riferimento a studi scientifici o a persone, si conclude con le seguenti parole [Mdc]:

"A conclusione osservo che durante il lavoro ai problemi qui trattati il mio amico e collega M. Besso mi stette fedelmente a fianco e che io devo allo stesso parecchi preziosi incitamenti".

Il ruolo di Michele Besso nella genesi della teoria della relatività einsteiniana, che è, come abbiamo detto, teoria notevolmente originale, nonostante le anticipazioni di scienziati quali Poincaré e Lorentz, è stato approfondito in vari studi critici, e lo stesso Einstein ebbe a ricordarlo in più di un'occasione. Ad esempio, nella già citata biografia di A. Pais è riportato (p. 139) un esplicito ricordo di Einstein in proposito. Tutte queste indagini puntano però la loro attenzione soprattutto sul primo dei due lavori di Einstein del 1905, mentre il secondo, che contiene appunto la celebre equazione, resta per così dire 'nascosto' all'ombra del 'fratello maggiore'. Sarà invece proprio Michele Besso, il cui nome resta comunque nella storia della scienza per quella lusinghiera citazione al termine di A, la persona che indicheremo come quella che ebbe assai verosimilmente una parte non secondaria anche nella genesi di B (e forse proprio più di B che non di A), sperando che della fondatezza di questa ipotesi il lettore sarà persuaso come noi al termine della lettura del presente libro!

 

Note del Capitolo IV

 

(70) Anche Piero Caldirola, in "Applicazioni e verifiche sperimentali della relatività ristretta" (in "Cinquant'anni di Relatività", a cura di Michele Pantaleo, con una prefazione di A. Einstein, Sansoni Ed., Firenze, 1955, p. 402) ammette esplicitamente che: "L'equivalenza tra massa ed energia può essere assunta anche indipendentemente dai Postulati della Teoria della Relatività" [Mdc].
(71) In "Storia del concetto di massa nella fisica classica e moderna", Storia della Scienza, Feltrinelli, Milano, 1974, p. 181.

(72) "Derivation of the mass-energy relation", Journal of the Opt. Soc. of America, 42, 1952, pp. 540-543.

(73) "Einstein's first derivation of mass-energy equivalence", Amer. J. Physics, 50, pp. 760-763.
(74) Anche per tale questione rimandiamo ai vari testi storico-critici che abbiamo finora menzionato, ai quali si può aggiungere anche il già citato articolo di P. Caldirola, il quale inserisce però erroneamente nella sua lista di possibili precursori non soltanto Kurt von Mosengeil (che era al tempo soltanto un allievo di Max Planck, sotto la supervisione del quale scrisse nel 1906 la sua tesi di dottorato, la prima in assoluto ad affrontare questioni di teoria della relatività - cfr. A. Pais, Loc. cit., p. 150), ma anche il fisico italiano Giovanni Giorgi, che non ci sembra invece aver mai dato contributi in questa direzione (e forse viene confuso dal Caldirola con il contemporaneo Augusto Righi, il quale comunque scrisse soltanto dopo il 1905 un "Sulla massa elettromagnetica dell'elettrone", "Il Nuovo Cimento", 12, 1906, pp. 247-266).
(75) Pierre Speziali ("Albert Einstein Michele Besso Correspondance" 19031955, Collection Histoire de la Pensée, Hermann, Paris, 1972; Collection Savoir, 1979, p. XXXII) menziona C.E. Guye, dell'Università di Ginevra, come il primo ad aver fornito una prova sperimentale dell'equazione in discussione nel 1917. Informiamo però che G. N. Lewis ("Phil. Mag.", 16, N. 95, 1908) riferisce tale formula a Maxwell ed alla sua teoria elettromagnetica, asserendo che in questo stesso senso sarebbe stata ribadita da Poynting, oltre che da Boltzmann quale applicazione delle leggi della termodinamica. Lo stesso autore aggiunge che essa "è stata verificata con rimarchevole precisione in una serie di esperimenti da Nichols e Hull".
(76) In realtà, anche su questo aspetto Einstein si esprime in modo piuttosto cauto, e parla in B della massa di un corpo semplicemente come di una "misura" per il suo "contenuto in energia", il che a rigore non è proprio la stessa cosa che stiamo dicendo.
 

Capitolo V

L'"Ipotesi dell'etere nella vita dell'universo"

 

 

Il 29 Novembre del 1903 veniva presentata al Reale Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti, da parte del Conte Almerico Da Schio, una memoria del Dott. Olinto De Pretto dal titolo "Ipotesi dell'etere nella vita dell'universo" (apparsa poi nel Febbraio del 1904 negli "Atti" dello stesso Istituto, Tomo LXIII, Parte II, pp. 439-500). Nel terzo paragrafo di questo scritto, intitolato "Energia dell'etere ed energia latente nella materia" (vedi il successivo capitolo 9), troviamo formulata non soltanto una relazione qualitativamente identica e
quantitativamente assai simile a quella ipotizzata da Einstein tra massa ed energia, ma anche la sua 'corretta' interpretazione fisica, che viene espressa attraverso le seguenti parole:

"La materia di un corpo qualunque, contiene in se stessa una somma di energia rappresentata dall'intera massa del corpo, che si muovesse tutta unita ed in blocco nello spazio, colla medesima velocità delle singole particelle. [...] La formula mv² ci dà la forza viva e la formula mv²/8338 ci dà, espressa in calorie, tale energia. Dato adunque m=1 e v uguale a 300 milioni di metri [al secondo], che sarebbe la velocità della luce, ammessa anche per l'etere, ciascuno potrà vedere che si ottiene una quantità di calorie rappresentata da 10794 seguito da 9 zeri e cioè oltre dieci milioni di milioni" (pp. 458-459).

Per comprendere precisamente l'affermazione dell'autore, bisogna andare ad analizzare quel coefficiente 8338, che compare in una frazione al cui numeratore è presente proprio la famosa espressione mc² (De Pretto, come del resto Einstein nel 1905, usa la lettera v al posto della c per indicare i ben noti 300 milioni di metri al secondo), che viene detta correttamente "forza viva", secondo una vecchia denominazione che risale ai tempi di Leibniz, e non "energia", ed è quella che determina comunque l'enorme quantità di energia di cui si sta congetturando l'esistenza. Per offrirne un'immagine suggestiva, che fosse cioè più praticamente apprezzabile, De Pretto presenta tale grandezza fisica (corrispondentemente all'unità di massa) calcolandola in calorie, ossia l'unità di misura dell'energia che si utilizza in
termodinamica. Data una certa quantità di energia, espressa peresempio in Joule nell'ordinario sistema di misura MKSQ, per trovare a quante calorie corrisponda bisogna introdurre un opportuno "coefficiente di trasformazione", che si chiama l'equivalente meccanico della caloria. Esso viene approssimativamente stimato oggi (nel menzionato sistema MKSQ) con 4186, mentre De Pretto si serve del valore 4169, perché alla fine dell'Ottocento tale costante era in effetti valutata in maniera differente (un piccolo errore in percentuale che fu aggiustato soltanto in seguito). Nel rapporto che stiamo discutendo non appare però, attualizzandolo un poco, mc²/4196, bensì mc² diviso il doppio di 4169, tale è infatti l'altrimenti "misterioso" coefficiente 8338. Che significato ha tutto ciò? Che De Pretto calcola giustamente, in calorie, non l'energia corrispondente alla forza viva mc², ma quella corrispondente alla metà di tale fattore. Ovvero, egli
valuta l'energia cinetica mc²/2, sicché potrebbe asserirsi che ipotizzi un'energia latente nella materia pari soltanto alla metà di quella prevista dalla teoria della relatività (e poi riconosciuta davvero esistente, almeno quanto a "ordine di grandezza"; chissà se poi si può essere del tutto sicuri che sia esatta una formula e non l'altra). In ogni caso, De Pretto prevede una quantità di energia inaspettata e spaventosamente grande, solo questo gli premeva di mettere in evidenza nel suo saggio (lo scienziato peraltro ritorna presto sull'argomento, per argomentare come la sua stima potrebbe in effetti modificarsi, sia in difetto che in eccesso), d'onde si può affermare con assoluta certezza l'equivalenza "qualitativa" delle due concezioni, mentre da un punto di vista "quantitativo" esse dovrebbero ritenersi soltanto proporzionali. Del resto, laddove nella teoria della relatività l'equazione in esame ha una "spiegazione" che ci sembra esclusivamente "formale", nel quadro concettuale dell'etere di De Pretto essa riceve al contrario una chiara motivazione fisica, del tutto "intuibile" secondo gli usuali canoni della "razionalità ordinaria", senza fare ricorso a sofisticate strutture matematiche [Mdc].

Questa ipotesi viene avanzata dal De Pretto sulla base della concezione di un etere costituito da tante "particelle piccolissime", che potremmo dire delle "monadi" d'etere (sarebbero soltanto questi i veri e propri atomi, nel senso letterale del termine), che vibrano incessantemente ad un'alta velocità propria (quella della luce, per l'appunto). Esse sono presenti dappertutto nello spazio dell'universo, e soggette ad un "continuo movimento vibratorio rapidissimo", per effetto degli urti che si susseguono delle une con le altre. Con questo
modello nella mente il De Pretto, un po' alla maniera del francese Lesage, menzionatogli dal promotore della pubblicazione del suo scritto a cose ormai fatte, cerca prima di dare un meccanismo causale per la gravitazione (le monadi d'etere non sono soggette alla gravitazione, ma ne sarebbero viceversa la causa con i loro urti), e viene successivamente condotto alla formulazione dell'equazione in esame, attraverso la concezione di una particella di materia come un agglomerato di monadi d'etere, ancora in "rapidissimo perenne movimento", ma costrette a restare intorno ad un punto d'equilibrio (senza però chiarire se si debba arrivare a concepire adesso il loro movimento come circolare, o ancora sempre vibratorio, ma con brevissimo raggio di escursione). Sta di fatto che su questa base arriva all'ipotesi che abbiamo già menzionato, e riesce anche ad esprimerla in una precisa forma quantitativa (senza dire che, dal punto di vista del De Pretto, avrebbe senso forse anche di parlare di energia dello "spazio vuoto", concetto che svolge un ruolo importante nella moderna fisica quantistica). Che questa conclusione dovesse sembrare all'epoca incredibile, e completamente al di fuori delle conoscenze fisiche del tempo, appare all'autore subito chiaro, visto che questi aggiunge subito al calcolo precedente il seguente commento:

"A quale risultato spaventoso ci ha mai condotto il nostro ragionamento? Nessuno vorrà facilmente ammettere che immagazzinata ed allo stato latente, in un chilogrammo di materia qualunque, completamente nascosta a tutte le nostre investigazioni, si celi una tale somma di energia, equivalente alla quantità che si può svolgere da milioni e milioni di chilogrammi di carbone; l'idea sarà senz'altro giudicata da pazzi" (p. 459).

Ed in effetti, l'autore da "pazzo", o quanto meno da sprovveduto, era forse già stato considerato, e probabilmente anche da diverso tempo. Un forte argomento a favore della nostra ricostruzione della vicenda De Pretto, Besso, Einstein, è in effetti la circostanza che una Memoria come quella del 1903 non si prepara in poco tempo, e che il De Pretto era evidentemente da anni arrivato alle conclusioni, almeno allo stato embrionale, che vennero poi raccolte in quello scritto, come le seguenti parole premesse al suo lavoro suggeriscono:

"La presente Memoria, per le ardite ipotesi che contiene, era destinata forse a rimanere inedita; il nome oscuro dell'autore, non dava alla stessa sufficiente credito" (p. 439).

Segue un ringraziamento al Conte Almerico Da Schio "che tanto benevolmente volle appoggiarmi", ma soprattutto all'"Illustre Astronomo Schiaparelli", del quale ultimo viene in effetti pubblicata in calce alla memoria del De Pretto una lettera, del Giugno 1903, nella quale si dimostra una del tutto rara apertura mentale nel giudicare di cose scientifiche. Questi infatti, pur non considerando definitive le ipotesi del De Pretto, rileva i giusti meriti del lavoro e l'opportunità di una sua divulgazione con le seguenti parole, che possono essere ancora oggi proposte all'attenzione dei tanti affrettati 'censori' operanti nelle redazioni delle varie riviste scientifiche (vedi anche il successivo capitolo 7): "Insomma: se sarebbe troppo il dire, ch'Ella ha spiegato le cose come stanno, proprio come stanno, mi pare tuttavia di non eccedere la giusta misura dicendo che Ella ha aperto al nostro sguardo nuove possibilità, la cui considerazione deve essere sufficiente a moderare il tono dogmatico, con cui diversi scienziati, anche di gran vaglia, hanno parlato e vanno parlando" (p. 500).

Ma torniamo al De Pretto il quale, dopo aver accennato come abbiamo visto ai suoi problemi relativi all'etichetta di "pazzo", si dichiara subito eventualmente disposto ad una riduzione della quantità di energia prevista, ma non all'aspetto qualitativo delle sue considerazioni:

"Sia comunque, si riduca quanto si vuole il risultato a cui fummo condotti dal nostro calcolo, è pur forza ammettere che nell'interno della materia, deve trovarsi immagazzinata tale somma di energia da colpire qualunque immaginazione" (p. 459).

Questa possibile "riduzione" è da collegarsi al fatto che la velocità v nella equazione del De Pretto è invero soltanto la (sconosciuta) velocità di vibrazione delle particelle d'etere, che viene ammessa pari a quella della luce solo ipoteticamente, ma è in realtà suscettibile tanto di essere più alta di quest'ultima, come lo stesso autore argomenta in altro luogo:

"La velocità di propagazione di tali vibrazioni, deve essere certamente almeno uguale a quella della luce [...] quando non sia anche superiore" (pp. 446-447); e, potrebbe aggiungersi, quanto possibilmente anche minore, eventualità alla quale sembrerebbe alludersi nel passo già citato (p. 459), ma soltanto allo scopo di cercare di ridurre l'incredulità che la sua fantastica ipotesi aveva evidentemente sempre incontrato presso le persone cui aveva parlato delle sue 'intuizioni'.

Chi era dunque questo Olinto De Pretto, capace di intuizioni tanto ardite e profetiche, ma che parla di se stesso come di un "oscuro autore"?

In verità, non si tratta di un personaggio proprio tanto trascurabile nel panorama scientifico del suo tempo e del suo paese, tanto più se lo si valuta, piuttosto che sotto l'aspetto accademico della pura produzione scientifica (pure non assente), sotto quello delle applicazioni pratiche della scienza alla tecnica (a proposito di maggiori informazioni sulla vita del De Pretto, vedi la Nota Biografica compilata da una diretta discendente di Silvio De Pretto, fratello di Olinto, nel successivo capitolo 7).

Olinto De Pretto nacque a Schio, in provincia di Vicenza, il 26 Aprile 1857, sesto di sette figli, da un architetto che era dedito anche a ricerche di astronomia e di geologia. Pietro De Pretto, così si chiamava il padre di Olinto, architetto presso il Comune di Schio, collezionò, con il fratello Michele, geologo, minerali e rocce, la cui raccolta fu poi donata al Museo di Mineralogia dell'Università di Padova. Dopo studi liceali compiuti a Padova, Olinto De Pretto si laureò in Agraria presso l'Università di Milano, dove fu assistente del Prof. Gaetano Cantoni alla Scuola Superiore di Agricoltura. Dalla corrispondenza di questo periodo con il fratello maggiore Silvio, un ingegnere di cui avremo modo di riparlare, siamo messi al corrente dell'inclinazione del De Pretto per le applicazioni tecniche delle conoscenze scientifiche, non disgiunta però da una certa inventiva teorica, che lo porta a formulare ipotesi del tutto nuove ed arrischiate, come egli stesso le definisce. Il fratello Silvio, con altri componenti della famiglia, era stato fondatore a Schio di un'officina meccanica che assunse ben presto le dimensioni di un'importante industria, grazie anche alle capacità tecnico-scientifiche che i De Pretto seppero impiegarvi. Lasciato il lavoro all'Università di Milano intorno al 1886 per rivestire la carica di Direttore Amministrativo della Fonderia De Pretto, posizione che occupò peraltro fino alla fusione, avvenuta nel 1920, dell'industria veneta con la svizzera Escher Wyss, il De Pretto continuò ad alternare, anche se in diversa misura, studi di interesse pratico con studi teorici fino alla morte, avvenuta nel 1921, proprio quando usciva il suo libro "Lo spirito dell'universo" (Biblioteca di Scienze Moderne, F.lli Bocca Ed., Torino), nel quale riprendeva e rielaborava i temi già contenuti nella memoria del 1904. Le sue pubblicazioni scientifiche furono nel complesso non numerose, e riguardanti soprattutto argomenti di geologia (il loro elenco è contenuto in calce al presente capitolo), a testimonianza di un maggiore interesse per l'attività pratica, per la quale divenne del resto un personaggio ben conosciuto nel Veneto dei primi anni del `900: costruzione di alberghi, fondazione di scuole professionali, partecipazione a Società quali la Società Elettrica, la Società Esercizi Pubblici, e perfino la partecipazione finanziaria alla costruzione e alla gestione della prima aeronave italiana, progettata dal conte Almerico da Schio (lo stesso che presentò la memoria del De Pretto al Reale Istituto Veneto). Anche le sue concezioni teoriche finirono per trovare qualche istante di popolarità, attraverso il famoso scrittore Sem Benelli, autore tra l'altro de "La cena delle beffe", il quale compose nel 1927 un dramma dal titolo "Con le stelle" (F.lli Treves Ed., Milano), in cui venivano riprese alcune delle tematiche conformi alla visione del mondo illustrata dal De Pretto. Possiamo al proposito ricordare che in un articolo apparso sul Corriere della Sera del 22.2.1927, in occasione della imminente "prima" del dramma di Benelli presso il Teatro Manzoni di Milano (con la Compagnia di Dario Niccodemi), nel presentare il suo dramma l'autore fa esplicito riferimento a Olinto De Pretto (che dice "sconosciuto quasi agli italiani") ed alle sue concezioni fisiche, le quali avrebbero "richiamato senza volere l'attenzione, di chi indaga il mistero dell'essere, sull'infinitamente piccolo".

Per concludere questo capitolo, possiamo dire che il De Pretto rimase, nonostante tutto il suo fervore di attività, sempre fedele alle teorie che lo avevano portato al lavoro del 1904, tanto che ancora circa venti anni dopo, e proprio nel momento della morte, dava alle stampe un libro in cui le riproponeva ed estendeva. Strano però che in tale libro il nome di Einstein non sia mai citato, e che nessuna pretesa di priorità vi venga avanzata, sia pure in modo 'ingenuo', rispetto all'equazione oggetto della nostra indagine. Prova del fatto che De Pretto era in fondo un personaggio isolato dal mondo scientifico internazionale, e non al corrente dei più attuali sviluppi e successi delle scienze fisiche, o della circostanza che Einstein non era diventato ancora così indiscutibilmente 'autorevole', almeno nel nostro paese?

In realtà, se in effetti, come abbiamo già detto, solo nel 1922 veniva conferito ad Einstein il premio Nobel, le osservazioni compiute da Eddington durante l'eclisse di sole del 1919 furono però diffuse con molto clamore e pubblicità sulla stampa internazionale, e De Pretto avrebbe dovuto averne almeno qualche sentore. Va riconosciuto d'altro canto che, sotto il profilo più propriamente scientifico, anche se sin dal 1912 l'influente Tullio Levi Civita si era per così dire 'convertito' alle nuove idee relativistiche, dopo un inizio non certo favorevole ad esse (che aveva addirittura definite un "baraccamento provvisorio") [Mdc], trascinando quindi con sé gran parte dell'ambiente fisico-matematico italiano (come spesso succede), fu proprio solo in quegli anni che comparvero in Italia i primi libri che esponevano i principi relativistici. Roberto Marcolongo, "Relatività", Messina, esce nel 1921; Guido Castelnuovo, "Spazio e tempo secondo le vedute di A. Einstein", Bologna, già menzionato, esce nel 1923; mentre è del 1924 il testo di Paolo Straneo, "Teoria della relatività - Saggio di una esposizione secondo il senso fisico", Roma.

Resta comunque il fatto che, quando nel 1931, a dieci anni dalla morte del fratello, l'ingegnere Silvio De Pretto tentò di valorizzare il lavoro del congiunto con uno studio relativo a "Lo spirito dell'universo", trovò un ambiente ormai assai poco disposto ad accettare argomentazioni basate sulla fisica dell'etere, le cui fortune erano ormai nettamente in declino. Si trovano in appunti di Silvio De Pretto accenni a due lettere, andate purtroppo perdute, di Pio Emanuelli, astronomo della Specola Vaticana, il quale, essendo stato richiesto di un parere in merito all'eventuale pubblicazione dello studio in oggetto, si esprime in modo assai negativo con le seguenti parole: "Che se ne conosce dell'etere: esiste o non esiste? e che rapporti ha con la materia? Se ben mi appongo, i fisici sembrano del parere che l'etere non esista, o, almeno sono più propensi per l'inesistenza che per l'esistenza. Lo stato della fisica odierna [...] non ha nulla a che vedere con lo stato della fisica ai tempi dello Schiaparelli" (lettera del 12.4.1931).

È curioso osservare che proprio da parte diciamo così cattolica, ieri come oggi, provengono diversi importanti sostegni alla teoria della relatività, ed alla derivata teoria del big-bang, come se in queste teorie fosse più facile inquadrare eventi come la "creazione", o la possibile conoscenza del futuro, che nel trattamento einsteiniano coesiste con il passato ed il presente in un'unica trama spazio-temporale [Mdc]. Siffatti atteggiamenti dimenticano però la circostanza poco trascurabile che le categorie mentali dell'essere umano escono irrimediabilmente diminuite dalle teorie relativistiche, con qualche conseguente problema, di quelli che aveva già avuto modo di prendere in considerazione Cartesio (che li risolveva naturalmente in tutt'altro modo) in ordine alla 'benevolenza' eventualmente così dimostrata dal Creatore alla sua Creatura, dotandola di mezzi per interpretare la realtà tanto palesemente insufficienti. Ma può darsi anche che piaccia di più ad alcuni fisici cattolici l'aspetto quasi religioso, nel senso di ammantato di 'mistero', della nuova incomprensibile scienza, con la conseguente edificazione di una novella casta sacerdotale (per la quale la matematica prende il posto del vecchio latino nel tenere lontana la maggior parte dei fedeli da un'autentica e profonda comprensione dei diversi sacri misteri) [Mdc]. E questo autore non sa resistere ad esprimere il proprio rammarico perché siffatte auspicabili 'convergenze' (anche se bisognerebbe interrogarsi su quanto esse siano veramente possibili, e non frutto di compromessi di tipo politico) [Mdc] avvengano piuttosto sul piano del buio e del mistero, che non su quello della luce e della chiarezza.

Fatto sta che lo scritto che Silvio De Pretto aveva preparato non venne mai pubblicato (il relativo manoscritto andò successivamente perduto), e che sull'intera questione scese l'ancora più polveroso silenzio che ricopre ogni storia dei vinti.
 

Capitolo VI

Olinto De Pretto e Michele Besso

 
Detto quindi così succintamente del De Pretto e del suo ruolo niente affatto marginale nella vita pubblica del suo tempo e della sua regione, introduciamo l'altro più noto ed importante personaggio della nostra storia alternativa, che pure nel Veneto ed in quegli stessi anni ebbe ad operare, Michele Besso.

In ogni caso, l'ipotesi di un contatto diretto tra De Pretto, o almeno tra le sue concezioni ed Albert Einstein, non è impossibile da sostenere, e non in contrasto con quanto asserito nel precedente capitolo 4 a proposito del carattere 'tardivo' della nota B. Ciò dimostrerebbe soltanto che, se pure Einstein avesse sentito parlare da sé delle ardite ipotesi dello scienziato di Schio, non era comunque così persuaso della loro fondatezza quando si accingeva alla redazione di A, tanto da non farne in quella sede alcun cenno. In questo caso, qualcosa deve essere intervenuta successivamente a fargli cambiare idea, e potrebbe anche trattarsi di discussioni con qualcuno meno scettico di lui sul possibile valore di certe idee, il che ci riporterebbe comunque direttamente alla linea di argomentazione principale qui seguita. Per arricchire il possibile quadro interpretativo diciamo lo stesso che non possono essere dimenticati i legami che al tempo Einstein aveva con l'Italia, ed in particolare proprio con la Lombardia ed il Veneto. Di fatto, il giovane Albert venne più volte nel nostro paese, da quando la sua famiglia vi si trasferì definitivamente nel 1894, e negli anni successivi accompagnò spesso in viaggio il padre Hermann per motivi di lavoro. Informiamo che si trova ancora oggi a Pavia una casa della famiglia di Einstein, una cui foto è pubblicata nell'assai interessante ed originale libro di L. Pyenson già citato. Il padre di Einstein, che morì a Milano nel 1902, si occupava proprio di impianti elettrici, è bene ricordarlo nel nostro contesto, e come Direttore della Privilegiata Impresa Elettrica Einstein fu concessionario dei lavori di installazione della luce pubblica in alcuni comuni del Veronese ed in altre parti del Veneto. Ancora una volta 'coincidenze' significative di luoghi e di tempi, dal momento che per produrre energia elettrica ci vogliono turbine, e che la Fonderia De Pretto era tra le poche aziende italiane che ne producevano. Inoltre, si noti, Schio è molto vicina pure a Verona!

Sotto questo aspetto, non bisognerebbe poi neppure dimenticare frequenti contatti della famiglia De Pretto con la Svizzera. In questo paese risiedeva, e proprio a Zurigo, la Escher Wyss, con la quale, seppure solo nel 1920, la Fonderia De Pretto si fuse - il relativo stabilimento è ancor oggi in funzione a Schio - ma i contatti tra le due società esistevano certamente già da molto tempo prima (notiamo che la Escher Wyss era sorta addirittura nel 1805). Né bisognerebbe poi trascurare, ancora a proposito del legame De Pretto-Svizzera -che appare particolarmente interessante per il fatto che Einstein era, prima di diventare il fisico più famoso del mondo, soltanto un "oscuro impiegato dell'Ufficio dei brevetti di Berna" (77) - neanche la circostanza che la famiglia De Pretto era stata depositaria di brevetti internazionali relativi alle proprie attività industriali, ma, in assenza di altri riscontri (78) , tutte queste sarebbero illazioni molto più esili di quelle che invece esamineremo in questo capitolo.

Venendo a Michele Besso, diciamo che egli nacque a Trieste, nel 1873, da famiglia assai agiata ed importante (79). Marco Besso, zio di Michele, fu Presidente delle "Assicurazioni Generali", fondate nel 1831 da Vitale Beniamino Cusin, padre della moglie del nonno di Michele, Salvatore Besso. Sono ancora oggi attive a Roma due fondazioni Besso, una dedicata ad Ernesta Besso, moglie di questo Marco, e l'altra proprio allo stesso Marco. Si può poi ricordare che un altro degli zii di Michele, Davide Besso (1845-1906), fu negli anni chiave della nostra storia un matematico di primo piano nell'ambiente italiano, tanto da essere stato tra i fondatori del famoso "Periodico di Matematiche", ed anche quest'ultima circostanza potrebbe avvalorare di più la nostra ipotesi di una conoscenza da parte di qualcuno almeno dei Besso del lavoro di De Pretto, qualora si rifletta sulla circostanza che a quel tempo non erano certo troppe le riviste scientifiche, né eccessivo il numero dei lavori che vi si pubblicavano, oltre al fatto che la differenza tra matematici e fisici era meno marcata che non ai nostri giorni. Di un altro degli zii di Michele, Beniamino Besso, più importante per i nostri scopi, diremo presto.

L'amicizia di Michele Besso con Einstein (80), che andò del resto ben oltre il periodo giovanile di Zurigo, data dal 1896, anno nel quale Albert Einstein si iscrisse al Politecnico di Zurigo, città nella quale si era recato anche il Besso a completare i suoi studi sin dal 1891, dopo avere iniziato a studiare Scienze fisico-matematiche presso l'Università di Roma. Divenuto ingegnere, il Besso restò alcuni anni in Svizzera, per poi andare a lavorare (1899) a Milano presso la "Società per lo sviluppo delle Industrie elettriche in Italia" (81), e da lì poi a Trieste. Nel gennaio del 1904, dietro insistenza dell'amico Einstein, lasciò la sua già affermata posizione raggiunta nella città giuliana, ed accettò di andare a lavorare presso l'ormai storico Ufficio Brevetti di Berna, dove rimase fino alla fine del 1908. Einstein dal canto suo rimase in quell'ufficio poco più di un anno ancora, quando entrò finalmente all'Università come professore di fisica teorica, e sempre a Zurigo.

Di quegli anni famosi trascorsi fianco a fianco con quello che diventerà uno dei più celebri scienziati di tutti i tempi non rimangono grandi tracce scritte, se non qualche ricordo molto posteriore dei protagonisti, proprio perché la vicinanza tra i due uomini fa sì che la corrispondenza tra i due, in altri periodi assai nutrita, presenti in questa fase una ovvia lacuna.

Quali in effetti le ragioni - che probabilmente resteranno comunque sempre allo stadio di ipotesi, mancando ogni documentazione scritta al riguardo - le quali spingono a ritenere assai verosimile una conoscenza, se non proprio tra le persone, quanto meno dell'articolo del De Pretto da parte di Besso? Basterebbe, per formarsi tale persuasione, ricordare un attimo i tempi e i luoghi nei quali si trovarono a vivere gli attori di questa storia, così come li abbiamo precedentemente descritti. Si sa ad esempio di periodi di vacanza nei quali si avvicinarono le varie famiglie protagoniste della nostra storia nei dintorni di Garda, vicino a Verona, ma ci sembrerebbe già sufficiente sottolineare la sola circostanza che Besso viene ovunque definito come persona la cui "sete di sapere [...] non conosce limiti", un autentico divoratore di testi scientifici nei più diversi campi, uno spirito eclettico che cercava di "dominare tutto il sapere del suo tempo" (vedi P. Speziali, p. XXV), capace anche di produrre una propria originale ricerca scientifica. Mantenuti sempre legami per motivi di famiglia con l'Italia (quella del Nord Est in modo particolare), nella quale tornò del resto più volte, anche per non brevissimi periodi, nel corso della sua vita - che concluse poi nel 1955, a Ginevra, dopo essere ritornato per un lungo tempo a lavorare presso lo stesso Ufficio Brevetti di Berna che
aveva visto la nascita del suo sodalizio con Einstein - sembra inverosimile che per i motivi dianzi richiamati il Besso non sia venuto a conoscenza delle idee e del lavoro di De Pretto, pubblicato nella sua stessa lingua, in una rivista certamente autorevole al tempo, e tanto più in quella regione d'Italia.

Ma c'è in effetti anche qualche altra circostanza ad aumentare la verosimiglianza di una conoscenza da parte di Besso della memoria di De Pretto. A guardar bene nei recessi della storia, si scopre infatti che Michele Besso restò sempre in particolare contatto con un proprio zio, Beniamino Besso, che viveva a Roma, ed addirittura ebbe ad ospitarlo in casa propria quando il nipote era un giovane studente dell'Università di quella città. Questo nuovo personaggio del nostro racconto, era interessato anch'egli a questioni scientifiche, sia pratiche che teoriche, e particolarmente di elettricità: di lui ci resta un libro su tale argomento, "L'Elettricità e le sue Applicazioni" (F.lli Treves Ed., Milano, 1871), ma esistono anche altri suoi libri su varie questioni, sempre di carattere scientifico, concernenti le grandi invenzioni, le macchine a vapore, le strade ferrate, etc. A parte questo suo hobby per la scienza e per la tecnica, Beniamino Besso rivestiva a Roma la carica di Direttore delle Ferrovie Sarde. Orbene, faceva al tempo parte del Reale Ispettorato delle Strade Ferrate anche un altro finora non nominato fratello di Olinto De Pretto, l'ingegnere Augusto, che per motivi inerenti alla sua carica soggiornava anch'egli frequentemente a Roma. Augusto De Pretto, promosso successivamente Ispettore Superiore, fece anche parte dal 1907 del Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici. Non ci vuole molta immaginazione per supporre allora che questi, grande estimatore dell'intelligenza speculativa del fratello, non avrà mancato di riferire ai colleghi, e quindi anche a Beniamino Besso, delle "folli" idee di Olinto, e da Beniamino (che morì nel 1908) a Michele il passo è invero breve, tenuto conto anche dei frequenti viaggi di quest'ultimo, e del suo amore per la corrispondenza: Besso intrecciò infatti relazioni con vari altri eminenti personaggi della scienza e della filosofia dell'epoca, quali H. Weyl, F. Gonseth, J. Piaget, F. Enriques, E. Schrödinger, R. Marcolongo, etc. - vedi ancora al riguardo P. Speziali - e non c'è da stupirsi se abbia continuato per iscritto o di persona a colloquiare con lo zio.

Tutto sommato, e tenuto conto che al tempo non erano molte in Italia le persone che si occupavano di simili questioni scientifiche, immaginare che Besso sapesse del lavoro di De Pretto, e che abbia riferito ad Einstein - forse dopo che il primo lavoro A era stato terminato, e tra l'altro con una sua personale partecipazione alla discussione del relativo contenuto, come abbiamo ricordato - la "pazzesca" supposizione dello scienziato di Schio, secondo il quale "in un chilogrammo di materia qualunque...", non è davvero molto difficile, tanto più, come abbiamo già detto, che la forma matematica di una simile equazione si poteva già trovare almeno in embrione nel primo lavoro di Einstein sulla teoria della relatività.

Sciocchezze, penseranno certamente a questo punto i miei più 'ortodossi' lettori, confrontare la scienza precisa e matematica di Einstein con la 'fantascienza' qualitativa di un De Pretto è pura follia! Parere questo che non tiene però nel giusto conto il fatto che considerazioni 'fantastiche' e di tipo qualitativo sono sempre comunque presenti all'origine della ricerca anche la più rigorosa ed astratta possibile, e che non c'è niente quindi di veramente strano che sia stata proprio l'informazione sulle 'fantasie' del De Pretto ad aver fornito lo spunto al creatore della teoria della relatività per l'appendice del lavoro A. In B non si fa alcun cenno all'analoga equazione del De Pretto proprio perché in effetti questa è dedotta in modo assolutamente diverso, e per di più in un contesto teorico assolutamente antitetico a quello in cui si muoveva Einstein, vale a dire a partire proprio da quell'ipotesi dell'etere che il giovane fisico teorico stava allora cominciando a demolire. Questa circostanza potrebbe spiegare l'assoluta mancanza di citazioni anche nel secondo articolo 'relativistico' del fisico tedesco (che non formula neppure dediche o ringraziamenti), e si può ben comprendere come questi non avesse in verità alcun desiderio di riconoscere pubblicamente spunti tratti dall'opera di un oscuro scienziato, che non era neppure un fisico!, quando già ad esempio nei lavori del grande fisico-matematico francese Henri Poincaré, e da diversi anni, avrebbe potuto trovare una più prestigiosa e confessabile sorgente di intuizione.

Per concludere, ci sembra che ognuna delle circostanze da noi segnalate sia in grado di avvalorare la congettura qui espressa che uno spunto forse non marginale al lavoro B di Albert Einstein sia venuto, ancora per il tramite di Michele Besso come nel lavoro A, da un dimenticato uomo di scienza italiano, con il buffo effetto, vale la pena ripeterlo ancora una volta, che tale suggerimento veniva ad essere fornito ad Einstein da una serie di considerazioni teoretiche tutte assolutamente inaccettabili nella sua ottica, fondate com'erano su ipotesi relative alla struttura dell'etere, proprio quella elusiva "sostanza" che il lavoro di Einstein cercava al contrario di dichiarare "superflua", e di eliminare quindi, cosa che poi di fatto avvenne, dal panorama della fisica.

Ammettiamo pure infine che, nel cercare di chiarire come nel ricostruire le fonti dell'ispirazione einsteiniana il lavoro di De Pretto possa a ragione essere considerato come una di queste -anche se più o meno diretta, e probabilmente non l'unica - il presente libro ha piuttosto allargato lo sfondo del lavoro di Einstein, piuttosto che oscurato una parte a favore di un'altra. In altri termini, che non si è qui rimpiazzata una tesi storiografica con un'altra opposta, ma che si è certo arricchito, con l'aggiunta di particolari forse non secondari, certo suggestivi, un quadro che in ogni caso si avrebbe torto a supporre molto semplice.

Resta il fatto comunque importante, per coloro interessati a questo tipo di "paradossi" della storia della scienza, che una formula considerata da tutti di tipo essenzialmente relativistico, e quindi non avente nulla a che fare apparentemente con la fisica dell'etere, fosse stata invece già proposta, pressoché identica in forma e possibili conseguenze fisiche, da un sostenitore della reale, "materiale" esistenza, e quindi dell'importanza ai fini delle scienze naturali, di questa sostanza, che è oggi cancellata, grazie principalmente proprio al contributo offerto da Einstein, dall'orizzonte della fisica, ma che è forse in attesa di ritornarvi (magari con un altro nome) con tutta la forza delle sue suggestioni metafisiche [Mdc].

 

Note del Capitolo VI
 

(77) Quest'espressione è stata già utilizzata nel capitolo 1, ed in quell'occasione ne è stata fornita la relativa fonte bibliografica.

(78) Che, naturalmente, nessuno degli storici di professione potrà trovare se nessuno di essi comincerà a cercarli.

(79) Per varie notizie sulla famiglia Besso si può utilmente consultare, in aggiunta al testo di P. Speziali citato nel capitolo 3, anche Alberto Caracciolo, "Una diaspora da Trieste: i Besso nell'Ottocento", Quaderni Storici, 54, A. XVIII, N. 3, Dicembre 1983, pp. 898-912.

(80) Lo studio più approfondito sulle relazioni tra i due personaggi della nostra storia è senz'altro quello di P. Speziali, che abbiamo già avuto occasione di citare, ed al quale faremo spesso riferimento nel corso di questo capitolo.

(81) E si noti l'analogia con l'attività del padre di Einstein.

quoz

Capitolo VII

Sulla genesi di questo libro
 

"Chi non va contro vento
non può alzarsi in volo
"


Non ricordo esattamente l'anno, ma doveva essere intorno al 1985 quando per la prima volta l'amico Omero Speri di Verona mi parlò del dimenticato lavoro di Olinto De Pretto, e dell'ovvio interesse che esso poteva rivestire per la storia della fisica moderna. Dell'amico Speri, particolare figura di autentico scienziato, curioso ed attento indagatore di diversi fenomeni naturali, e del suo rimpianto ed inseparabile
collaboratore nelle ricerche, Piero Zorzi, si potrebbe parlare a lungo, e non è detto che prima o poi non mi accingerò a farlo. Un fatto almeno voglio però qui ricordare, e cioè che già nel 1974 i due ricercatori citati brevettarono un loro dispositivo a proposito del cui funzionamento parlavano, in termini assolutamente anticipatori, di "fusione fredda". La cosa poi non ebbe alcun seguito, anche per l'ostilità preconcetta dell'establishment scientifico (e non soltanto nei confronti della possibilità di questo fenomeno naturale, ma anche, e forse soprattutto, perché non si poteva accettare che un'osservazione di questo tipo provenisse da outsiders), ma se le diverse evidenze a favore di siffatte trasformazioni atomiche dovessero venire confermate ecco che il nome dei due ricercatori per passione non potrebbe essere più ignorato dai futuri testi di storia della scienza.

Da quella prima volta sollecitai varie volte i due amici - ai quali ero particolarmente legato per la simpatia nei confronti delle teorie dell'etere, e per la comune stima ed amicizia con il Marco Todeschini già ricordato nel capitolo 3 - a scrivere qualcosa di esteso sulla questione, ma più che un paio di articoli su giornali locali ("Il Veronese", 1 Febbraio 1987; "Il Giornale di Vicenza", 10 Ottobre 1989; "Arena", 2 Febbraio 1991), destinati quindi all'effimero - ed al disinteresse di coloro che decidono quali siano gli argomenti di cui sia di moda parlare e di quali no - non fu prodotto. Non posso non esprimere a questo punto un forte personale rammarico per tante altre cose interessanti che i due amici sapevano, e mi hanno comunicato nelle diverse occasioni in cui ho avuto il piacere di incontrarli; cose che non sono state mai scritte, perché il produrre pubblicazioni scientifiche non faceva parte della loro consueta attività. Anzi, nei confronti di questa necessaria conclusione di ogni attività di ricerca mostravano una certa soggezione, forse anche perché immaginavano bene, e temevano, i tanti ostacoli che si sarebbero frapposti alla diffusione di certe informazioni e di certe idee.

Mi limitai allora personalmente a dare un cenno della notizia relativa all'esistenza dell'articolo del De Pretto in alcune pubblicazioni a carattere semi-privato, ed essa comparve poi anche in analoghi scritti degli amici Roberto Monti (82) e Stefan Marinov: i soliti articoli 'clandestini', a diffusione fortemente limitata (83), ma proprio per questo tanto più interessanti, e lontani dal sapore di noia e di sepolcro che accompagnano tante pubblicazioni 'accademiche', scritte troppo spesso soltanto per accumulare titoli con i quali reclamare successivamente qualche avanzamento di carriera (o mostrarsi 'in regola' nei confronti di qualche improvviso controllo, o pronti per un'eventuale ope legis, di quelle che consentono all'improvviso e senza troppa fatica progressi di carriera per meriti di anzianità o sindacali).

Frattanto il tempo passava, io ero intensamente impegnato a dare vita ad un'attività di ricerca alternativa che mi vedeva interessato principalmente ad un'indagine sui fondamenti della fisica e della matematica (84), e non potei dedicarmi quindi più di tanto alla questione che pure mi incuriosiva non poco, soprattutto in relazione ai facilmente ipotizzabili 'contatti' del De Pretto con Einstein (o delle idee di De Pretto con Einstein). Una svolta a questo stato di cose si ebbe nel 1990, quando il nostro gruppo di ricerca poté cominciare a giovarsi della collaborazione di un giovane ma già assai valente studioso, Marco Mamone Capria, che vinse un concorso di Ricercatore Universitario presso l'Università di Perugia, dove mi trovavo e mi trovo tuttora a svolgere la mia attività di docente di matematica (di Geometria e di Storia delle Matematiche, per la precisione).

Grazie alle nuove energie infuse nel gruppo dall'arrivo del giovane ricercatore, anche il 'caso De Pretto' cominciò ad essere più attentamente indagato, con l'acquisizione di nuove fonti di informazione, contatti con la fondazione Besso, etc.

Un'altra svolta fortunata fu l'incontro, avvenuto per corrispondenza, con la Dott.ssa Bianca Mirella Bonicelli, una diretta discendente di un fratello dello scienziato di Schio, la quale fu in grado di fornirci presto tutta una interessante documentazione sul suo ingiustamente misconosciuto avo.

Mi trovavo a questo punto abbastanza pronto per 'uscire' ufficialmente con qualche cenno sulla questione, e presentai in effetti, nell'Ottobre del 1990, durante il 76° Congresso della Società Italiana di Fisica che si svolse a Trento, una comunicazione sull'argomento, che cadde però nel più completo disinteresse. Ero, a quel punto del mio personale cammino di ricerca abbastanza maturo da non sorprendermi troppo per questa reazione, anche perché lo stesso destino conobbe una comunicazione ben più importante della mia,
"Breve storia della fusione fredda", del già citato Roberto Monti. Si trattava di un discorso senz'altro maggiormente ricco di spunti e di suggerimenti 'pratici' che non la storia di De Pretto, e quindi di valore non esclusivamente storico o etico, ma che toccava altri argomenti tabù che la comunità dei fisici preferisce ignorare [Mdc]. Del resto, per chiarire al lettore 'profano' il tipo di atmosfera che regna in siffatte occasioni, basterà dire che il Professore che presiedeva una sessione dei lavori della Sezione 10 ("Didattica e Storia della Fisica"), stravolse ad un certo punto totalmente il programma per far discutere prima delle altre alcune relazioni che interessavano in modo particolare lui, aprendo poi un lungo dibattito su di esse, al termine del quale concesse un generoso intervallo per ritemprare le forze dei presenti. Si accorse soltanto alla ripresa dei lavori che restava ormai poco più di un'ora per tutte le rimanenti dieci comunicazioni, e con un sorrisetto di sufficienza e di rammarico (?!) disse che gli dispiaceva molto, ma che avrebbe dovuto da quel momento in poi "usare la scure" per consentire che tutte le relazioni in programma potessero essere tenute. Denunciai l'episodio in una lettera all'allora Presidente della S.I.F., che non mi rispose, e ne parlai con alcuni altri Colleghi che erano coinvolti nelle attività della citata Sezione 10, ma non so con quali concreti risultati, dal momento che non partecipai più ad alcun convegno della S.I.F.

Stando così le cose, cominciai a pensare ad una forma di pubblicità diversa per i risultati di quelle ricerche. In effetti, l'articolo che avevo allora preparato non fu al tempo inviato per la pubblicazione a nessuna rivista specializzata, soprattutto perché Mamone Capria, che aveva ormai preso a cuore la questione, e se ne stava occupando in modo particolare, volle mettere a punto alcuni aspetti di dettaglio, e controllare nuove fonti di informazione che risultarono nei fatti abbastanza difficili da reperire. Trascorse così ulteriore tempo, ed una
stesura abbastanza soddisfacente per tutti, molto cauta e 'diplomatica' anche se forse un po' troppo per i miei gusti personali, ma del resto il Mamone Capria non nutriva la mia stessa avversione nei confronti della relatività - fu pronta soltanto alla fine del 1992.

Qui comincia la parte più interessante di questa cronaca, dal momento che, ancora per caso, quando l'articolo che aveva visto una così lunga gestazione era ormai pronto, e stavamo valutando quale fosse la rivista più adatta a cui proporre una sua eventuale pubblicazione (avevamo già deciso di presentare per la prima volta il lavoro in italiano, e non soltanto per la presenza di ampie citazioni dallo scritto originale del De Pretto, ma anche perché non era del tutto estraneo almeno allo scrivente il desiderio di reagire in qualche modo
al condizionamento culturale monolinguistico imposto dall'uso dell'inglese (85), così prescritto oggi a volte anche con scarse motivazioni da far sentire di vivere in una 'colonia') [Mdc], ci pervenne l'annuncio della prossima uscita di una nuova rivista, diciamola pure XXX, diretta da un gruppo di persone facenti capo all'Università di Roma, molte delle quali conoscevo personalmente, essendo nato in quella città e avendo compiuto lì i miei studi. Nella presentazione della rivista si diceva che "Il giornale è interessato a studi originali di storia della matematica e delle scienze naturali", ed a studi "che combinano considerazioni storiche con considerazioni di tipo epistemologico e sociologico", sicché questa presentazione parve la risposta fatale ed auspicata ai nostri interrogativi.

Messo da parte ogni ulteriore indugio, nel mese di Novembre 1992 inviai al Caporedattore, e mio conoscente da lunga data, una copia del nostro saggio su Olinto De Pretto ed Albert Einstein. In attesa di una sua risposta, e come è d'uso in siffatti frangenti, inviammo un preprint del lavoro ad alcuni amici e studiosi, ricevendo diverse attestazioni di apprezzamento che mi facevano stare tranquillo sull'esito della nostra proposta di pubblicazione alla nominata rivista, anche perché, come dicevo, l'articolo che era stato compilato non conteneva nulla che mi sembrava potesse urtare in modo particolare delle orecchie delicate. Sapevo bene che si era in tempi nei quali esprimere qualche dubbio sulla teoria della relatività, o sulla persona del suo creatore, equivaleva a poco meno che mettersi dalla parte dei responsabili dell'Olocausto, ed avevo quindi evitato ogni accenno che potesse suonare polemico, in ciò facilitato anche dal fatto che il mio coautore non condivideva la mia stessa avversione nei confronti dei fondamenti concettuali della teoria. Ahimé, nonostante gli anni che implacabili trascorrono, e la sensazione di una pretesa acquisita maturità, quanta ingenuità ancora!

Mi piace ricordare esplicitamente tra l'altro uno scambio di idee con il Prof. Pierre Speziali, curatore della pubblicazione della corrispondenza tra Einstein e Besso citata nel relativo precedente capitolo, nella cui prima lettera di risposta era detto che la lettura del nostro interessante studio gli aveva "procurato un intenso diletto", e che si affrettava pertanto ad esprimermi la sua riconoscenza. Nel seguito della lettera, dopo aver riconosciuto che in effetti "se Besso [ne] avesse saputo qualcosa non avrebbe esitato, non fosse altro che per amor patrio, a parlarne a Einstein", si poneva poi la questione: "Se pertanto ciò fu il caso, perché Einstein tacque?".

Non entro qui naturalmente in dettaglio sulla questione fondamentale che la lettera dello studioso francese solleva, anche perché una possibile risposta sul perché, se avesse conosciuto l'ipotesi di De Pretto, "Einstein tacque", si trovava già nel nostro lavoro (ed in questo libro più chiaramente espressa). Dirò soltanto, prima di proseguire con questa cronachetta, che non mi sembra troppo difficile intuire comunque diverse altre ragioni di quell'eventuale 'silenzio', anche se non tutte facilmente accettabili, e/o addirittura concepibili, da parte di coloro che hanno contribuito alla creazione del 'mito Einstein' [Mdc] (86) (non bisogna gettare alcuna ombra sulla persona dei 'santi', e tanto meno sul 'santo dei santi').

Comunque sia, passarono diversi mesi senza che ottenessimo alcuna risposta da Roma, ed arrivata la primavera mi decisi finalmente a chiedere qualche notizia per telefono direttamente alla persona a cui avevo inviato il manoscritto. Mi fu detto che la rivista aveva leggermente fatto slittare l'uscita del suo primo numero a causa dell'insorgere di diversi problemi organizzativi, e che tutto era andato quindi un po' più lentamente del previsto. Fu aggiunto che avrei in ogni caso potuto rivolgermi direttamente al Direttore responsabile della rivista, che pure conoscevo bene personalmente (tra l'altro, nonostante intercorressero tra noi soltanto pochi anni di differenza, ebbi ad essere per coincidenza uno dei componenti della Commissione di un suo esame quando quegli era ancora uno studente a Roma), allo scopo di avere da lui maggiori chiarimenti.

Alla fine di Maggio del 1993 scrissi quindi al Direttore pregandolo di "volermi al più presto informare della sorte" del lavoro che avevo spedito al suo Caporedattore, spiegandogli un poco perché ritenevo l'articolo importante, facendogli tanti auguri per le fortune della nuova rivista, etc. Ricevetti una risposta invero abbastanza sollecita nel mese di Luglio, nella quale si parlava con mia grande sorpresa di "perplessità", sua e di altri non meglio precisati "lettori", in ordine alla pubblicazione del lavoro, vista "l'esilità della relazione molto ipotetica che dovrebbe sussistere fra l'intuizione di De Pretto e lo sviluppo della teoria einsteiniana, che i lettori non ritengono giustifichi la qualifica di 'precursore' data al De Pretto e l'attenzione prestata a questo caso (a parte l'indubbia curiosità che suscita l'episodio). Le tue considerazioni circa i limiti di una visione strettamente oggettivistica della scoperta scientifica sono fondate, ma si ritiene che si debba cercare di evitare il rischio opposto". Replicai abbastanza deluso confessando il mio stupore, e che avevo "l'impressione di aver ricevuto un parere ispirato a conformismo ed a timore di toccare qualche argomento delicato (come la posizione di Einstein nel sacrario della storia della fisica moderna), che non piuttosto una serena scientifica valutazione del testo", e richiedendo quindi esplicitamente che fossero nominati dei referees che dessero un parere ufficiale sulla questione, di modo che, così per la storia (questa storia che sto proprio adesso raccontando), le loro opinioni potessero essere acquisite e giudicate. Informo il lettore che il termine referees indica una sorta di arbitri, presumibilmente imparziali, rigorosamente anonimi, che una rivista sceglie al fine di valutare la validità o meno delle proposte di pubblicazione ricevute. Va da sé, ciascuno può immaginare a quali deviazioni e controlli si possa prestare un siffatto sistema, con il quale si pretende vengano decise in modo democratico ed obiettivo le sorti del progresso della scienza, ma diciamo che forse non c'è di meglio e lasciamo stare (87).

La mia forse un po' troppo ruvida fermezza provocò una nuova replica, nella quale mi si invitava "a guardare con minore diffidenza
pregiudiziale gli altrui giudizi", ma si informava che si sarebbe proceduto alla consultazione di due referees come avevo preteso (un
onere al quale una rivista scientifica con pretese di serietà non può comunque sottrarsi), e controreplica, nella quale ribadivo le mie
posizioni, facevo un discorso appassionato sulla questione delle "censure scientifiche" di cui mi ritenevo ormai un esperto (qualcosa di simile a ciò che il lettore ha avuto modo di leggere fin qui), e concludevo proponendo di invitarmi ad una conferenza (a mie spese, naturalmente) nella quale avrei potuto esporre le mie critiche generali alla teoria della relatività o se si preferiva alle attuali mode di pensiero sui fondamenti della matematica, questione anch'essa collegata alla teoria della relatività come il lettore ha avuto modo di intravedere in qualcuno dei Capitoli precedenti. Così, e si era ormai nell'Agosto del 1993, la prima parte della schermaglia si era conclusa, il tempo passò, e fino al Dicembre del 1993 non accadde più nulla di rilevante.

Prima di procedere oltre desidero sottolineare espressamente, anche se il lettore più scaltrito se lo sarà di certo già immaginato, che non ricevetti alcun invito, né allora né mai, a tenere una conferenza a Roma - dove avevo pure esercitato la mia attività di matematico per diversi anni prima di scegliere una città apparentemente più tranquilla nella quale sopravvivere - sui fondamenti della matematica o della
fisica, pure tra le tante, e non tutte di estremo interesse, che vi si organizzano. Riconosco che ho la debolezza di ritenere che, se fossi stato così nel torto, i 'difensori ad ogni costo' di Einstein e delle impostazioni moderne avrebbero perduto una splendida occasione per sbugiardarmi [Mdc], ma andiamo pure avanti con questa storia.

Il silenzio fu rotto finalmente dall'invio dei pareri dei due "qualificati specialisti" interpellati dalla Rivista quali referees (pareri che qui allego integralmente, dal momento che essi sono come detto anonimi), che mi vennero partecipati con una qual certa costernazione, non disgiunta però da un evidentemente manifesto sollievo: "Come vedi, entrambi i rapporti [...] sono negativi e, per quanto mi dispiaccia
moltissimo, non posso che prenderne atto. Conosco il tuo punto di vista e immagino la tua reazione, ma, per quante critiche si possano fare alla prassi dei referees, non disponiamo di nulla di meglio per far funzionare una rivista scientifica".

Come si vedrà, il lavoro appare in effetti interessante, ben scritto, di piacevole lettura, ma... non basta! I padri premurosi, infatti, si preoccupano sempre del benessere mentale dei loro figli, che questi non siano corrotti dalle cattive letture, e soprattutto che non cadano in pericolosi fraintendimenti quando non sono proprio attentissimi. Molto meglio formare la propria conoscenza su una visione ufficialmente responsabile, uniformemente conformista, largamente condivisa, che non correre il rischio di prendere decisioni con la propria testa navigando per gli incerti pelaghi della molteplicità.

Inviai un mio commento personale nel Gennaio del 1994, sperando che i miei interlocutori credessero "ancora che la discussione tra punti di vista contrapposti, anche se aspra, sia sempre un fatto positivo, ed uno strumento di crescita culturale". Aggiungevo di essere comunque lieto degli apprezzamenti fatti dai referees, e che consideravo comunque quella decisione "una vera e propria operazione di censura" [Mdc], ricordando che "censura significa proprio impedire la diffusione di opinioni diverse da quelle dell'ortodossia, il che comprende anche lo scoraggiare forme alternative di attività e di espressione". Proponevo infine, ed a questo punto ammetto un po'
provocatoriamente, la pubblicazione di un mio altro articolo sulle origini della scienza moderna, per spiegare perché essa avesse caratteristiche così diverse dall'antica (si tratta delle concezioni che ho avuto modo di enunciare poi più estesamente nel già citato libro sul possibile ruolo delle 'società segrete' nella nascita della scienza moderna), rinnovavo l'invito a chiamarmi a fare un seminario a Roma (ancora a mie spese) sull'argomento, "a voce si discute meglio che non per lettera", e concludevo con i miei più cordiali auguri per il nuovo anno, che personalmente speravo avrebbe portato "un po' di rinnovamento anche nel mondo della scienza, oltre che in quello della politica". Naturalmente, da allora da Roma non ricevetti mai più alcun cenno di risposta.

Cosa fare al punto in cui ci eravamo venuti a trovare? (ed uso il plurale in relazione alla presenza del citato coautore di un articolo che è, come già detto, ben lontano dai toni volutamente accesi che ho preferito usare senza alcuna ipocrisia in questo libro). Decisi di procedere con un nuovo tentativo presso un'altra rivista italiana specializzata in storia della scienza, e mi rivolsi allora a YYY: in questo fui veramente ingenuo, non valutando attentamente la circostanza che gli studiosi italiani del settore sono quattro gatti, e che mi stavo quindi per rivolgere praticamente sempre alle stesse persone! Questa volta la risposta arrivò infatti un po' più sollecitamente (era l'Aprile del 1994), e vi si parla di un attento esame di alcuni "studiosi competenti per la materia", dei quali però non viene allegato alcun parere esplicito, secondo i quali, e l'opinione è condivisa anche dalla Direzione, "l'articolo è senz'altro interessante e ricco di spunti; tuttavia
la Sua [e qui il maiuscolo è ovviamente riferito alla mia persona, dal momento che la lettera di cui parlasi era indirizzata a me, e non all'articolo!] proposta interpretativa non appare sufficientemente suffragata da prove documentarie. YYY, al contrario, è solita ospitare articoli assai rigorosamente impostati sul piano storico-critico".

Dopo tanto penare, ecco che la questione si chiudeva così definitivamente almeno per ciò che riguardava la possibilità di vedere pubblicata la storia di De Pretto su una rivista italiana. Ancora una volta il lavoro viene trovato "interessante", ma è bene che i lettori non vengano a conoscerlo poiché mancano "prove documentarie". Ma "prove" di cosa?, di quella che veniva discussa molto delicatamente nel lavoro in questione come niente più che un'ipotesi?, una possibile fonte di ispirazione indiretta per il grande Einstein, che non aveva
certo bisogno dell'umile De Pretto per sconvolgere il mondo con le sue 'rivoluzionarie' teorie? Se fossero esistite le richieste prove documentarie non si sarebbe trattato più di discutere una congettura, bensì una certezza! Del resto, la gran parte dei lavori che vengono pubblicati sulle nostre riviste - come ho già detto spesso in questo libro, soltanto allo scopo di produrre titoli che riescano utili per la progressione della carriera dei loro autori [Mdc] - sono interessanti e ricchi di spunti, sicché... E i lavori degli storici in particolare non sfuggono al giudizio che ne dà Geminello Alvi (88), "Ma del resto io domando: esistono storici di questo secolo, o almeno della Grande Guerra, della Grande Crisi? Quelli che ho letto mancano di fuoco, al più onesti compilatori; archivisti".

Onestà vuole che ammetta che mi sono anch'io giovato in passato per la mia propria carriera della consuetudine che si accetti la pubblicazione di materiale anche poco interessante, purché perfettamente 'nelle regole', e che tuttora vedo immediatamente accettate senza alcuna difficoltà proprio le mie produzioni più scialbe ed incolori - ma, forse, dopo l'uscita di questo libro, neanche più queste, anche se finalmente una volta tanto ciò avverrà almeno per qualche buona ragione!

Ancora una volta mi trovavo davanti all'interrogativo: cosa fare, per non lasciar scivolare definitivamente nell'oblio la persona di Olinto De Pretto, e la sua "idea da pazzi"? Debbo ammettere che, nonostante la mia poca simpatia per i 'circoli anglofoni', ero, e sono ancora, certo che una versione in inglese del lavoro sarebbe stata accettata per la pubblicazione presso qualche rivista specializzata senza le difficoltà incontrate nell'ambiente italiano: non sarebbe stata la prima volta per noi che un lavoro offensivo per le troppe tenere orecchie degli 'accademici' italiani venisse invece trovato interessante senza fare troppe storie all'estero, sicché avevo pensato soprattutto a questomodo di uscire dall'impasse.

Poi, senza escludere naturalmente questa soluzione per un prossimo futuro (il saggio in questione resta a tutt'oggi non pubblicato!), mi venne in mente che forse sarebbe stato opportuno proporre direttamente al pubblico italiano, e sotto la mia personale responsabilità, questo volume, nel quale ho potuto esprimere le mie personali opinioni in modo più franco ed aperto, non nascondendo quel "fuoco" rimpianto dal dianzi citato G. Alvi, e del tutto assente nel pur bistrattato articolo di cui ho rifatto qui la storia. Nel prendere questa decisione ho tenuto anche conto dell'invito che il libro avrebbe potuto contenere a meditare sulle vicende che hanno accompagnato il
tentativo di diffondere attraverso i canali 'ufficiali' della comunità scientifica questo piccolo pezzo dimenticato della storia della fisica moderna; ma non soltanto questo naturalmente, dal momento che questo libro dovrebbe aver permesso di ripensare anche a quell'etere che proprio la teoria della relatività ha distrutto [Mdc]. Oggi l'etere è relegato nel dimenticatoio della fisica, insieme ai vortici cartesiani, al flogisto, al calorico e ad altre pretese assurdità del passato, e forse anche per questo motivo sulle vicende di Olinto De Pretto, e della sua teoria, è sceso il velo del più assoluto oblio. Ma quella dell'etere è una scomparsa davvero definitiva? Per uscire dalle assurdità alle quali ci condanna la fisica moderna [Mdc] non sembra ci sia altro modo che resuscitare quel vecchio cadavere forse troppo frettolosamente sepolto, ed è anche in questa prospettiva che mi è parso di far cosa utile nel riproporre questa vecchia storia, assieme ad una serie di sostanziosi estratti dalla memoria del De Pretto, che vanno al di là dell'equivalenza tra massa ed energia, ma non sono per questo meno interessanti. Tutto ciò anche nell'auspicio di una rivalutazione della fisica qualitativa [Mdc], che non può non accompagnarsi ai freddi ed astratti schemi matematici, privi però di qualsiasi contenuto intuitivo, che oggi vanno tanto di moda, pena un'irreversibile involuzione nel campo della scienza, ed un ritorno questo sì poco auspicabile all'irrazionalismo [Mdc].

Per ritornare alle finalità etiche che questo lavoro si propone, val forse la pena di sottolineare le parole di commento al saggio del De Pretto espresse dal famoso astronomo italiano Giovanni Schiaparelli (in una lettera che è riportata integralmente nell'ultimo capitolo di questo libro). Questi infatti, con il suo intervento a favore dello sconosciuto ma appassionato ricercatore, merita la nostra ammirazione non soltanto per la sua scienza, ma anche perché mette in atto un comportamento ispirato all'unica morale che dovrebbe essere praticata
da qualsiasi persona operi nel campo delicato del progresso della umana conoscenza - una morale le cui tracce sembrano oggi diventate purtroppo sempre più rare.

"Insomma: se sarebbe troppo il dire, ch'Ella ha spiegato le cose come stanno, proprio come stanno, mi pare tuttavia di non eccedere la giusta misura dicendo che Ella ha aperto al nostro sguardo nuove possibilità, la cui considerazione deve essere sufficiente a moderare il tono dogmatico, con cui diversi scienziati, anche di gran vaglia, hanno parlato e vanno parlando della estinzione del calore terrestre, della luce e del calore del Sole ecc.".

Schiaparelli afferma di aver letto l'articolo del De Pretto "con molto piacere"; ed io spero che lo stesso piacere provino anche i lettori di questo libro, la cui pubblicazione avviene come detto anche allo scopo di promuovere quell'opposizione non più ulteriormente dilazionabile al dogmatismo ed alla presunzione imperanti in un ambiente ormai evidentemente ubriacato dal successo ottenuto negli ultimi secoli, ed attualmente gestito da una nuova classe di 'sacerdoti' con metodi che ricordano molto da vicino quelli delle strutture oppressive contro le quali i fondatori della scienza moderna dovettero un tempo lottare (89). È a tal proposito preoccupante che la comunità degli storici della scienza, che in altri paesi svolge per lo più un ruolo sottilmente critico nei confronti dell'ideologia dell'establishment scientifico, in Italia si sia votata - salvo rare eccezioni - alla difesa di quell'ideologia, e che anzi tolleri deviazioni da essa in misura assai minore rispetto alla stessa comunità scientifica [Mdc].

Mi è sembrato così doveroso documentare in modo particolareggiato in questo capitolo un caso evidente di atteggiamento censorio nei confronti di nuove proposte interpretative in alcune questioni che vanno ben al di là della semplice storia della fisica, perché in effetti sottolineare come l'equivalenza massa-energia si possa concepire benissimo, e sia stata concepita, dal punto di vista di una teoria dell'etere è certamente poco comune, ed assai sgradevole ad intelletti ortodossamente relativisti [Mdc]. La documentazione rilevante è tutta nelle mani del lettore (del quale resto a
disposizione per ogni altro eventuale ragguaglio, indicandogli il mio indirizzo qui in calce*): a lui, ora, il giudizio.

 

Note del Capitolo VII

 

(82) Roberto Monti, il ricercatore bolognese di cui abbiamo già parlato, dopo aver attratto l'attenzione con una serie di lavori critici sui fondamenti teorici e sperimentali della teoria della relatività, ha in seguito analizzato la possibilità che l'atomo possegga una struttura ben diversa da quella che gli viene oggi comunemente attribuita, e che siano di conseguenza possibili delle trasmutazioni a bassa energia; vale a dire, passaggi da una sostanza ad un'altra senza che vengano messe in gioco le terribilmente grandi energie con cui soltanto si ritiene finora esse possano avvenire (in altre parole, la vecchia e screditata 'alchimia', con il passaggio del piombo in oro ed altre cose del genere!). Nonostante l'interesse dei suoi studi almeno sul versante storico-critico, si è appuntata anche su di essi la "censura" della comunità scientifica, che non ha evidentemente il tempo di discutere serenamente le proprie certezze [Mdc], come peraltro riconosce 'ufficialmente' il direttore editoriale di una delle riviste scientifiche più prestigiose del mondo, coinvolto in un simile caso (John Maddox, "Has Duesberg a right of reply?", "Nature", Vol. 363, Maggio 1993, p. 109). Per esprimere sinteticamente il punto di vista di Maddox, che è proprio anche di tanti altri scienziati, sono tutti già tanto occupati con le loro ricerche che non hanno tempo di fermarsi per mettersi ad ascoltare i dubbi di qualche critico, per eminente che sia la fonte e per fondati che siano i rilievi. Come dire che chi cerca di rallentare il progresso frenetico della scienza finisce soltanto ed inevitabilmente per fare la parte del 'rompiscatole'.

(83) L'astrofisico Halton Arp di cui abbiamo già parlato, noto anch'egli per i suoi guai con la "censura scientifica" per avere teorizzato contro il big-bang, scrive che "la sola informazione reale comincia ad apparire in giornali alternativi, piccoli pezzi di carta passati di mano in mano, o a voce".

(84) Come punto di riferimento in Italia per studi scientifici alternativi, si può citare in aggiunta ai due convegni internazionali già citati organizzati dal Gruppo di Ricerca "Geometria e Fisica" del Dipartimento di Matematica dell'Università degli Studi di Perugia coordinato dal presente autore, anche un terzo convegno (organizzato con la collaborazione dei fisici 'eretici' Roberto Monti e Stefan Marinov): "Quale fisica per il 2000? Prospettive di rinnovamento, problemi aperti, verità 'eretiche'", Ischia, 1991 (Atti a cura di G. Arcidiacono, U. Bartocci, M. Mamone Capria, Ed. Andromeda, Bologna, 1992).
(85) A questo proposito appare interessante citare il pensiero espresso dallo storico Jacques Le Goff nell'Introduzione a "Le Università dell'Europa" (A. Pizzi Ed., Milano, 1990): "L'Europa della cultura deve essere un'Europa plurilinguistica capace di opporsi al monolinguismo dell'inglese che, forte del peso economico degli Stati Uniti - che non esiste però nel mondo del sapere e della cultura - sembra adatto solo all'Europa degli affari" [Mdc].
(86) Il guaio con queste operazioni di 'beatificazione' è di far sì che la storia della scienza venga scritta spesso con un intento agiografico del tutto fuori di luogo.
(87) In realtà, non è difficile immaginare una serie di 'correttivi' che potrebbero bandire per sempre dal campo i sospetti di forme di "censura": riservare una minima percentuale di spazio alle proposte fuori dai consueti canoni, sotto qualunque aspetto si vogliano questi considerare (anche quello delle imperanti mode formali nella stesura degli articoli, che comunque escludono chi non ha accesso a certe moderne tecniche, quali sofisticati programmi di scrittura, o chi non conosce bene l'inglese, o anche, vivendo al di fuori dell'ambiente accademico, non ne conosce certe convenzioni); pubblicare per esempio solo un estratto dei lavori più controversi (al limite soltanto il titolo e il riassunto, oltre all'indirizzo dell'autore, di modo che eventuali lettori interessati possano rivolgersi direttamente a lui per avere maggiori delucidazioni); avvertire esplicitamente che la responsabilità del contenuto di un certo articolo è esclusivamente del suo autore (anche se dicendo una cosa talmente ovvia si fa torto all'intelligenza del lettore, il quale dovrebbe saper bene che il fatto che uno scritto venga pubblicato non significa ipso facto che esso non contenga errori); aggiungere alla pubblicazione eventuali espliciti commenti negativi del comitato scientifico della rivista, etc., ma il fatto è che la famosa 'comunità' non intende affatto incoraggiare il controllo della validità delle teorie, e la diffusione di informazioni o intuizioni capaci di modificare gli equilibri culturali e le mode di pensiero che in qualche modo qualcuno che si trova in posizione più vantaggiosa di altri vuole invece difendere. E si noti bene che un discorso di questo tipo assume qualche valore in quanto non è riferito ad imprese di carattere esclusivamente privato, considerati gli ingenti finanziamenti dello Stato, e quindi dei cittadini, nell'impresa scientifica in generale, e nella pubblicazione delle riviste scientifiche in particolare [Mdc].

(88) Nel suo straordinario "Dell'Estremo Occidente - Il Secolo Americano in Europa", Marco Nardi Ed., Firenze, 1993, p. 451. Questa edizione appare ormai introvabile, ma il libro è stato recentemente ristampato, anche se non in modo assolutamente integrale, da Adelphi.
(89) Per usare un'espressione di P. K. Feyerabend, dal già citato "Come difendere la società contro la scienza".


 

Umberto Bartocci
Via Gigliarelli
06124 Perugia

bube231@yahoo.it


Perugia, Dicembre 1997 - Gennaio 1998
[Recapito aggiornato al 2006, con l'aggiunta dell'indirizzo e-mail].


Documentazione: i pareri di due referees

 

Rapporto sull'articolo # 21
Albert Einstein e Olinto De Pretto: un
dimenticato precursore italiano
dell'equivalenza tra massa e energia.
 


In questo lavoro viene esposto un tentativo di connettere indirettamente, tramite la presunta mediazione di Michele Besso, l'articolo di Einstein del 1905, contenente l'enunciato dell'equivalenza tra massa e energia, con una precedente memoria di Olinto De Pretto, apparsa nel Febbraio 1904 sugli Atti del Reale Istituto Veneto di Scienze, Lettere e Arti. Il lavoro è ben scritto e di piacevole lettura. Tuttavia, l'assunto principale resta allo stato di congettura, dal punto di vista strettamente storico.

D'altra parte, dal punto di vista fisico, le affermazioni di De Pretto sono di natura completamente diverse dall'equivalenza tra massa e energia secondo Einstein, poiché si riferiscono ad un contenuto energetico dovuto all'energia cinetica delle presunte particelle di etere contenute nel corpo. Questo rende la congettura scarsamente credibile, in mancanza di prove documentarie.

In conclusione, non pare che il lavoro contenga risultati rilevanti, e se ne sconsiglia la pubblicazione sulla Rivista.
 

*******
 

Trovo questo articolo interessante e scritto in modo accattivante. Lo trovo tuttavia insoddisfacente dal punto di vista del metodo. Sarebbe di estremo interesse produrre una prova inconfutabile di qualunque forma di influenza esercitata dallo scritto di De Pretto su Einstein in riferimento al suo primo scritto sull'inerzia dell'energia. C'è tuttavia un'enorme differenza fra la presentazione di una tale prova e l'arguire
che una tale influenza potrebbe esserci stata, dove, per di più, quel "potrebbe" indica proprio il regno della possibilità pura e neanche quello della verosimiglianza.

Stando così le cose, sussiste il pericolo di un pericoloso fraintendimento da parte di lettori non attentissimi. E gli autori non fanno proprio tutto ciò che sembrerebbe necessario per scongiurarlo.

Perché, per esempio, scrivono che "si può argomentare... che, nonostante l'ovvia dipendenza logica (corsivo nel testo) dal primo articolo [Sull'elettrodinamica dei corpi in movimento], il secondo [quello di Einstein sull'inerzia dell'energia ebbe un'ispirazione (corsivo nel testo) in larga misura indipendente, facente capo, secondo linee che saranno indicate nel seguito, ad una figura di scienziato italiano, ecc. ecc."? Chi legge quell'indicativo "ebbe" balza, che lo si voglia o no, a una conclusione univoca, che tutto è tranne che provata.

Che fare allora? Io troverei non privo di interesse uno studio su Olinto De Pretto, nel quale si delineasse il contesto, sociale e culturale, che, diciamo con una certa approssimazione, lo ha prodotto. In chiusura di uno studio con questa caratterizzazione, non troverei affatto scandaloso che si sottolineassero le curiose assonanze (e nient'altro, fino a prova contraria) che un suo scritto ha con un successivo scritto einsteiniano. Trovo, d'altra parte, che gli studi sul contesto in cui fu prodotto lo scritto einsteiniano, così come quelli successivi dedicati allo stesso argomento, non sono ancora giunti, nonostante lo sforzo globalmente compiuto [per una presentazione sinottica, vedi il secondo volume dei Collected Papers di Einstein, alla voce editoriale "Theory of Relativity"] a una ricostruzione soddisfacente. Propongo quindi l'una o l'altra di queste soluzioni: o uno scritto intorno a De Pretto (ma, ovviamente, non posso garantire io a priori il gradimento della rivista), o una ricostruzione integrale (seppure il proposito ha un senso) del possibile percorso einsteiniano verso la E = mc². Non mi sento invece di consigliare la pubblicazione dell'articolo con l'attuale impostazione.

 

 

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