Precetti, halakòt, teologie,

midrashìm e arabismi

 

 

Individuare le contraddizioni della scienza e della cultura e superarle può essere fatto solo da un pensare autocosciente, cioè capace di accorgersi delle contraddizioni in cui si cade scambiando la causa con l'effetto e viceversa. La dialettica antilogica del dire tutto e il contrario di tutto riguarda infatti la scienza odierna e genera credenti in luogo di scienziati. Il credente nella scienza è come chi crede in una qualsiasi confessione religiosa e che, fissandosi per esempio in Einstein (o in Freud, o in qualsiasi altro sedicente scienziato), si comporta come gli antichi del Medio Evo, fissati in Aristotele, in Avicenna (980-1037) o in Averroè (1126-1198), che avevano importato Aristotele in Europa, così che la dialettica di Aristotele era allora inconsapevolmente usata come forma di un contenuto appartenente all'anima islamica. Alla fine del Medio Evo succedeva infatti che anziché osservare la natura, apparisse molto più comodo prendere gli antichi libri di Aristotele e metterli a base di ogni conferenza accademica. Si racconta addirittura (R. Steiner, "Filosofia e antroposofia", Ed. Antroposofica) che un aristotelico ortodosso, invitato ad osservare un cadavere per persuadersi che i nervi non partivano dal cuore, come egli aveva erroneamente creduto di leggere in Aristotele, ma che il sistema nervoso ha il suo centro nel cervello, rispondesse: "L'osservazione mi dimostra che la cosa sta veramente così, ma nei libri di Aristotele sta scritto il contrario, ed io credo ad Aristotele". Assolutizzando l'aristotelismo islamizzato, gli aristotelici erano effettivamente diventati una calamità. Ecco perché la scienza empirica dovette farla finita con questo falso aristotelismo, e richiamarsi all'esperienza pura. D'altra parte, chi parla di scienza credendo di non INTERPRETARE l'esperienza pura cade nell'assolutizzazione opposta escludente l'intuire. Anche in tal modo la scienza diventa un dio da credere. Insomma, non si può NON INTERPRETARE! Non si può NON PENSARE. Ogni cosa percepibile è anche SEMPRE da interpretare. Ogni parola, ogni nozione, ogni respiro, ogni cosa è un simbolo che evoca una parte della realtà, la quale consiste nell'unione di osservazione e pensare, o di oggetto percepibile e di relativo concetto intuibile: l’osservazione di qualunque cosa provoca sempre il mio pensiero, e questo pensare mi indica la via per collegare un'esperienza ad un'altra esperienza. Dunque, chi assolutizza la pretesa che una scienza "rigorosamente oggettiva" faccia scaturire i suoi contenuti dalla mera osservazione, dovrebbe pure pretendere che essa rinunzi del tutto al pensare. Perché il pensare, per sua natura va sempre al di là dell’osservato. Allo stesso modo chi assolutizza la credenza che una teologia possa far scaturire i suoi precetti dalla mera osservazione dei contenuti biblici, dovrebbe pure credere che il Cristo, prima di operare, abbia sbirciato nei vangeli per fare la volontà di dio, anche se i vangeli non esistevano ancora prima di lui. Dunque PRIMA c'è la vita del pensare e POI c'è la scienza o la fede, non viceversa.

 

Affermando il principio della costanza della velocità della luce Einstein fece un'affermazione di carattere tassativo e vincolante, i cui fondamenti di validità non solo dovevano trarre conferma dai risultati "sperimentali" della fisica teorica ma avrebbero dovuto trarli anche da quelli del futuro. In altre parole, egli affermava l'impossibilità che un giorno si verificasse una qualsiasi deviazione da quel principio. La sua asserzione circa l'essenza della luce (fenomeno di per sé sovrasensibile e quindi impossibile a misurarsi, dato che misurabile è solo il mezzo - etere, atmosfera, ecc. - in cui la luce risiede perennemente come ente immateriale e immobile), considerando la sua scarsa giustificazione, poteva essere dichiarata solo come ipotesi. Pertanto, chiamando questa formulazione col suo vero nome (essenza-luce, o ENTE-luce, ESSERE-luce, o lux, ben diversa dall'apparente lumen o lume delle cose: la luce apparente di un oggetto è una qualità dell'oggetto, una sua contingente caratteristica, diversa da quella apparente di un altro oggetto, quindi si tratta di "lumen" non di "lux", come giustamente osserva Ronchi; http://bastamonopolio.over-blog.com/conclusione-della-nuova-ottica-di-vasco-ronchi), sarebbe andata perduta la sua funzione oggettiva, quella di permettere effettivamente l'introduzione del postulato della relatività nella scienza (per intenderci: la medesima relatività intuibile da ognuno e intuita già da Giordano Bruno di fronte all'infinito).

 

Così Einstein dovette convertire quell'ESSERE in un kantiano DOVER ESSERE, farne un principio, detto poi "postulato" (impropriamente in quanto postulare significa "domandare", non "precettare"), che doveva fungere da supporto OBBLIGATO alla costruzione di tutta la fisica relativistica e che, quale filo d'Arianna, avrebbe dovuto servire da guida a ogni futuro sviluppo.

 
Oggi è però notorio che da nessun ESSERE si può dedurre logicamente un DOVER ESSERE (cfr. H. Dingler, "Metaphisik als Wissenschat vom Letzten" [La metafisica come scienza degli ultimi tempi], 1929, cap. 3°), e che quando interviene questo tipo di rovesciamento dei ruoli, si può parlare solo di DOGMA.

 

Va altresì sottolineato che il cosiddetto postulato einsteiniano della costanza della velocità della luce non è nemmeno un vero postulato (se il senso di "postulare" è "chiedere") ma un dogma, appunto, cioè qualcosa che nulla chiede ma che si impone come principio o regola (mai verificata sperimentalmente, dato che non è mai esistita una macchina del tempo). 
 

L'opera specifica di Einstein fu quindi di introdurre, per la prima volta, un dogma nelle scienze naturali, tentando di farne un elemento dominante.
 

Le conseguenze dell'introduzione nella fisica di un elemento così poco scientifico, ovviamente non fecero che generare confusione, rivelandosi distruttive per la conoscenza fino allora acquisita.

L'osservazione dell'attuazione pratica di questo preteso dogmatismo conduce di fatto nella sfera della fede, nella dottrina teologica, nel confessionalismo, ecc., dato che solo in questo ambito si trova qualcosa che spiega tali credenze.

 

La teologia, per esempio, è per definizione "logica di Dio" ("teo"-"logos"). In quanto tale, i teologi, essendo CREATURE di Dio, cioè umani, possono solo interpretarla riducendola a logica umana, a meno che la logica umana e quella divina siano una medesima logica, in cui domini il medesimo Logos. Un teologo però non dirà mai questo, cioè non potrà mai dire che si tratta del medesimo Logos in entrambe, perché ciò significherebbe annullare l'ESIGENZA  ("daràsh", דרש, in ebraico, vedi più avanti) della teologia stessa: se il Logos abita in ogni essere umano significa che in ogni essere umano c'è un'ESIGENZA logica, che in sé è DIVINO-UMANA, cioè umana e divina al contempo. Il teologo, ripeto, non può ammetterlo e quindi ritiene che la teologia sia fattispecie divina solo per il teologo, esattamente come il fisico odierno, quando ritiene che il "postulato" sia fattispecie sperimentale solo per lui, fisico teorico, anche se in realtà l'esperimento solo teorico è un'opinione priva di empiria. 

 

La teologia dunque, per ciò che dice il suo concetto (logica di Dio) non dovrebbe neanche esistere. Invece ne esistono molte e tutte sostenute dai vari teologi. Si potrebbe dire che ogni concetto e idea può avere la sua teologia. Ne cito solo alcune: "teologia della liberazione" (Helder Camara), "teologia della rivoluzione" (Comblin ed altri), "teologia dialettica" o "teologia della crisi" (Karl Bart), ecc.

 

Ciò significa che dal momento in cui io, teologo, al fine di ricercare, scrutare, esaminare e studiare, ma anche di PREDICARE, determinati PRECETTI dottrinali di una teologia, pongo la distinzione tra logica umana e logica divina, che solo io posso spiegarti in qualità di esperto, mi faccio - che ne sia o no consapevole - uguale a Dio stesso secondo un atteggiamento di adeguatezza logica che NON riconosco nel mio prossimo.

 

Questo mancanza di RICONOSCIMENTO del Logos o del Cristo nell'altro-da-me, cioè nel mio prossimo, è però ANTICRISTIANA. La chiesa, in quanto assemblea di cristiani, dovrebbe invece poggiare su tale riconoscimento: "Su questa pietra io costruirò la mia Chiesa...", dice il Cristo. Per due millenni e, purtroppo, fino ad oggi, questa frase è stata usata per giustificare la teologia di un presunto "vicariato di Cristo", cioè dell'"istituzione del Cristo", e mai è stata approfondita da qualcuno. Ciò è avvenuto per un antico retaggio terroristico, cioè per paura, paura del rogo, dell'inquisizione, della tortura, ecc. Ne è un esempio Giordano Bruno, bruciato vivo nel 1600 in Campo dei fiori in Roma. Se però ci si libera dai pregiudizi e si osservano i versetti che precedono quelle parole di Cristo, ci si avvede di un passaggio che contraddice tale teologia del "vicariato". Ecco il testo:

«Disse loro: "Voi chi dite che io sia?". Rispose Simon Pietro: "Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente". E Gesù: "Beato te, Simone figlio di Giona, perché né la carne né il sangue te l'hanno rivelato, ma il Padre mio che sta nei cieli. E io ti dico: Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia chiesa...» (Matteo 16, 15-18).

Queste parole non consentono alcuna TEOLOGIA di un VICARIATO in quanto esprimono una LOGICA DI REALTÀ DEL RICONOSCIMENTO DELL’ALTRO DA SÉ: il Cristo vuole edificare la sua chiesa sul fatto che un uomo (Pietro) riconosce in un altro uomo (Gesù di Nazaret) il "Cristo", e pone TALE riconoscimento quale aureo mattone di fondamento, cioè quell'AUREA PIETRA detta FILOSOFALE, capace di illuminare, liberare e lasciar agire nell'uomo lo sviluppo - come da una "crisalide" - dell'io superiore. Ecco perché in greco le parole "oro", "crisalide" e "Cristo" - "chrysós", "chrysallis" e "Christós" - risuonano tra loro, indicando - perfino nel regno animale - l'elevazione da terra di un animale strisciante, il bruco, che si trasforma in farfalla, librandosi in un elemento superiore, l'aria.

 

Se non si hanno pregiudizi si può dunque intuire che è proprio quel RICONOSCIMENTO (dell'io cristico nell'uomo o del Logos nell'uomo) che avrebbe dovuto essere pietra di edificazione della chiesa di Cristo, chiesa non certo intesa come mera istituzione del Cristo ma come organismo di testimonianze ogni volta rinnovabili. Infatti, proprio in quell'occasione, PRIMA della cosiddetta "definizione apostolica" del primato di Pietro, Cristo dice: "Beato te, Simone, figlio di Giona...", che letteralmente equivale a "figlio della colomba" (in ebraico "jona" significa "colomba") e simbolicamente a "figlio dello Spirito Santo", cioè a uno spirito umano capace di conferire all'autocoscienza chiarezza di pensiero, verità e libertà, che "né la carne né il sangue" possono conferire.

 

Invece le cose non andarono così. Si scambiò il prima col dopo e al solito modo romano si materializzò giuridicamente, mediante "definizione apostolica" il Cristo come ISTITUZIONE, che non può essere in realtà costituita materialmente ma solo immaterialmente, dato che l'io è del tutto immateriale, come lo è il Logos che ne costituisce l'involucro protettivo come perennemente avviene per la crisalide nel regno animale.

 

Tutte le confessioni religiose che parlano del Cristo-istituzione cadono in questo equivoco, dal quale non è immune neanche ogni sinedrio credente nel messia come qualcuno che deve ancora venire. Ciò vale ovviamente anche per ogni sistema di pensiero che neghi la realtà del Cristo come involucro di ogni io umano, per esempio l'islamismo o altre filosofie sedicenti scientifiche.

 

L'esempio del sistema talmudico, paragonabile a quello del confessionalismo cattolico-romano in cui il PRIMA è scambiato col DOPO o la CAUSA è scambiata con l'EFFETTO, permise perciò la precettazione di quanto ancora oggi sorregge la congettura della teoria della relatività einsteiniana, la quale è appunto solo un credo, una fede dogmatica.

 

Per la maggior parte degli ebrei la Torà è la parola divina in assoluto, data direttamente da Dio, rigida e fissa nella successione delle sue proposizioni, il cui contenuto, fino all'ultimo dettaglio. Così è per ogni altra metodologia confessionale di tipo giuridico-romano, islamismo compreso. Per esempio, ciò che il cattolicesimo chiama "comandamenti" ricavati dalla Bibbia, è per gli ebrei espresso dalle "mizvot", plurale di "mizvà".

 

Esistono poi nel mondo ebraico altre prescrizioni morali tramandate oralmente, dette "halakòt", delle quali si afferma dogmaticamente essere implicite nella Torà.

 

Allo stesso modo esistono nelle catechesi cattoliche altri "precetti", per esempio relativi alle virtù teologali, alle virtù cardinali, ecc., cioè a varie "teologie" o a tutta la cosiddetta dogmatica.

 

Per "dimostrare" questa dogmatica i dottori della legge, cioè i rabbini, che per molti versi sono simili a teologi o a filosofi costruttori di ideologie, costruiscono per ogni caso specifico un "midràsh" (o un "tantra" si direbbe nel mondo sanscrito), cioè un METODO tramite il quale le "halakòt", già aprioristicamente accettate, si "dimostrano" essere già contenute implicitamente nella Torà. In tal modo, esattamente come nelle teologie e nei conseguenti doveri o precetti morali, si rovescia la relazione causa-effetto, facendo dell'effetto la causa e viceversa (Karl Georg Kuhn, "Die Entstehung des talmudischen Denken", in "Forschungen zur Judenfrage", vol. 1°, Hamburg, 1937). Da questo punto di vista, ripeto, i vangeli appaiono come causa del cristianesimo o del Cristo, mentre sono ne sono l'effetto.

 

I due concetti, "halakòt" e "midrashìm", ("halakòt" come prescrizioni implicite nel testo divino, e "midrashìm" come metodi per dimostrarle) sono dunque, nella nostra sfera catecumenale, l'esatta corrispondenza dei "precetti" e delle "teologie".

 

Il termine ebraico "midrashìm", מדרשים, plurale di "midràsh", מדרש, che, come ho mostrato, significa metodo di interpretazione e di commento della Torà, contiene la parola "daràsh" (o "deràsh"), דרש, che significa "ESIGERE", "cercare" ed anche "predicare", perché in ebraico "ricercare" e "raccontare" sono sinonimi in quanto interiore percorso evolutivo.

 

Qualcosa di simile abbiamo in italiano nei concetti di conto e di resoconto quando si parla di resoconto biblico, dato che anticamente si avvertiva che la conta dei numeri proveniva dal ritmo - come è rimasto segnalato dal termine "a-RITM-etica", quindi dal tempo, che non era confuso con lo "spazio-tempo" di oggi. I battiti cardiaci, il ripetersi della luce del giorno dopo la notte, il ripetersi delle stagioni, ecc., e tutto ciò che riguardava il concetto di TEMPO, porta in sé proprio l'ESIGENZA della ripetizione, o del ritorno, ritornello, ecc., rientrando così nel concetto di "daràsh", דרש, esigenza, e poi in quello di "cercare" e di "predicare".

 

Ogni ricerca esige infatti il racconto che ne predica i risultati. Perciò il termine "daràsh", esigenza, rientra anch'esso nell'idea di "evoluzione interiore", "cammino interiore", "percorso interiore", ecc., e nell'ebraismo è applicato in ambito legislativo a CONSEGUENZE giuridico-amministrative o "regole di condotta", "prescrizioni", "halakòt" appunto, che sono anche "regole morali", "interpretazioni normative", in fondo doveri. Perciò si parla di "midràsh halakà" se si racconta o si predica una regola giuridica e di "midràsh haggadà" se si racconta un fatto storico della Torà.

 

"Halakòt" è il plurale di "halàk", che significa "camminare", anche nel senso evolutivo di "interiore percorso evolutivo".


I concetti ebraici di "disposizione", "prescrizione, "prescrizione legale", e tutte le cose che riguardano decisioni legali, sono detti "halakòt".

 

Invece i "midrashìm", plurale di "midràsh", sono le varie interpretazioni esegetiche del testo biblico, dovuti alla "ricerca", "deràsh".

 

Mentre il midràsh halakà è diretto a definire la legge, il comportamento e la condotta, il midràsh haggadà ricerca il senso della storia biblica attualizzandola nella raccolta delle varie interpretazioni.

Sapendo ciò, non è difficile riconoscere l'IDENTITÀ FRA IL PENSIERO TALMUDICO (simile per altro a quello della teologia) E I FONDAMENTI METODOLOGICI DELLA FISICA RELATIVISTICA EINSTEINIANA in tutta la sua estensione: mentre là c'è la TORÀ, qui c'è la NATURA col complesso dei suoi fenomeni e delle sue leggi (i cosiddetti effetti) - visti come del tutto indipendenti e isolati gli uni dagli altri, in corrispondenza ad un empirismo senza empiria, cioè meramente astratto. E come là intervengono le "halakòt", qui agiscono i principi e i postulati che, in quanto precetti morali o "comandamenti scientifici", devono essere obbediti e trasmessi.
 

Già da ciò si può comprendere come l'odierna fisica teorica relativistica è simile a una teologia.
 

Per "dimostrare" che le "halakòt" e i "comandamenti scientifici" sono giusti, bisogna che i loro legami con la Torà da una parte, e con la "natura" dall'altra siano instaurati e indicati, così che risultino già impliciti nei versetti o nei fenomeni naturali. Si tratta quindi di approntare un "midràsh", cioè un metodo concettuale o una teologia che permetta di legare formalmente i "postulati" ("halakòt") a qualche fenomeno naturale (le parole della Torà).

 

Nella fisica relativistica questi "midrashìm" (teologie) appaiono col nome di "potenzialità concettuali" o "Denkmöglichkeiten" ed è compito di chiunque voglia aderire alla teoria della relatività - o a sue conseguenze, per esempio il Big Bang dell'astrofisica odierna o ad altre conseguenti teorie formalistiche - adattarvisi.

 

E con ciò entriamo nella materia, per così dire, religiosa o fideistica della relatività di Albert Einstein.

 

Infatti la scoperta del potere implicito di queste "potenzialità concettuali", o per lo meno di una siffatta possibilità, capace di consentire di instaurare un nesso formale tra qualche postulato già enunciato e qualche fenomeno naturale già conosciuto è oggi considerata - anzi, continua ad essere considerata - un grande fatto "scientifico" ("scientifico" fra virgolette ovviamente, almeno per me), dal tempo in cui venne addirittura insignito con un premio Nobel. Le odierne teorie, "teoria dei quanti", "meccanica ondulatoria", "teoria relativistica degli errori", oltre a una serie di molte altre costruzioni intellettuali meno conosciute, impiegano questi "metodi talmudici-barra-cattolici-barra-alias" di legare halakòt (precetti) e Torà (natura) mediante un midràsh o una teologia; cioè creano un legame formale fra postulati(esigenze dogmatiche) ed effetti, applicando le opportune "potenzialità concettuali".

 

Gli inventori di questi schematismi concettuali non si stancarono mai di proclamare che le loro teorie erano affini alla teoria einsteiniana della relatività o derivanti da questa, e nel farlo accantonavano sistematicamente come effetti secondari tutte le discrepanze insorte con la teoria della relatività. Basterebbe, per accorgersene, leggere anche solo le seguenti parole della presentazione di Max Planck a "Determinismus oder indeterminismus" [Determinismo o indeterminismo] del 1938, p. 24, là dove dice: "Un problema grave e urgente attende ancora soluzione: di mettere d'accordo la meccanica ondulatoria con la teoria della relatività".

 

Il problema però non venne mai risolto...

 

Il fatto che su questo punto si impegnarono anche scienziati atei o cattolici, per esempio Planck stesso, Heisenberg, Schrödinger, Jordan, Sommerfeld, Andersen, ecc., mostra chiaramente che questi metodi furono e continuano ad essere usati da ogni confessione religiosa o da ogni ideologia di sinistra, di destra o di centro. Dunque: a far scaturire l'impostazione dei metodi talmudici o teologici o dogmatici di più confessioni o ideologie è il retaggio di tutto l'antico misticismo. Non è il mondo ebraico o quello cattolico, o quello comunista o nazista, ecc.! È qualcosa che l'uomo porta in sé come arretratezza culturale, o come legame alla specie, dalla quale a stento si emancipa come individualità, per esempio la razza, la stirpe, il popolo, la famiglia, il genere maschile e femminile, l'appartenenza a uno Stato, a una chiesa, a un partito, e così via.

 

Non è dunque solo la letteratura talmudica a testimoniare di midràsh e di halakòt, come teorizzò frettolosamente Bruno Türing nel suo libro "Einstein e il Talmud. Il tentativo einsteiniano di scardinare la fisica" (Ed. Ar, Padova 1997), perché OGNI uomo ha le proprie halakòt e i propri midràsh, come paraocchi, che gli impediscono di vedere. Soprattutto ogni uomo aggruppato, il quale, che ne sia consapevole o no, ha in abominio il pensare intuitivo autonomo, o il proprio giudizio critico, e addirittura l'io umano stesso, preferendo all'io la fiducia in qualcuno, o in dogmi di fede, o nel collettivo che lo rassicura.

 

Proprio per questo motivo la fisica teorica e l'einsteinismo presero il sopravvento sulla fisica classica basata sull'esperienza (esperimento).

 

Nel secolo passato, l'apparire di nuove halakòt ("postulati", "principi", regole, ecc.) suscitò sia nell'ambito culturale talmudico che in quello cattolico e di altre confessioni religiose, l'invenzione di sempre nuovi "midrashìm" (sistemi teologici, teologali, rituali, mistici, ecc.).

 

Allo stesso modo nella scienza fisica le già menzionate discrepanze, i problemi, le contraddizioni, i disaccordi e le inesattezze necessariamente insorte dopo la formulazione, spesso inevitabile di nuove "halakòt", cioè nuovi pseudo-postulati, per es., principi di equivalenza e di corrispondenza, principio dei quanti, principio di dualità fra onde e corpuscoli, principio di complementarietà e di incertezza, principio dell'energia, e principio della statistica, provocarono un altro tipo di ricerca: la continua ricerca di altre "potenzialità concettuali". Vale a dire la ricerca del potere per il potere.

 

In questo modo, la letteratura relativistica (la cosiddetta fisica teorica odierna) divenne ipertrofica come quella talmudica o teologica. Così, mentre la fisica classica, vecchia di migliaia di anni, aveva sempre tentato di dispiegarsi nel modo più chiaro possibile, l'odierno "fideismo scientifico", sconfinante nell'oscurantismo della materia oscura o dell'energia oscura (perché è solo di questo che si tratta), si sentì e si sente invece a suo agio là, dove per effetto di una confusione di base, si possa "discutere". Da quando Einstein si impose nel campo della fisica, si creò in questa scienza una situazione simile a quella che si rinviene nella letteratura teologica o talmudica: quando in questo ambito una discrepanza diventa insanabile (come per esempio le due diverse genealogie di Gesù di Nazaret presentate da Matteo e Luca, fatto alquanto strano per il mondo ebraico che sempre tenne in sacra considerazione la discendenza dal sangue; cfr. http://digidownload.libero.it/VNereo/Allucinazioni-evangeliche-e-superamento.pdf), la discrepanza è riportata a dimensioni tollerabili mediante decisione di maggioranza nel "collegio delle autorità rabbiniche riconosciute" (vedi Kuhn, op. cit., p. 79) o in quello teologico del concistoro vaticano.

 

Le autorità oggi riconosciute in campo scientifico sono quelle della sedicente comunità scientifica, la quale rende noto quel dato "postulato" e quelle specifiche "potenzialità concettuali", escludendo da ogni futura discussione qualsiasi altra interpretazione.

 

"In tal modo - scrive a proposito del pensiero talmudico il già citato Kuhn - là, dove le condizioni lo richiedono, si può arrivare ad una regolazione vincolante per lutti, al di sopra delle contraddittorie opinioni delle diverse autorità rabbiniche" (ibid.).

 

E ciò capita oggi perfino in astrofisica. È la "comunità scientifica" a decidere cosa si deve credere o non credere, immaginare o non immaginare, intuire o non intuire, e perfino osservare o non osservare (basterebbe leggere un'opera di Halton Arp per rendersene conto).

A coloro che mi scrivono chiedendomi come una cosa del genere sia stata possibile nella scienza, posso solo rispondere in un modo: l'empirismo ha cambiato natura, si è astrattizzato rendendosi passivo (tradizione lunare). Ciò è avvenuto da quando l'astratto ha incominciato a dominare il concreto in tutti gli ambiti: ambito economico (economia del debito connessa al gioco in borsa a discapito dell'economia reale), ambito giuridico (relativismo giuridico secondo il quale i fatti diventano pareri) e ambito culturale (predominio del discorsivismo e/o del materialismo dialettico).

 

Ecco perché nel XIX secolo l'empirismo passivo divenne la moda, una moda che purtroppo dura ancora oggi. Intendo con questo concetto (empirismo passivo) un empirismo spurio, dato che il concetto di empiria - dal greco "empeirìa" - comprende in sé "péira", che significa "prova"; dunque un'"empeirìa" senza prova sperimentale, tipica del mero formalismo della fisica teorica del 19° secolo, non è altro che un empirismo senza contenuto, o un "empirismo senza empirismo", dunque fasullo (si veda a questo proposito l'approfondimento del concetto di "empiria" nella pagina "Empiria" in cui ho sviluppato "Il Logos della materia", cap. 4° di M. Scaligero, "Il pensiero come antimateria", Ed. Perseo, Roma 1978).

 

La scoperta delle geometrie non euclidee conferì ad Einstein ed alla sua "scuola" (einsteinismo) la possibilità di elevare l'empirismo al livello di una Torà scientifica, essendo Einstein più che scienziato, promotore a tutto campo del sionismo. D'altro canto, dalla pletora delle geometrie non-euclidee Einstein poteva scegliere quelle che meglio gli servivano per la sua metodologia antilogica o per la sua ideologia dell'astratto, anche perché il senso e la natura di queste geometrie occupano un determinato posto nella fisica classica. Tali geometrie furono impiegate come "midrashìm" da Einstein e dai suoi seguaci nel medesimo modo in cui nella letteratura talmudica le deduzioni per analogia sono usate come "midrashìm" ma prive di contenuto nell'uso che ne fece Einstein, prive cioè di "daràsh", דרש, dunque senza la presenza intrinseca di quell'ESIGERE. Il loro contenuto è appunto quell'esigere logico che consente poi di predicare. (Oltre alle geometrie non euclidee, nelle odierne teorie atomico-relativistiche legate alla teoria della relatività sono ancora oggi usati come veri e propri midrashìm privi di contenuto certi tipi di equazioni differenziali ed altri schematismi logico-matematici, che altro non sono che logismo, cioè degenerazione della logica o logica contro l'uomo).
 

Per farla breve: nella sua essenza, la teoria della relatività è NON la nuova conoscenza di qualcosa di finora sconosciuto ma solo un metodo apparentemente logico che, per la sua provenienza e struttura, risulta identico a un midràsh talmudico o a una delle tante possibili teologie o fedi confessionali, filosofiche, o ideologiche, islamismo incluso. Per il singolo, accettarla o rifiutarla è una questione di libera scelta che non può essere però determinata né in un senso né nell'altro sulla base di qualsiasi "esperienza" fisica (esperimento).