La bufala

dell'universo in espansione

 

- a cura di Nereo Villa -

 

L'arte di mentire agli altri poggia sull'arte di mentire a se stessi. Nell'"artificio", la necessità di menzogna è anelito del sub-umano a trasformarsi in bigottismo scientifico etero-gestito da nuova lingua, profeticamente preannunciata nel romanzo del 1948 di George Orwell intitolato "1984" come avvento del doppio pensiero o "bipensiero". Da varie branche della scienza contemporanea, soprattutto einsteiniana, il fenomeno della doppiezza che "copre" i fenomeni attraverso pensieri che non vi corrispondono è divenuto la norma steganocratica (dal greco "stéganos", "copertura") del neo-scriba e del neo-fariseo, denominati dal Cristo "razza di vipere". L'antico praticava il conformismo religioso, il moderno ha cambiato pelle, e pratica il conformismo scientifico, massimamente supportato dalla cultura dell'obbligo di Stato. Lo studente si attiene alla norma occulta (o steganocrazia) perché vede che la menzogna paga, cioè rende buoni voti, dato che così funziona il mondo. Lo scritto seguente, da me curato, è un'eccezione alla regola di questa civiltà della menzogna e fa capo a "IL CODICE CELESTE" di un vero scienziato, Alberto Bolognesi, studioso di cosmologia, astrofilo e operatore in diverse ricerche professionali sui quasar e sulle galassie attive. Ho rimosso dall'articolo alcuni pezzi relativi a Kant, che reputo inessenziali ai fini della comprensione dei suoi contenuti, anche perché sugli errori di pensiero di Kant mi sono già espresso (si veda per esempio la "Favola del lupo Pino"). Ecco comunque il testo originale di Alberto Bolognesi: http://digilander.libero.it/VNereo/La-teoria-dell-universo-in-espansione-non-sta-in-piedi-(A.Bolognesi).pdf per chi voglia confrontarlo col seguente. Consiglio questo suo studio non solo agli esperti (o ai bigotti della "fede scientifica" o del conformismo e/o convenzionalismo scientifici) ma anche a chi è novizio di astrofisica. "Quasar", "redshift, "espansione del cosmo", "multiverso", "big bang", "materia oscura", energia oscura", ecc., sono la "neolingua" di molte menzogne che tutti dovrebbero conoscere per l'affermarsi della conoscenza scientifico-spirituale auspicata da Giordano Bruno, arso vivo nel 1600 a Roma... Buona lettura.

Nereo Villa, Castell'Arquato 6 novembre 2017

 

La teoria non regge
Il monumento al creazionismo assoluto, la teoria del Big Bang, suppone che 14 miliardi di anni fa non ci fosse nemmeno il cielo. Non c'era alcuno spazio, alcuna estensione preesistente, nemmeno uno spazio topologico che potesse contenere anche un solo atomo di idrogeno.
LA MATERIA COSMICA, COSÌ COME LO SPAZIO E IL TEMPO SAREBBERO STATI ASSOLUTAMENTE CREATI DALL'ESPLOSIONE INFINITAMENTE CALDA E DENSA DI UN PUNTO DI RAGGIO ZERO CHE PRECEDENTEMENTE NON ESISTEVA: bomba perfetta e auto-contenuta della genesi che, almeno nelle sue fasi iniziali si sarebbe propagata dall'interno di se stessa a velocità infinita. E l'universo fu.


Questa bufala termodinamica celebrata come una scoperta scientifica e inculcata fin dalle scuole elementari è condivisa oramai da ogni branca del sapere istituzionalizzato, dalla fisica alla chimica, dalla matematica alla filosofia, dall'astronomia alla biologia. È la leggenda metropolitana della Creazione e al tempo stesso la Magna Charta dell'inciucio accademico-cosmologico, che grazie ad un'efficientissima autoreferenzialità ha potuto gestire immense quantità di danaro pubblico e decuplicare il numero degli abilitati alla ricerca. È pur vero che i salari, almeno all'inizio, si collocano poco al di sopra della soglia di povertà ma, come ha rilevato Al Gore, "trent'anni fa gli astronomi nel mondo non erano che una sparuta e improbabile schiera mentre oggi sono legioni di decine di migliaia".
 

Dopotutto, Stephen Hawking, il leader indiscusso dei Buchi Neri, afferma a questo proposito: "Quello che si pretende da una teoria scientifica non è di essere vera o falsa, ma di funzionare". Insomma, dopo un'epopea di rivoluzioni copernicane e di revisioni critiche che avevano fatto balenare la certezza che alcuni errori non si sarebbero ripetuti mai più, la Tecnocrazia del terzo millennio, dopo avere "conquistato" la Luna e lanciato fantascientifiche sonde nello spazio, ha deciso d'ufficio che le teorie furono tutte scoperte scientifiche e che perfino "lo spaziotempo curvo" era una sostanza fisica vera e propria, esplosa dal nulla assieme a tutte le altre forze della natura al momento del Big Bang. Il Cosmo è diventato un avvenimento storico databile e cronometrabile, al di là del quale non c'è più niente da scoprire!

Se qualcuno sul pianeta ha ancora in animo le sorti della scienza e della ricerca astronomica, c'è per lui un interessante sondaggio effettuato di recente in Italia su un campione di studenti quindicenni che accedono alle scuole medie superiori. Il 62% di questi alunni non conosce il motivo che determina l'avvicendarsi del giorno e della notte, ma quasi l'80% del campione sa che l'universo esiste "perché c'è stato il Big Bang".

 

Questo fatto proietta qualche ombra inquietante sugli insegnanti di astronomia sferica di base. I cosmologi possono comunque ritenersi soddisfatti, dato che la grande maggioranza dei giovani intervistati sa come ha avuto origine l'universo (il che implica fra l'altro raffinate nozioni di cinematica, di geometria e di spettroscopia)!!!


Al di là dell'ironia, resta vero che la sfida della globalizzazione ha prodotto effetti aberranti e discipline essenzialmente congetturali come la Cosmologia, favorendo l'uso selvaggio del fudge factor (fattore fandonia, bufala, scienziaggine, ecc.) e dei "parametri liberi". Ne è sorta tutta un'evanescente iconografia di stereotipi e di pseudoconcetti universali ("Big Bang", "origine del cosmo", "multiverso", "espansione del vuoto", "accelerazione dello spazio", "radiazione fossile", "materia oscura, energia oscura", ecc.) che vengono parificati a scoperte scientifiche e che poi la fisica, la microfisica, la biologia, le scienze naturali ma anche la filosofia e la stessa epistemologia (!) sono costrette ad assumere acriticamente da posizioni subalterne. "Sono tutte cagate pazzesche", direbbe Fantozzi con ragione.


L'introduzione forzosa di un'"origine" della materia (Big Bang) ha generato una vera e propria sospensione del metodo scientifico e indotto a una "matrix" incontrollata di soluzioni cosmologiche completamente arbitrarie. Per chi cerca insegnamenti a partire dalla considerazione che quanto più grande è l'errore tanto più difficile diventa ammetterlo, resta un'esperienza sconvolgente che al di là di una certa soglia l'ammissione diventi impossibile.

L'effetto Slipher e l'inverosimile scoperta dell'espansione dello spazio
Ripetere una cosa non la trasforma in una scoperta, e ribadirla per altri mille anni non la farà diventare vera. La storia della "scoperta" dell'espansione dell'universo ha una logica così tormentata e uno sviluppo così inverosimile che se l'astrofisica attuale fosse ancora quel rispettabile magistero dei tempi di Hubble, non solo la "scoperta" non sarebbe mai stata avallata (in effetti non fu mai rivendicata da nessuno), ma alla luce delle successive osservazioni astronomiche avrebbe dovuto essere dichiarata sperimentalmente "falsificata" e quindi smentita. Il commento dello stesso Hubble diciotto anni dopo l'annuncio sensazionalistico del New York Times "We live in an expanding universe" ("
Viviamo in un universo in espansione") è illuminante: "It seems likely that redshift may not be due to an expandin universe, and much of the speculations on the structure of the universe may require re-examination" (E. Hubble, P.A.S.P. 1947) ("SEMBRA PROBABILE CHE IL REDSHIFT POSSA NON ESSERE DOVUTO A UN UNIVERSO IN ESPANSIONE, E MOLTE DELLE SPECULAZIONI SULLA STRUTTURA DELL'UNIVERSO DOVREBBERO ESSERE RIVISTE").

Tutto incomincia nel Novecento, quando la spettroscopia diventa prassi della ricerca astronomica e viene applicata a quegli oggetti estesi, definiti come "nebulose a spirale", la cui natura e collocazione attendeva ancora di essere compresa. Il rilievo è forse un po' ingiusto perché a dispetto di autorevoli prese di posizione, alcuni ricercatori già avevano operato la distinzione fra nubi gassose e grandi isole stellari parteggiando apertamente per una collocazione esterna di queste ultime alla Via Lattea. È facile dire oggi che il problema era essenzialmente strumentale dal momento che a quel tempo la risoluzione in stelle non era alla portata dei telescopi ottici se non per la grande spirale in Andromeda: è vero infatti che alcune nebulose propriamente dette hanno forme ellittiche e spiraliformi talvolta così ben definite che senza un'analisi spettroscopica sarebbero sempre in grado di imbarazzare anche un astronomo esperto.


Nel Novecento erano finalmente gli strumenti materiali ad avere il coltello dalla parte del manico. Le prime analisi spettroscopiche furono quelle effettuate da Vesto Melvin Slipher (1875-1969), un metodico astronomo dell'Indiana che lavorava presso il Lowell Observatory di Flagstaff in Arizona. Ai tempi di queste prime misurazioni di Slipher, gli astronomi avevano già imparato a determinare gli effetti Doppler conseguenti ai moti casuali di avvicinamento e di allontanamento delle singole stelle e quello periodico delle stelle doppie: e si attendevano di poter stabilire proprio attraverso queste analisi-bufala le dinamiche tipiche di un'altra bufala, quella della nebulosa primordiale teorizzata nel Settecento da Kant e da Laplace.

 
Slipher ottenne gli spettri di un piccolo campione di "nebulose spiraliformi". Vi riconobbe, sì, le evidenze della rotazione, come si attendeva, ma constatò anche un inatteso spostamento della posizione tipica dei dettagli energetici verso la zona rossa dello spettro elettromagnetico. Con la sola eccezione della spirale in Andromeda che esibiva un rilevante moto di avvicinamento, le tredici "nebulose" da lui selezionate avevano imponenti "slittamenti" delle configurazioni spettrali verso le grandi lunghezze d'onda, che in qualche caso avrebbero comportato "velocità di fuga" intorno ai duemila chilometri al secondo! Relative o assolute, velocità del genere per oggetti materiali così estesi sembravano al di là di ogni immaginazione: "qualcosa in grado di coprire distanze superiori ai due milioni di miglia all'ora..." borbottò Slipher sconcertato alla platea dell'American Astronomical Society del 1914.


Slipher, va riconosciuto, faceva le sue ricerche preliminari con un telescopio di 60 centimetri di apertura e determinava i suoi spettri lavorando esclusivamente sulle righe violette di assorbimento H e K e del calcio ionizzato che riusciva a fotografare. Continuò a prendere spettri e a stimare "velocità" di altre spirali per i dieci anni successivi. Finì poi per collaborare con Hubble.

L'effetto Hoyle
È rilevante notare che già al tempo delle prime misurazioni di Slipher, dietro le orme degli errori di Kant e di Laplace, venivano delineandosi tutte le tematiche che avrebbero prodotto la cosiddetta "cosmologia deduttiva moderna". Tali tematiche erano essenzialmente quattro includendovi anche la meno gradita, quella secondo cui gli elementi della tavola periodica avrebbero potuto non coincidere necessariamente con quelli del lontano universo.


La prima soluzione più invitante pareva di gran lunga quella di una recessione sistematica delle galassie, le une dalle altre, assimilabile all'effetto Doppler secondo una dinamica che evocava un'espansione cosmica e che suggeriva un aumento costante del raggio dell'universo. Ancor prima che gli astronomi scoprissero l'esistenza dei modelli teorici del meteorologo russo Friedman (che li aveva elaborati intorno al 1918) all'oscuro dell'effetto Slipher, e che dunque aveva mancato la clamorosa predizione di un redshift sistematico verso il rosso di tutti gli oggetti cosmici), fu facilmente intuito che se le galassie si allontanavano radialmente le une dalle altre, doveva esserci stato un tempo nel lontano passato in cui erano state invece vicinissime, così vicine che tutta la materia dell'universo avrebbe potuto trovarsi concentrata in un sol blocco. Già prima del 1920 era subito balenato che il cosmo avrebbe potuto avere un "inizio" e proprio per questo un'origine storica che forse era perfino possibile datare sperimentalmente.
 

La seconda soluzione, sicuramente più radicata nell'epistemologia del momento e che assegnava infinità spaziale e temporale all'universo, rendeva increata e indistruttibile la materia cosmica. Inoltre non ammetteva facilmente che da rilevazioni in fin dei conti locali si potessero estrapolare decisioni sull'universo nella sua globalità.

 

Lo stesso Einstein che era permeato di questi fondamenti, non ci si adattava, pur ricavando la sua rivoluzionaria Teoria (1917) da un universo increato e imperituro, essenzialmente statico. In questo secondo scenario furono soprattutto i contributi di Max Born, Walter Nernst e Findlay-Freundlich fra gli altri, a suggerire la possibilità che il fenomeno misterioso dell'arrossamento spettrale delle nebulose derivasse da meccanismi di assorbimento o di decadimento energetico della radiazione luminosa. La divulgazione ha sempre trascurato di ricordare le attenzioni di Hubble, Lundmark, Campbell e poi Zwicky e tanti altri verso questa soluzione alternativa della "luce stanca", che sembrava aggredire l'intangibile principio di conservazione. Ma già ai tempi delle osservazioni pionieristiche di Slipher, la "tired light" ("luce stanca") comprendeva una possibile variante che invece di considerare l'assorbimento energetico della propagazione elettromagnetica nell'attraversamento del mezzo cosmico, contemplava la possibilità che il tempo, cioè "l'antichità della radiazione luminosa" operasse su scala cosmica un'azione progressiva e sistematica di dispersione energetica.
 

Un'altra congettura del tutto indipendente dall'effetto Doppler o dalla "luce stanca" si ispirava alle scoperte di Frederik Soddy che, nel 1913, immaginò l'esistenza di un numero pressoché illimitato di"isotopi" nell'universo. Questa possibilità dal sapore un po' metafisico e che prospettava una tavola periodica infinita anticipava in realtà l'ipotesi di uno spostamento verso il rosso intrinseco in un universo statico, che verrà abbozzata da Fred Hoyle agli inizi degli anni Settanta e poi in seguito riformulata assieme all'astrofisico indiano Jayant Narlikar all'interno del modello cosmologico in espansione dello Stato Stazionario. Si tratta di una breve descrizione dal valore storico straordinario, perché la divulgazione scientifica ha sempre negato che Hoyle abbia preso in considerazione universi a metrica statica. Ne riportiamo alcuni passaggi essenziali perché forniscono con disarmante semplicità una descrizione del redshift intrinseco senza ricorrere alle teorie dell'espansione dell'universo e in grado di spiegare tutte le anomalie che sono poi emerse dall'osservazione.

«Sebbene il punto di vista sia qui diverso da quello convenzionale - precisava Hoyle - le considerazioni sono esattamente equivalenti a quelle di un universo in espansione. L'idea alla base del concetto di massa si può esprimere così: per calcolare la massa di un corpo si contano quanti atomi ciascuno dei diversi tipi esso contiene. Si associa poi un numero a ciascun tipo di atomo: 1 alla forma più semplice, l'idrogeno, 12 al carbonio, 16 all'ossigeno, 56 al ferro e così via. Addizionando tutti i risultati intermedi si trova la massa del corpo. L'atomo di idrogeno ci ha dunque fornito l'unità di misura fondamentale per questo calcolo. La questione che ora ci si pone è se l'atomo di idrogeno sia sempre lo stesso, in qualsiasi galassia di qualsiasi parte dell'universo esso si trovi. Come potremmo arrivare a sperimentare un'eventuale differenza? Ecco una possibile verifica: la luce che proviene da una lontana galassia si propaga attraverso lo spazio giungendo infine ai nostri telescopi in un tempo dato. Sebbene la luce viaggi molto velocemente, è necessario un lungo intervallo dal momento che quella galassia è molto lontana: se dista ad esempio un miliardo di anni-luce, quella luce impiegherà un miliardo di anni per arrivare a noi. Ma un miliardo di anni è un tempo così sconfinato se rapportato a noi da obbligare a domandarci se gli atomi di idrogeno presenti in quella galassia un miliardo di anni fa fossero assolutamente identici agli atomi di idrogeno che troviamo oggi sulla terra. C'è un modo per saperlo? Certo, esaminando e comparando la luce dei diversi atomi di idrogeno: se quelli che ci giungono adesso da tanto lontano hanno masse diverse da quelli locali, la luce che hanno emesso un miliardo di anni fa e che noi riceviamo ora nei nostri telescopi, DEVE AVERE COLORE DIVERSO DALLA LUCE EMESSA DAGLI ATOMI DELL'IDROGENO CHE VIENE INVECE PRODOTTA NEI NOSTRI LABORATORI TERRESTRI. Questo ci fornisce un metodo per verificare direttamente la realtà dell'effetto: il tipo di cambiamento, uno spostamento della luce verso il rosso, noto come redshift, indica che le masse degli atomi di idrogeno di quella lontana galassia erano intrinsecamente diverse, ed erano minori almeno in tempi precedenti ai nostri» ("Highlights in Astronomy", F.Hoyle, 1974).

Riletta a 34 anni di distanza, la teorizzazione di uno spostamento verso il rosso intrinseco, indipendente da qualsiasi effetto dinamico conseguente a un espansione dell'universo, mantiene inalterati il suo fascino e la sua portata. Non ci dimostra, a rigore, che la massa dell'idrogeno varia necessariamente col tempo, ma che la massa dell'idrogeno costituente quella galassia può essere
quantitativamente DIVERSA dall'idrogeno di cui è formata la nostra materia locale. Ci dice che la massa delle particelle DI QUELLA MATERIA differisce dalla massa delle particelle DELLA NOSTRA materia locale, suggerendo ancora che almeno in apparenza le masse e le costanti fisiche potrebbero essere correlate al tempo e che nel passato le particelle subatomiche - e in particolare gli elettroni - avrebbero potuto corrispondere a masse minori. Non elimina la possibilità che indipendentemente dal tempo la massa di un elemento che forma un oggetto nell'universo possa essere diversa da quella di un elemento analogo che ne costituisce un altro. L'ipotesi degli isotopi senza fine che attraversò la mente di Soddy avrebbe forse potuto contemplare che un elemento più leggero fosse necessariamente sempre il più antico? Poteva mai esserci un tempo oltre il quale tutta la materia puramente e semplicemente smetteva di esistere?

Luce stanca, pseudo Doppler e spazio... che cresce
Dunque tutte queste ipotesi, e in particolare la "stravagante" possibilità che l'universo potesse avere avuto un'origine, erano già sotto i riflettori all'inizio degli anni Venti. Non si spiegherebbe diversamente l'irresistibile ascesa al Monte Wilson dell'ex avvocato Edwin Hubble, che fra i suoi molti meriti ebbe anche quello di fiutare l'importanza del momento e quindi di trasformare la ricerca astronomica in una spettacolare avventura dal sapore faustiano. Quando nel 1919 decise di andare alla montagna proprio nel momento in cui il nuovo telescopio Hooker di due metri e mezzo d'apertura entrava in servizio, Hubble aveva già il suo programma e il suo destino tracciati sul palmo della mano sinistra. Grazie a Slipher sapeva già cosa cercare, ma sapeva anche come imporre i suoi impegnativi obiettivi alla comunità scientifica.


Il nome di Hubble è perciò legato a quella che la divulgazione guascona chiama "la scoperta scientifica più sensazionale di tutti i tempi: l'espansione dell'universo".

 

Per chi comunque non intende confondere le ipotesi con le scoperte ci sono per fortuna, oltre alla memoria storica, le relazioni firmate dallo stesso Hubble che documentano chiaramente ogni sua riserva rispetto a questo scenario "speculativo".


È vero che fu lui a svilupparlo e ad ideare assieme ad altri collaboratori metodologie e test sempre più impegnativi per la determinazione delle luminosità delle galassie, ma va riconosciuto il criticismo che non lesinò mai e la grande onestà con cui ammise - almeno rispetto ai suoi tempi - l'impossibilità di pervenire a una decisione fra l'idea di un universo statico e quella di un universo in espansione. Perfino nella sua ultima relazione pubblicata postuma riconobbe la possibilità che lo spostamento spettrale potesse derivare da cause del tutto sconosciute.

 
Effetto Doppler o "luce stanca", c'era tuttavia una cosa su cui Hubble non era disposto a fare sconti e questa era la relazione che lui definiva "empirica" fra il redshift e la distanza: creato o eterno che fosse (verso la fine della sua non lunga vita Edwin Hubble non nascose le proprie simpatie nei confronti della nascente teoria dello Stato Stazionario), l'universo delle osservazioni testimoniava una relazione lineare fra la luminosità apparente di un oggetto e la quantità del suo spostamento verso il rosso.

 

Su quel punto (e solo su quello) Hubble era disposto a giocarsi la credibilità professionale che si era costruito. Questa dimostrazione non fu però mai alla portata di Hubble e quando morì d'infarto nel 1953, le galassie da cui si erano ricavati gli spettri erano appena qualche centinaio; nella stragrande maggioranza si trattava di oggetti abbastanza vicini che non superavano la distanza dell'ammasso della Vergine.

 

Il fisico premio Nobel Steven Weinberg aveva dichiarato:

«Come poté annunciare fin dal 1929 una relazione tra il redshift e la distanza con dati così manchevoli è uno dei grandi misteri di cui è costellata l'astronomia".

E in effetti uno sguardo alla comunicazione con cui Hubble sostenne "una relazione fra la distanza e la velocità radiale delle nebulose extragalattiche" la dice lunga sulla possibilità di scorgere una linea progressiva fra i pochi punti che vi compaiono. Sarebbe ingeneroso elencare le galassie citate nello studio del '29 o in quello successivo del 1931 firmato con Humason, che includeva altri 50 spettri e che tuttavia hanno ufficializzato nientedimeno che... l'espansione dell'universo. Il capitolo non scritto a quasi un secolo di distanza - e di cui gli studenti di astronomia contemporanea non hanno il minimo sentore - è che i milioni di ore osservative effettuate in seguito hanno eliminato la possibilità di ottenere "candele standard" affidabili dalle galassie a causa della loro grande varietà. E che con l'eccezione di una ben nota classe di spirali denominata Sb, NON C'È MAI STATO UN BRANDELLO DI PROVA CHE LE GALASSIE IN GENERALE SI DISPONGANO SU UNA QUALCHE "RETTA DI HUBBLE". Quando si trovano oggetti della medesima luminosità apparente e dello stesso tipo ma con spostamenti verso il rosso molto diversi, sono automaticamente assegnate dimensioni assolute molto diverse e lo stesso si conviene quando si vanno a comparare galassie di luminosità apparente assai diversa ma con il medesimo spostamento verso il rosso: quel che alla fine rimane è solo un generalizzato incremento di redshift al diminuire della luminosità apparente (cioè al crescere della magnitudine) che non consente mai con certezza di tradurlo in una distanza.

 

SENZA IL FATTORE DI AGGIUSTAMENTO CHE È DIVENTATO SCANDALOSO IN ASTRONOMIA EXTRAGALATTICA, SEMBRA CHE NON SIA POI CAMBIATO GRAN CHE DAI TEMPI DI IPPARCO. Certo, oggi disponiamo di un'acutezza visiva straordinaria grazie alla tecnologia: ma come discernere gli oggetti intrinsecamente deboli da quelli lontani? Come distinguere i nani dai giganti sullo sfondo inafferrabile del cielo? (Lo svedese Gunnar Malmquist, 1893-1982, ha invocato una "distorsione osservativa", bias, che prende il suo nome e per la quale la luminosità media degli oggetti molto lontani deve apparire maggiore in quanto i membri meno brillanti sarebbero troppo deboli per poter essere rilevati e conteggiati).
 

Questo è stato sempre IL problema dell'astronomia remota. Come commentò una volta il famoso astronomo olandese Jan Oort: "They mistakenly mix together objects of widely different luminosities" ("Per errore fanno ampiamente un mix di oggetti di diversa luminosità").

Crolla tutto
Ma la confutazione dell'espansione dell'universo non è venuta dall'irrealizzabile accertamento delle magnitudini assolute degli oggetti deboli. Vero è invece che a forza di ricavare distanze dai redshift, si dovettero accettare luminosità equivalenti a quelle di migliaia di grandi galassie per oggetti con diametri dell'ordine delle ore-luce, oltre a un imbarazzante tipologia di sistemi stellari le cui dimensioni eccedono di dieci volte e più quelle che fino a ieri venivano indicate come "galassie supergiganti". È anche vero che queste girandole mostruose dovrebbero produrre cumulativamente da un minimo di 5 a più di 50 supernovae all'anno che poi nessuno vede: ma non va dimenticato che a partire dagli anni Novanta, per regio decreto dell'astronomo inglese Martin Rees, tutte le galassie sono state equipaggiate con efficientissimi "buchi neri supermassicci al centro" in grado di fornire le luminosità e le masse necessarie. Beh, non proprio tutta la massa... perché
PER POTER CONDENSARE LE GALASSIE DAL MAGMA PRIMORDIALE DEL BIG BANG E OTTENERE L'UNIVERSO CHE SI OSSERVA, OCCORREREBBE UN'ULTERIORE QUANTITÀ (CHE NON SI TROVA) PARI A NOVANTACINQUE VOLTE QUELLA "LUMINOSA" CHE SI RIVELA NELLE CONDIZIONI REALI. Gli ammassi di galassie in allontanamento reciproco somiglierebbero dunque a pesantissimi e invisibili lampadari di materia "esotica e oscura", "trasparente allo spettro elettromagnetico", in cui le sole cose che vi si vedono sarebbero le luminosissime "lampadine" che vi starebbero avvitate dentro.
 

La falsificazione di questo arbitrio senza precedenti nella storia della scienza e della filosofia della natura, che inventa luminosità incommensurabili per oggetti cosmici lontani indotte da efficientissimi buchi neri al centro e dinamiche non-kepleriane alla periferia (impartite queste da immense ciambelle di materia "esotica" e invisibile, "anelli caustici" e quant'altro), era però clamorosamente disponibile da molto tempo. È diventata chiara quando i cosmologi hanno dovuto ammettere che le galassie non precipitavano in un "iperspazio" vuoto a partire da una specie di cratere dell'esplosione, ma che era invece lo stesso spazio intergalattico a espandersi dall'interno di se stesso.
 

Questa precisazione è fatale per l'interpretazione ortodossa dello spostamento verso il rosso e fu presagita dallo stesso Hubble già prima del 1929 quando tentò - con un colpo di bacchetta magica - di tramutare le distanze delle sue galassie in velocità radiali. Non più un effetto Doppler di allontanamento relativo, ma un fenomeno fisico "universale" determinato dalla dilatazione progressiva dello spazio stesso e non dal moto sistematico degli oggetti cosmici attraverso lo spazio. Le conseguenze sono drammatiche: intanto le galassie non sviluppano più velocità di recessione e quindi moti propri che incrementerebbero le loro masse inerziali, cosicché vengono a cadere tutte le presunte dilatazioni temporali relativistiche (time dilations) che sono alla base della determinazione di distanza delle supernovae lontane. E con esse, ovviamente, le correzioni che si applicano sistematicamente a redshift di valore superiore a z = 0.1 (per inciso il valore z = 1, che per la cinematica classica coincide con quello della luce e che spettroscopicamente è oltrepassato anche di un fattore 7, innescò in passato una polemica molto aspra fra fisici e cosmologi dal momento che il superamento della velocità della luce di fatto non avveniva mai).
 

Nei termini più semplici la recessione cosmica ha dovuto essere riformulata come un'azione di "stretching" ("allungamento") costante e progressiva che lo spazio in espansione trasmette ai dettagli spettrali della radiazione luminosa che lo attraversa (o da cui è attraversata?!). Cioè il redshift cosmologico deve determinarsi mentre la luce è in viaggio e non a causa di movimenti relativi all'atto dell'emissione della sorgente o al momento della ricezione allo spettrografo (che sono invece la base degli effetti Doppler canonici). Inoltre, per mantenere l'accordo con le osservazioni, questo spostamento spettrale non potrebbe formarsi mentre la luce viaggia all'interno degli ammassi ma esclusivamente nello spazio esterno che li divide, e che è il solo a cui possa essere attribuita la proprietà di dilatarsi.


La catastrofe è subito evidente: perché uno spazio possa "stirare" i dettagli della radiazione luminosa (e in generale di una propagazione elettromagnetica), si deve assumere che il vuoto o il "falso vuoto" fra gli ammassi di galassie aumenti progressivamente le sue proprietà metriche, proprio come se nuovo "vuoto" o "falso vuoto" venisse introdotto o pompato di continuo dall'esterno. Insomma, si deve forzosamente assumere che sia "il vuoto in espansione" a interagire e quindi a trascinare con un processo LENTISSIMO le configurazioni della radiazione luminosa e non la radiazione luminosa proveniente da un oggetto lontano a riflettere ISTANTANEAMENTE il moto dello spettrografo solidale alla nostra Galassia e all'espansione dell'universo nel momento in cui quella luce conclude il suo viaggio penetrando nella fenditura!


Per fissare questa Waterloo teorica che non assegna più alcuna velocità alle galassie
MA UNA VELOCITÀ ALLO SPAZIO, lo stretching elettromagnetico delle propagazioni che lo attraversano deve tradursi in un trasferimento reale delle energie associate alle frequenze NEL SENSO DI UNA CESSIONE FISICA ALLO SPAZIO IN ESPANSIONE. È una vera e propria reductio ad absurdum che liquida quasi un secolo di falsa cosmologia e di astrofisica inadeguata.

 
Va ricordato anche che la pretesa dilatazione dello spazio adottata come ultima spiaggia dai bigbangers necessita non solo di una creazione continua di vuoto o falso vuoto DAL NULLA ma, come vedremo, perfino di una sua ACCELERAZIONE. Questo implica che "il pasto gratis" invocato dal teorico Alan Guth non sia mai finito, oltre a innescare una serie di irresistibili ironie intorno alla "costante" di Hubble (H0 = 72 km/sec. ∙ Mpc) (Mpc = Megaparsec, misura di distanza astronomica, corrispondente a un milione di parsec, cioè a 3.260.000 anni-luce) che qui non esamineremo. Ma è facile calcolare che se un milione di anni-luce (cioè una sezione di spazio vuoto equivalente alla distanza che la luce percorre in un milione di anni) cresce al ritmo di ventiduemila metri al secondo in un milione d'anni, un anno-luce (cioè circa 9460 miliardi di chilometri di spazio) dovrà crescere dopo un anno di ventidue millimetri al secondo e così via.

L'universo delle osservazioni
"Può sembrare perfino bizzarro - scrive l'astronomo all'indice Halton Arp - che io abbia dovuto lottare così duramente per affermare l'appartenenza dei quasar alle galassie con più basso spostamento verso il rosso, quando è sempre esistita una prova fotografica diretta della loro connessione" ("Quasars Redshifts and Controversies" H. Arp 1987, in italiano "La contesa sulle distanze cosmiche e le quasar", Jaca Book 1989). Queste evidenze osservative che si sono moltiplicate fino a diventare numericamente esorbitanti, continuano ad essere ostinatamente negate e sacrificate sull'altare della "creazione dell'universo" per scelte che sono certo ideologiche, ma in parte anche "politiche" ed "amministrative".


Fino alla scoperta dei quasar avvenuta fortuitamente nel 1963, l'interpretazione dello spostamento verso il rosso degli oggetti extragalattici si concentrava preferenzialmente su due soluzioni: l'effetto Doppler "cosmologico", che certificava con la recessione delle galassie la data di nascita del Cosmo e le (due) versioni alternative della "luce stanca", ipotetici processi di dispersione energetica della radiazione luminosa in grado di salvaguardare la staticità dell'universo e quindi la sua stessa eternità. Concezioni anche epistemologiche contrapposte a cui se ne affiancava un'altra, definita "metafisica" da alcuni, e che considerava il redshift extragalattico
UNA QUALITÀ INTRINSECA DELLA MATERIA UNIVERSALE, le cui proprietà restavano ancora da comprendere. Quest'ultima, lo abbiamo detto, era di gran lunga la meno accreditata perché poneva anche una pesantissima riserva sulla capacità di estrapolare dalla nostra fisica locale quella dell'intero universo.


Ma c'era in ballo un motivo addizionale e un'opportunità assai più invitante che gli addetti ai lavori avevano subito intuito: quella dell'agognato indicatore di misura che sempre era mancato all'astronomia di osservazione, e che le aveva impedito di fissare in termini di
PROFONDITÀ l'apparente "piattezza" cosmica. Con la determinazione del redshift l'impossibile diventava improvvisamente possibile: bastava far passare la luce di una remota galassia attraverso un prisma e fotografarne l'arcobaleno, confrontarlo poi con quello della luce prodotta in laboratorio et voilà, ecco servita la distanza e la prospettiva! Sembrava un sogno: o si accettava il sortilegio o ci si autocondannava all'incertezza eterna. In allontanamento o in equilibrio che fosse, effetto Doppler o luce stanca, quella flebile manna arrossata con i colori dell'iride pareva consegnarci su un piatto d'argento il metodo per stabilire la distanza e le dimensioni degli oggetti cosmici. Bastava crederci e l'astronomia extragalattica non sarebbe stata mai più una scienza impossibile. Chi avrebbe rinunciato a saltare su quel treno a stelline in partenza per l'universo per restarsene in sala d'aspetto a girare i pollici con un equivoco quanto inutilizzabile spostamento verso il rosso "intrinseco"?


La prima ondata di panico la produsse però la scoperta dei quasar, che rivelò strabilianti quantità di redshift nella loro instabile luce e che se tradotte in termini di distanza gli avrebbero conferito luminosità ed energie favolose, dell'ordine di... 1047 erg/s. Prima ancora di collocarli alla distanza dei loro spostamenti spettrali come si faceva ormai sistematicamente con le galassie, l'astronomo Maarten Schmidt ebbe una storica e preliminare esitazione nell'accreditare "velocità radiali" a questi quasar, confessando alla moglie che forse "stava accadendo qualcosa di terribile in astronomia". Evidentemente anche la sua mente non fu immune dal timore di un redshift indipendente dalla distanza e dalla velocità.

Abbiamo appena riferito dei motivi che hanno portato i cosmologi a intraprendere un'inverosimile "dilatazione progressiva della metrica del vuoto extragalattico" e quindi a forzare il collasso della plausibilità teorica di universo in espansione: ma poiché il sistema accademico aveva già ufficializzato l'apertura di credito a favore dello "spazio che si dilata", è presumibile che la sua necessaria revisione verrà gestita in tempi lunghi e senza scossoni nell'arco di uno o due secoli [Alberto Bolognesi dice "di un decennio o due", ma io sono più pessimista - ndc] visto il progredire del bigottismo scientifico, soprattutto nel web e fra i giovani a cui è stato lavato il cervello.
 

Nel frattempo i grandi astronomi che avevano ragione, primo fra tutti l'americano Halton Arp, allontanato da Monte Palomar nel 1983, privato dell'uso dei più grandi telescopi e ostacolato dal sistema dei referee (arbitri) nella comunicazione dei suoi risultati sui giornali professionali, chiuderanno le loro esistenze terrene dalla parte del torto.
 

Lo scandalo degli ULX, sorgenti X compatte e ultraluminose che sono state rilevate in gran numero in prossimità dei nuclei e fra i bracci delle galassie, è sotto gli occhi di tutti. Oggi la società scientifica è come il re nudo che nella favola di Andersen mostra il suo indecente culo senza che nessuno tradisca il minimo disagio! Infatti queste intense sorgenti X sono state subito indicate come stelle che orbitano vorticosamente intorno a mini-buchi neri, "simili a prede che si dibattono prima di arrendersi all'inevitabile cattura gravitazionale" e denominate "black hole binaries". Trattandosi di stelle (e mini-buchi neri), nessuno mette in dubbio la loro appartenenza alle galassie a cui risultano associate, MA DOVE È STATO POSSIBILE ESAMINARE SPETTROSCOPICAMENTE LE LORO CONTROPARTI OTTICHE, QUESTE BINARIE SONO POI RISULTATE QUASI ESCLUSIVAMENTE QUASAR AD ALTO REDSHIFT!!! Se è vero che affermazioni straordinarie richiedono prove straordinarie dovremmo concludere che in cosmologia non ci sono mai prove abbastanza straordinarie per smentire affermazioni straordinarie.

 
L'annessione dei quasar alle galassie come oggetti piccoli e poco luminosi, non visibili alle grandi distanze e caratterizzati da alto spostamento intrinseco verso il rosso è un passaggio decisivo per ricondurre l'astronomia extragalattica nell'alveo di una scienza empirica. È già largamente alla portata della ricerca amatoriale, che con strumenti ben superiori ai 50 centimetri di apertura e con tecnologia assai progredita potrebbero facilmente fornire un contributo conclusivo.

NGC4319 e il quasar Markarian 205
Il caso di NGC4319 e del quasar Markarian 205 non è che uno dei tanti, ma è emblematico anche in virtù della sua lunga e paradossale storia. Fu segnalato per la prima volta nel 1970 da un astronomo armeno che cercava oggetti "caldi" nell'ultravioletto e che si imbatté in un quasar molto vicino al bordo di una contorta galassia, la spirale NGC4319. Gli spettri furono determinati in seguito da un altro ricercatore che ricavò un valore corrispondente a un moto di allontanamento di 1700 km/sec per la galassia e di ben 21000 km/sec per l'oggetto quasaroide catalogato Mkn 205. Poco dopo l'astronomo Arp decise di esaminare da Monte Palomar e con la migliore risoluzione possibile l'intera configurazione, mettendo in luce una debole connessione luminosa fra il quasar e la galassia; la connessione fu confermata con altri telescopi, ma poiché questo avrebbe demolito inesorabilmente l'interpretazione cosmologica del redshift, si convenne ad una posizione ufficiale in cui "l'apparente" connessione era dovuta alla sovrapposizione prospettica della distribuzione di luce di due oggetti "in realtà" lontanissimi tra loro.


In seguito la connessione venne constatata con maggiore dettaglio per mezzo di nuove tecniche di processione delle immagini e poi ancora, nell'imbarazzo generale, dalle prime sortite dell'Hubble Space Telescope che evidenziò un ponte di materiale che si estendeva senza soluzione di continuità dalla galassia fino ad avvolgere l'oggetto di Markarian. Infine, nel 2002, un'organizzazione associata alla NASA fece circolare con grande risalto la stampa di una nuova fotografia dell'Hubble, annunciando stavolta la definitiva confutazione della connessione. Era un'immagine insolitamente scura, sulla quale però un gran numero di persone segnalò la presenza di una debole ma inequivocabile connessione ottica: aumentando semplicemente il contrasto poi, compariva la medesima struttura materiale già osservata con i telescopi a terra, più un sottile e luminoso filamento che si insinuava all'interno della connessione e che precludeva qualsiasi possibilità di accavallamento prospettico tra NGC4319 e Mkn 205. Ciononostante, nessun astronomo influente si sentì di commentare il comunicato o di confermare l'assenza di ogni connessione, mentre furono numerosi quelli che ne rivendicarono l'apparente struttura filiforme "pur non essendo assolutamente in grado di dire o di decidere che cos'è" (J. Sulentic).
 

NGC7603
Agnostici riguardo alle connessioni luminose di oggetti con redshift discorde ma deterministici rispetto alla materia invisibile, i teorici dello spazio in espansione non hanno alcuna intenzione di arrendersi a evidenze galileiane fuori moda.
 

Il secondo esempio che mostro, tratto da una casistica che ormai è diventata sterminata ("Catalogue of Discordant Redshift Associations", H. Arp, Apeiron, Montreal 2003), prende in esame due galassie che non possono trovarsi vicine per accavallamento prospettico. Sono collegate da un incontestabile braccio di polveri e gas che si sviluppa dal grembo di NGC7603A e che termina esattamente in NGC7603B avvolgendo completamente quest'ultima "come una palla in una calza" (H.Arp). Ma i redshift sono rispettivamente z = 0.029 e z = 0.057, che corrisponderebbero a velocità di recessione di 8700 km/sec per la galassia A e a 17000 km/sec per la galassia B. Usiamo a buon diritto il condizionale dal momento che due oggetti legati da un filamento di materia diffusa non potrebbero recedere a velocità così diverse e di certo non a causa dell'espansione dello spazio. Né si potrebbe adottare l'ipotesi alternativa della "luce stanca", perché in un sistema binario che evidentemente si trova alla stessa distanza, la luce prodotta in B non avrebbe alcun motivo di "stancarsi" più della luce che ci proviene da A. QUALUNQUE SIA LA NATURA DEI LORO DIVERSI SPOSTAMENTI VERSO IL ROSSO, QUEGLI SPOSTAMENTI DEVONO ESSERE PRODOTTI ALMENO IN PREVALENZA DA QUALCOSA DI COMPLETAMENTE DIVERSO DALLA DISTANZA O DALLA VELOCITÀ.


È di grande importanza anche sotto il profilo storico ricordare che furono proprio queste due galassie a dare alimento alla "teoria della massa variabile" di Fred Hoyle. "This concept appears necessary - disse nel corso della sua Russell Lecture di Seattle (1972) - if we are to understand the result reported by Arp for the galaxy NGC7603 and its appendage"
("Questo concetto sembra necessario se stiamo capendo il risultato riferito da Arp per la galassia NGC7603 e la sua appendice"). Arp ricorda che al termine di quella conferenza lui e Hoyle furono avvicinati dal collega Martin Schwarzschild (astronomo, figlio del celebre Karl, teorizzatore della metrica intorno ai buchi neri), che sbottò: "siete entrambi completamente pazzi" ("Reserch with Fred", H. Arp, 2003).

 
L'implicazione era che NGC7603A doveva aver partorito e poi espulso la compagna B: il più alto redshift di quest'ultima era dovuto alla minore massa delle particelle di cui B, evidentemente più giovane rispetto ed A, era costituita (massa variabile). Se poi nemmeno il redshift di NGC7603A era "cosmologico" ma dipendeva invece dal tempo di apparizione di A rispetto alla nostra Galassia... allora la relazione di Hubble, la "fisica nota" e tutta la cosmologia ne uscivano stravolte. La comunità astronomica fece quadrato intorno a queste "fughe dalla realtà" (A. Sandage): da quel momento nessuno si sarebbe più fidato delle stravaganti idee di Fred Hoyle o delle imbarazzanti osservazioni di Arp. Ma come ignorarle? Un conto era la disputa intorno a teorie eccentriche e un conto era respingere lastre fotografiche ed evidenze strumentali: se quei bracci, quei filamenti, quelle connessioni luminose fra oggetti con spostamenti verso il rosso così diversi erano reali, si sarebbe dovuto ammettere che c'era un'altra causa nella formazione del redshift delle galassie che non aveva a che fare né con la distanza né con la velocità.

 
Si aprì quell'inevitabile stagione di scontri fra il punto di vista maggioritario e i suoi pochi oppositori la cui narrazione non rientra negli scopi di questo articolo, ma che confinò fra l'altro Fred Hoyle alle ricerche domiciliari in Cornovaglia e portò al licenziamento di Arp da Monte Palomar che poi, escluso dal giro dei grandi telescopi, esiliò come ospite non retribuito al Max Planck di Garching presso Monaco di Baviera. Trent'anni dopo tuttavia, il tempo galantuomo tornò a colpire, pesantissimo, quell'imbarazzante configurazione di galassie. Furono due giovani astronomi dell'Istituto delle Canarie che con un telescopio di media apertura, il vetusto Nordic Optical Telescope di 2,6 metri ma con uno spettrografo d'avanguardia, ritornarono a occuparsi di quella "pericolosa" connessione. C'erano immerse due condensazioni luminose già descritte da Arp nel 1971, una delle quali non puntiforme, che adesso era finalmente possibile esaminare in spettroscopia: Martin Corredoira e Carlos Gutierrez avevano pensato a plasmoidi gassosi avvolti nel filamento che unisce le due galassie A e B con redshift discorde, o anche a due ammassi globulari; e si può facilmente intuire il loro stato d'animo quando dagli spettri di queste due piccole condensazioni emersero invece le larghe, compatte linee di emissione tipiche dei quasar e delle galassie HII, con redshift z = 0.391 e z = 0.243!

Adesso all'interno del filamento che connette NGC7603 alla sua compagna B con redshift altamente discorde, venivano ad aggiungersi due oggetti di tipo quasar con redshift ancora più alti e che confermavano in modo ancor più drammatico e impressionante tutta la linea evolutiva della massa variabile abbozzata da Hoyle nel 1972. Corredoira e Gutierrez (2002) calcolarono che la probabilità totale di accavallamento prospettico di tutti questi oggetti allineati nel braccio di NGC7603 era all'incirca 6x10-13, ma tutte le richieste di ulteriori indagini con il Very Large Telescope (VLT) e con il satellite orbitante Chandra che opera nei raggi X, furono laconicamente respinte dagli Allocation Committees che controllano le più avanzate apparecchiature dell'astronomia osservativa.

Altre grane dal Quintetto di Stephan
Il caso straordinario di NGC7603 in cui due galassie connesse da un filamento che ospita anche due oggetti di tipo quasar finiscono per formare un collier di
QUATTRO REDSHIFT DIFFERENTI, ALLINEATI E INTERVALLATI ENTRO POCHE DECINE DI SECONDI D'ARCO, non è... nemmeno unico! Ancor più di recente uno spettacolare gruppo di galassie in interazione, il celebre Quintetto di Stephan, già noto per avere due membri con spostamento discorde, è tornato alla ribalta per via della scoperta di un ULX quasar centrato praticamente sul nucleo di una delle galassie (NGC7319) del gruppo. È solo un'altra delle ormai innumerevoli associazioni fra quasar e galassie, ma qui "il caso" ha evidentemente inveito su una configurazione di redshift discordi per la quale ci si accapigliava già dal 1960.
 

Alberto Bolognesi stesso, autore di queste testimonianze, fu coinvolto nella dinamica di questa scoperta: il merito va ad uno studente di fisica dell'Università di Lecce, che si divertiva nelle pause dei suoi studi a riprocessare le immagini più suggestive dell'Hubble Space Telescope. Esaminando le fotografie ad alta risoluzione del Quintetto di Stephan integrate a una mappa in raggi X ottenuta dall'astrofisica Ginevra Trinchieri col satellite Chandra, il giovane Pasquale Galianni aveva notato che una forte emissione X evidenziata dal Chandra aveva una controparte ottica ben visibile nelle immagini dell'Hubble. Si presentava come un puntino luminoso a meno di 8 secondi d'arco dal nucleo della galassia tipo Seyfert NGC7319, al culmine di una propaggine gassosa di forma allungata, che si stagliava molto nitidamente come se si trovasse davanti al nucleo denso e polveroso della galassia.
 

Che cos'era?


Galianni inviò a Bolognesi le immagini in questione con cortese preghiera di esaminarle. Bolognesi lo fece con entusiasmo riprocessandole alle diverse lunghezze d'onda e gli rispose che secondo lui quello era un quasar, ma che sarebbe stato necessario un grande riflettore e uno spettrografo di ultimissima generazione per stabilirlo. Bolognesi informò direttamente Halton Arp e pregò Galianni di contattarlo personalmente. Dopo molte indecisioni e qualche ripensamento che andava dall'"artefatto" a una possibile "binaria con buco nero", Galianni si affidò all'interessamento di Arp (che ad onor del vero aveva notato in modo indipendente il punto luminoso sul jet a forma di V vicino al nucleo di NGC7319) e che poi, grazie all'instancabile collaborazione della professoressa Margaret Burbidge, sfociò in un positivo interessamento dell'osservatorio Keck I, il gigante di 10 metri d'apertura che poggia sul vulcano spento del Mauna Kea alle Hawaii, a 4 mila metri d'altezza.


Il "pallino" fu risolto l'anno seguente in un ULX quasar con redshift z = 2.114 nel quale spiccava la carenza di assorbimenti nelle configurazioni spettrali, assorbimenti che ci si sarebbe invece dovuti attendere in modo massiccio se il quasar si fosse trovato nel lontano sfondo, DIETRO al disco della galassia. Dopo il solito balletto dei referee (arbitri) lo studio fu finalmente pubblicato sull'Astrophysical Journal nella primavera del 2005 da Margaret e Geoffrey Burbidge, Halton Arp, V. Junkkarinen e S. Zibetti, con lo studente Galianni che vi apparve a pieno titolo come primo firmatario.


Il clamoroso caso fu discusso poco dopo dalla stessa Burbidge davanti a una stizzita platea al Convegno della Società Astronomica Americana di Atlanta. In Italia ottenne qualche tiepida menzione su un giornale a grande tiratura e su un paio di riviste di divulgazione, ma dopo un paio di battibecchi il quasar "Galianni" fu rispedito rapidamente alla sua distanza cosmologica e i padroni del mondo decisero che brillava dall'abisso di miliardi di anni-luce attraverso il disco oscurante della molto più vicina NGC7319.

La temperatura del cielo
Ma il tema su cui la fiction ha esercitato la pressione più selvaggia è senza dubbio quello della temperatura dello spazio. Prima ancora che la cosmologia stritolasse l'astrofisica, si era sempre supposto che lo spazio cosmico dovesse produrre una temperatura causata dalla radiazione delle stelle. Al di là di alcuni equivoci epistemologici sulla natura del "vuoto", il punto della discussione verteva sul significato di "temperatura media" e di temperatura "locale", che in una distribuzione di materia mai perfettamente uniforme sembrava non aver ragione di coincidere. La temperatura dello spazio non poteva evidentemente essere la stessa nei dintorni di Mercurio o di Plutone, all'interno di un ammasso globulare o in un punto a caso della Via Lattea, né verosimilmente negli spazi intergalattici dove la densità delle galassie, che quasi sempre si presentano in gruppi, non è mai esattamente la stessa. Restavano così solo gli immensi spazi aperti, l'ambiente extragalattico che separa un ammasso dall'altro, ma anche qui non era chiaro definire le grandi e le piccole separazioni, i loro "spessori" e la loro "incidenza".


Dopo gli aberranti insegnamenti provenienti da Kant-Laplace, la temperatura ASSOLUTA dello spazio appariva come un valore metafisico più che fisico e al di là dell'ovvia impossibilità di una sua determinazione strumentale non locale, una quantità "media" espressa in kelvin associata allo spazio o al vuoto "in generale", appariva strampalata se non addirittura burlesca dal momento che l'universo poteva anche essere infinito. Tutte le temperature in fondo dovevano essere locali: espressioni come "corpo nero dell'universo" furono per molto tempo derise o considerate completamente prive di senso.
 

In uno scritto del 1896 il premio Nobel Charles Edouard Guillaume sostenne che la semplice radiazione delle stelle avrebbe dovuto produrre una "temperatura di fondo" di 6,1 K°, mentre l'espressione "temperatura dello spazio", già ricorrente dai tempi di Laplace, venne ripresa più analiticamente da Arthur Eddington che calcolò per il mezzo interstellare un valore di 3 K° ("Internal Constitution of the Stars", A. Eddington, Cambridge, 1926 ). Altre stime effettuate sui raggi cosmici da Erich Regener nel 1933 e da Walter Nernst nel 1937 fornivano una "temperatura dello spazio" di 2,8 K°, che fino agli inizi degli anni Cinquanta veniva tutt'al più estesa e fatta coincidere con quella "mediamente" presente nella nostra galassia.


Ancora, una serie di osservazioni spettroscopiche del cianogeno di A. Mc Kellar intorno al 1940 implicavano una temperatura del materiale interstellare di circa 2,3 K°, mentre un gruppo di radioastronomi giapponesi e poi il russo T. Shmaonov nel 1957 avevano già constatato un "fondo" di radioonde intorno alla lunghezza d'onda di 3,2 cm. Quest'ultimo concluse che quella radiazione emetteva fotoni come un materiale che si trovasse alla bassissima temperatura di 4±3 K°.


Questi riferimenti sono importanti perché è necessario ribadire che tutte le misurazioni facevano capo ad un "fondo" diffuso NON TEORICO, la cui provenienza non sforava quello della nostra Via Lattea e che comunque in nessun caso si sarebbe preteso di poterla estendere a tutto l'universo. Del resto gli stessi Arno Penzias e Robert Wilson che sono accreditati della scoperta della radiazione di microonde a 2,7 K° avvenuta nel 1964 (e insigniti 14 anni dopo del premio Nobel), usavano la loro strana antenna a corno per misurare l'intensità delle radioonde emesse dalla nostra stessa galassia.
 

Bisognava avere la fantascienza nel sangue per pretendere che i due radioastronomi della Bell Telephone stessero captando l'eco dell'esplosione che dette origine all'universo (Dike R., Peebles P. J. et al. ApJ, 142, 414 ): ad ogni buon conto il fisico di origine ucraina George Gamow aveva predetto sulla base del modello del Big Bang una temperatura residua fino a 50 K° già prima del 1961. Andrebbe poi ricordato anche che, in spregio ai dati qui elencati e a ciò che effettivamente trovarono Penzias e Wilson, tutti i calcoli successivi continuavano a prevedere valori tra i 30 e i 10 K°.


Se l'astronomia extragalattica diventerà una scienza rigorosa, bisognerà pur riconoscere che CON TUTTO L'UNIVERSO A DISPOSIZIONE la possibilità che la temperatura circostante dello spazio captata con antenne al suolo e con satelliti orbitanti intorno alla Terra sia "il fossile congelato della Creazione" non è molto più fondata di quella di chi pretende dopo il 1821 di essere Napoleone Bonaparte.

 
Secondo copione, infatti, il valore registrato dall'antenna di Penzias e Wilson, al netto dello sterco di piccione di cui era imbrattata, non deve aver nulla a che fare con le temperature dell'universo attuale: è invece la reliquia sottostante della Genesi cosmica che emanò dal nulla sotto forma di palla di fuoco (Big Bang) e
CHE CI ARRIVA IN DIFFERITA DALLA CREAZIONE DEL TEMPO E DELLO SPAZIO.


Tecnicamente è un termometro anzi un numero (1010) diviso per la radice quadrata dell'età dell'universo espressa in secondi.


Per chi ci crede, le infinitesime fluttuazioni intorno al valore di 2,7 K° rappresenterebbero i grumi del gas primordiale incandescente nel momento in cui precipitò sotto il peso della propria gravità per dare origine alle prime stelle e QUINDI alle prime galassie. Le micro-anisotropie riscontrate strumentalmente vengono lette come "picchi Doppler" conseguenti all'espansione dello... spazio, sotto forma di oscillazioni acustiche prodottesi nel fluido ancestrale fotone-barione: avrebbero viaggiato per 13 miliardi di anni prima di raggiungerci dal fondo dell'universo. Queste sensazionali "informazioni" celate nelle microonde hanno fruttato un Nobel per la fisica ai ricercatori americani Smooth e Mather, nel 2006.


Per chi invece non ci crede, la radiazione a 2,7 K° non è che la temperatura dell'"ambiente" circostante proveniente da tutte le ETERICHE direzioni del cielo. Un commento che Fred Hoyle non mancava di ripetere, riassume efficacemente questo secondo punto di vista: "Un uomo che si addormenti sulla cima di una montagna e che si svegli in mezzo alla nebbia, non pensa che sta guardando la nebbia dell'origine dell'universo. Pensa solo di trovarsi nella nebbia".

La domanda che tanto imbarazza gli spettroscopisti di quasar e galassie presunte "primordiali" non risparmia i radioastronomi del fiat lux a microonde:
C'È FORSE UN EFFETTO DOPPLER CHE SI CREA NELLA RADIAZIONE DEGLI OGGETTI LONTANI ANCOR PRIMA CHE QUESTA TOCCHI I NOSTRI SPETTROGRAFI ANCORATI AL MOTO DI ESPANSIONE DELL'UNIVERSO? O SI TRATTA DI UNO SPOSTAMENTO NON RELATIVO, SCONOSCIUTO IN FISICA, CHE ATTINGE REALMENTE ENERGIA DAI PACCHETTI D'ONDA MENTRE QUESTI PERCORRONO LE DISTANZE COSMICHE, LA CUI SUPPOSTA DILATAZIONE NE RIDURREBBE MAN MANO LE FREQUENZE ALLUNGANDO LE LUNGHEZZE D'ONDA?


Ho già sottolineato che un redshift INTRINSECO già presente al momento dell'emissione dalla sorgente (Arp) sia il solo in grado di spiegare efficacemente le anomalie messe in evidenza dall'osservazione. Ma poiché questo affosserebbe la cosmologia e presumibilmente buona parte della fisica del XX secolo, i preposti dell'Empireo hanno deciso di ignorarle e di ribattezzare "pseudo-Doppler" il fenomeno dello spostamento sistematico verso il rosso degli oggetti extragalattici. Senza peraltro precisarlo, e anzi guardandosi bene dal farlo: le passwords come ho mostrato sono "stretching elettromagnetico" e "stretching dello spazio" che allora delle due l'una: o significano nuova fisica oppure non significano nulla. Qualunque cosa "si stiri", o che cosa "intervenga a stirare" gli spettri degli oggetti cosmici, evidentemente non è né effetto Doppler né "pseudo-Doppler" e meno che mai un fenomeno di assorbimento o di interazione progressiva direttamente legato alla distanza, perché è in tal caso oggetti alla stessa distanza non potrebbero avere spostamenti verso il rosso molto diversi come invece è testimoniato da un gran numero di casi tratti dall'osservazione astronomica.


In attesa che l'effetto Arp sia finalmente accolto fra i fatti empirici, l'espansione del vuoto, del "falso vuoto" e dell'intero universo, tutta questa scienziaggine continuerà a reggersi sull'equivoco del non meglio precisato redshift cosmologico.

Big Science
L'ideologia è il cavalcavia del reale. In astronomia ha stravolto le osservazioni, ha inventato buchi neri supermassicci, materia oscura, energia oscura, particelle esotiche, luminosità impossibili, spazi che si dilatano e che accelerano, deflagrazioni dal nulla, universi paralleli e multiversi a bolle. "Che cos'altro se non un'esplosione cosmica potrebbe aver prodotto l'universo e la radiazione fossile di fondo?": questa DEMENZA CIRCOLARE che i cosmologi ripetono ossessivamente ai loro adepti elimina la possibilità che una teoria dell'Inizio possa ragionevolmente costituirsi come disciplina scientifica. Si può solo vagheggiare una "CREAZIONE DAL NULLA" ottenendola piano piano o con un gran botto da un inaccessibile oltre.


Ciò espone inevitabilmente la scienza e i suoi fondamenti all'"orrido" del creazionismo, cosicché sono stati elaborati alcuni correttivi dialettici atti a evitare l'autoconfutazione. Scrive in proposito il tuttologo Piergiorgio Odifreddi in uno dei suoi ultimi best sellers: "... il Big Bang è da intendersi come un inizio non assoluto, ma relativo. Non a caso (?) esso è perfettamente compatibile con le attuali teorie che ritengono il nostro universo e il suo Big Bang solo uno dei molti, e non escludono affatto la possibile "eternità" del vuoto quantistico dal quale i vari Big Bang potrebbero non essere altro che più o meno insignificanti fluttuazioni ..." ("Perchè non possiamo essere cristiani", P. Odifreddi, Longanesi 2007).
 

Magnifico! L'universo del Big Bang, locale e contingente, uscito dai dadi del falso vuoto e plasmato dalla selezione naturale, proverrebbe poi da una sottostante eternità che nessun accidente sarebbe mai in grado di giustificare. Una specie di fucina incorruttibile e senza tempo da cui vanno e vengono raffiche di insignificanti Big Bang e sciami di universi bolla... Non c'è davvero bisogno di infierire su baciasanti e transverberati per condividere tutta la stessa drammatica evanescenza del "laicismo scientifico" quando a sua volta pretende di cimentarsi nelle risposte ultime! Pretesa che qui è resa ancor più cruda dalla scelta accademica di Odifreddi, costretto ad avallare il creazionismo cosmico (Big Bang) con l'ossimoro per eccellenza della casualità e della contingenza, cioè UN'ETERNITÀ INOSSIDABILE e trascendente che se ne starebbe là da sempre e per sempre.
 

Ancora più spassosa è però l'ironia implicita nella "casa delle bolle", dove un'infinità di universi locali con leggi e costanti fisiche "personalizzate" fluttuerebbero sul tappeto verde del falso vuoto. Nella versione estesa dei multiversi possibili, infatti, dovrebbero pur trovar posto anche gli imbarazzanti universi senza espansione di Arp, dove i quasar sono semplicemente espulsi dai nuclei delle galassie e dove il redshift degli oggetti cosmici è causato dalla variabilità della massa delle particelle di cui sono costituiti. A meno che le speculazioni dei cosmologi non vietino per statuto al multiverso o all'eternità in persona di formare universi di Arp!...


Se vale la pena spendere qualche parola sugli universi paralleli e sul multiverso a bolle spacciati ormai come Big Science e anzi utilizzati come palestre di pensiero dalle facoltà di filosofia, la caccia agli "alter ego" (universi, soli, pianeti, forme di vita e doppioni di noi stessi) è stata dichiarata ufficialmente aperta dal cosmologo del MIT, Max Tegmark. Egli afferma che la distanza spaziale media dal più vicino "noi identico" è calcolabile in circa 10 elevato a 1029 metri, e che anche per merito del lavoro "accurato" del fisico quantistico David Deutsch, si può ritenere che non un solo Max o un solo David, ma un'infinità di copie identiche di noi stessi stanno leggendo questo articolo, mentre altre del tutto analoghe e infinitamente numerose non l'hanno ancora letto o non lo leggeranno mai.


Alla base di questa che il politico italiano Walter Veltroni chiamerebbe "coriandolizzazione" della fisica, c'è un argomento di natura matematica riassunto dal prolifico ricercatore Paul Davies. Il suo libro "Cosmic Jackpot" (edito in Italia dalla Mondadori col titolo "Una fortuna cosmica", P. Davies, 2007), che si potrebbe ben dedicare a chiunque desideri abbandonare per sempre la fisica e la cosmologia, lo riassume eloquentemente: "La probabilità che una sequenza di 1000 teste si presenti tra i 1080 atomi durante l'intera vita dell'universo è ancora inferiore a una su 10200... ma se viene lanciato un numero infinito (??) di monete, mille teste di seguito si otterranno con assoluta certezza. L'infinito batte qualunque probabilità, per quanto avversa, e in realtà mille teste di seguito non capitano una sola volta, ma un numero infinito di volte!".


Poiché Davies non può essere così scemo, bisognerebbe dire che è bravo. Ma anche così, che significato può avere l'affermazione che per ottenere una sequenza di mille teste - o un'infinità di sequenze di mille teste - si richiede un numero infinito di lanci o, equivalentemente, un tempo infinito? Chi dispone di un'infinità di lanci o di un tempo infinito? Le infinite probabilità di trovare un pianeta identico con un identico me stesso che abiti in una casa identica di un'identica città - dovrebbe dire Davies - si trovano nel dominio delle quantità infinite. Ma così, probabilmente, i suoi lettori capirebbero ...

Il creazionismo ateo
Il famoso zoologo Richard Dawkins ritiene di aver provato definitivamente l'inesistenza di Dio nel quarto capitolo del suo ultimo libro ("L'illusione di Dio", R. Dawkins, Mondadori, 2007). Si appella a "un darwiniano risveglio della coscienza" per liberare il pianeta dall'opprimente illusione di Dio e intende farlo con i testi di Darwin e con quelli, non meno autorevoli, che lui stesso ha scritto. Ne fa quasi una questione personale e in questa appassionata missione chiama alle armi mezzo mondo di poveri atei, fornendo loro addirittura un salvifico numero telefonico per non credenti di ogni latitudine onde sottrarli agli agguati agli abusi del catechismo. Al Discorso della Montagna oppone la scalata al Monte Improbabile delle strutture organiche: e alla gloria dei cieli contrappone "il mondo inanimato della cosmologia" e l'infallibile ricetta "acqua-focherello-fuoco".


Ma il cielo e la terra non sono né vuoti né inanimati. È vero che il "Disegno Intelligente" sembra "l'unica alternativa al caso che il creazionista riesce a immaginare", ma se Dawkins vuole rompere a sua volta con Darwin spiegando l'apparizione della vita e il Big Bang a cui aderisce con la selezione naturale, allora è la scienza più accreditata che ci obbliga a dover credere alla più grande deficienza di pensiero di tutti i tempi.

 
Darwin ha realmente SCOPERTO le modalità dell'apparente evoluzione della materia organica. Il suo formidabile algoritmo, la selezione cumulabile in collaborazione col caso, funziona sempre perché opera SEMPRE. Non ci sono dubbi né punti deboli in questa scoperta universale: la speciazione è un'evidenza empirica sotto gli occhi di tutti, ma come possa poi la sola pressione selettiva produrre un occhio alla cieca o tutta la selvaggia complessità di un cervello, è una questione che va molto al di là delle scoperte di Darwin. La questione non è solo semplicemente "aperta", ma palesemente irrisolvibile con il darwinismo. Il dramma vero, come vedremo, è che Dawkins lo sa benissimo. Nessun caso potrebbe mai materializzare a caso un'"odiosa prima cellula" dotata di un'accidentale proprietà di riprodursi. Una simile evenienza non avrebbe più probabilità di quante ne disporrebbe un ciclone (per usare l'analogia di Fred Hoyle) stazionante sopra un deposito di rottami, di assemblare un Boeing 747 perfettamente funzionante (questa celebre analogia è stata criticata dallo stesso Dawkins senza tener conto della sua formulazione originaria). In opzione è stata proposta anche la realizzazione di una copia perfetta della Gioconda prendendo a secchiate di vernice una tela per un tempo indeterminato, ma Dawkins non ha tutto il tempo di Paul Davies o di Max Tegmark. Non ha più di un miliardo di anni dalla formazione della Terra per realizzare una cellula che all'improvviso e senza intoppi prenda prodigiosamente a replicarsi, ed è un miracolo questo che non si può ottenere per caso o per piccoli passi come invece quello di un Sapiens da un Australopiteco.


Evidentemente la moltiplicazione dei pani è una noce troppo dura anche per lui.
 

Ma non lo è certo per il cosmologo della Stanford, Leonard Susskind che vede nel darwinismo radicale di Dawkins l'autenticazione del "mosaico di universi a bolle che si impone come naturale teoria del multiverso". "Darwin e Alfred Wallace - dichiara - hanno fornito un parametro cardinale che vale non solo per le scienze naturali, ma per la cosmologia" ("Stringhe e l'Illusione del Progetto Intelligente", L. Susskind, N. Y., 2006). Lo sciame infinito di universi-bolle sostenuto dall'inflazione perpetua - prosegue in apnea - ingenera un meccanismo cosmico inesauribile in cui deve operare la selezione naturale.
 

È sorprendente come il talentuoso Dawkins, che con tanto metodico rigore si scaglia contro ogni creazionismo, finisca poi per consegnarsi all'"immane esplosione che ha prodotto l'universo" o addirittura all'"inflazione perpetua". L'ironia non è fuori luogo: forse anche lui, fra un'impeccabile descrizione di una duna che avanza sull'altra, non riesce a sottrarsi alle tentazioni del deserto? Nei fatti i suoi richiami sempre più frequenti al multiverso concorrono al fraintendimento generalizzato che queste invenzioni provengano dalla ricerca sperimentale più avanzata. Alla fine la gran palla irrompe sul tavolo dell'epistemologo di tendenza, che dopo qualche precauzione la smista al codazzo di assistenti e collaboratori come la nuova meraviglia scientifica appena arrivata in segreteria.


Ecco come chiosa in proposito l'emergente filosofo della scienza Telmo Pievani: "La vita è emersa 3,5 miliardi di anni fa, sul terzo pianeta di un sistema solare periferico di una galassia di medie dimensioni che si sta allontanando dal centro di un universo in espansione, originatosi 12 miliardi di anni prima (?). Non sappiamo per ora se vi siano altri universi paralleli a questo né se all'interno del nostro vi siano altri esperimenti in corso" ("L'evoluzione della mente", a cura di Telmo Pievani, Sperling, 2008).

Il caso volontario
Appeso al caso e all'improbabilità statistica della vita, il neodarwinismo ortodosso ipotizza grettamente che un'escrescenza organica o viene annullata col tempo o diventa una zampa, una coda, un tentacolo, una pinna... Se si precisa che la necessità crea l'organo solo per mezzo della casualità e della pressione selettiva, la vita appare come un'improbabile cattedrale tirata su da nessuno, le cui elaborate strutture progettate da nessuno vanno poi a iscriversi nel codice genetico fatto da qualcuno e replicato per qualcuno. O la vita in analogia a una formazione carsica esiste senza scopo in balia di forze cieche, oppure agisce volontariamente per cause straordinarie in un universo che esiste per cause straordinarie.

 
Si direbbe che in questo settore non ci riesce di cavare un ragno da un buco. La questione di fondo sulla quale gli epistemologi continuano a rompersi i denti non sembra svincolarsi dalle ben note restrizioni kantiane, di cui delle due l'una: 1) o il caso ha preliminarmente creato l'universo (FINITO O INFINITO CHE SIA) e in tal caso i cosmologi dicano come ha fatto, oppure 2) l'eterno preesiste logicamente al caso e i cosmologi sono rovinati.

 

Il dilemma tuttavia non ha bisogno di essere precisato in termini dotti: anche a prima vista appare inverosimile che il caso e la selezione naturale possano giustificare la sostanza cosmica, finita o addirittura infinita che sia.


C'è poi lo stupefacente bollettino quotidiano delle sperimentazioni biochimiche che investono le cosiddette "assurdità di Lamarck", quelle che Darwin stigmatizzava come "insostenibili" quando cercavano di affermare una tendenza al progresso biomorfologico tramite "gli adattamenti derivanti dal lento volere degli animali". La decisiva questione sembra essersi spostata all'interno dei laboratori: è certo che Darwin non avrebbe mai potuto prevedere il formidabile sviluppo della genomica, della biologia molecolare e dell'ingegneria genetica e se è vero che occhi azzurri, capelli biondi, o immunità dallo sviluppo di particolari malattie sono ancora un po' poco per esibire un "superuomo", non c'è dubbio che i biochimici contemporanei sarebbero già in grado di allungare in provetta "il collo alle giraffe" e quindi di realizzare quegli impossibili adattamenti derivanti "dal lento volere" delle forme di vita.
 

È allora esattamente il programma di Lamarck! E anche se è presumibile che ben pochi desidererebbero essere "un clone di laboratorio", due mammouth o dieci Maradona potrebbero far comodo a chiunque. Al di là dei problemi etici che solleva questa teleologia che non ci appartiene più di quanto appartenga alle potenzialità della vita, il processo in sé sembra ineludibile. La complessità che forzosamente vediamo crescere e moltiplicarsi dentro di noi come un destino che ci prevarichi, deve tuttavia trovarsi all'interno e non all'esterno del sistema fisico. È dunque un po' l'equivoca "anima del mondo" che tanto deprime i materialisti e insieme lo sconcio Pan che offende i trascendentalisti: che non può evidentemente creare le cose ma che poi coincide con il loro funzionamento. Ed è anche l'insopportabile eresia che i valletti dell'Intelligent Design vorrebbero rimpiazzare con il loro Dio delle Manopole posto ai comandi dell'universo, che progetta le leggi della fisica, che regola costanti, collauda particelle e sperimenta forme di vita sempre più sofisticate.


Come ha già detto Fred Hoyle sul "greve" argomento, "se è mai possibile o auspicabile una qualche trascendenza, questa deve trovarsi all'interno del Mondo" ("La Natura dell'Universo", F. Hoyle, 1952).

Non sappiamo nulla?
Questa inevitabile escursione nella vita che esplora la vita evidenzia l'intreccio di preconcetti che coinvolge atei, panteisti e religiosi che operano nell'ambito scientifico. Con le dovute sfumature, per gli atei i panteisti sono mistici e i religiosi fanatici. Per i panteisti gli atei sono gretti e i religiosi utopisti. Invece per i religiosi gli atei sono diabolici e i panteisti eretici. Ancora, per gli atei e i religiosi il fenomeno della vita potrebbe benissimo essere un fatto unico accaduto solo qui a causa della sua estrema improbabilità o per via dell'intervento divino, mentre per i panteisti, con tutto l'universo a disposizione, sarebbe assurdo se la vita fosse comparsa solo qui. E poiché l'assenza della prova non coincide con la prova dell'assenza, solo atei e religiosi rischierebbero pesanti revisioni dei loro schemi concettuali in caso di scoperta di forme di vita extraterrestri.


Il problema più spettacolare è che un universo "darwiniano" da solo non sta in piedi. Lo rileva in modo del tutto inatteso lo stesso Dawkins, che in un passaggio ben dissimulato del suo "L'Illusione di Dio" tradisce le ambizioni del riduzionismo di risolvere il mondo con il solo caso e la selezione naturale: "
QUANDO SI TRATTA DI SPIEGARE PRODIGI DI IMPROBABILITÀ COME UNA FORESTA PLUVIALE, UNA BARRIERA CORALLINA O UN UNIVERSO - scrive testualmente il più grande zoologo del mondo - NON È DETTO CHE SI TRATTI DELLA SELEZIONE NATURALE". È davvero un'ammissione clamorosa, che scuote tutto lo scientismo sbruffone del momento e i delicati equilibri interdisciplinari faticosamente raggiunti.


Dunque anche Dawkins sa, o almeno teme, che il caso e la pressione selettiva sono solo compagni di viaggio che tutt'al più gestiscono ma di sicuro non generano il Sistema del Mondo! Dunque la mente - di un uomo, di un gorilla, di una balenottera o di una zanzara - con buona pace di alcuni neuroscienziati che adesso potrebbero rischiare il posto, non è stata originata ma solo mediata dalla selezione naturale. Ma allora essenzialmente cos'è? Cos'è dunque per Dawkins l'occhio che tormentava Darwin? Cos'è la vita, cos'è una foresta pluviale, cos'è una barriera corallina? Come sono apparse? E che diavolo è l'intero universo? Come si fa a definirlo un "fenomeno naturale"? È forse un problema di fisica o di meccanica quantistica? È un incidente? È un oscuro miracolo?

Alla fine - avvertiva il filosofo Hans Gadamer - "viene pure il momento in cui dobbiamo confessare che non sappiamo nulla". Cioè in pratica che non sappiamo dove siamo, non sappiamo chi siamo e nemmeno da dove veniamo. Dire che veniamo dall'universo e che andiamo con l'universo non aiuta gran che: alla sua massima distanza dalla mente, la materia cosmica mostra titaniche storie di gas e polveri, plasmi ad alta energia, stelle nascenti e talora esplodenti in un intreccio ininterrotto di ammassi e ammassi di galassie... Allora dove siamo? Forse sul terzo pianeta di un sistema solare periferico di una galassia di medie dimensioni? Già, ma che significa? Anche liquidando l'assurda dilatazione dello spazio, gli universi paralleli e la puerile mitologia dell'esplosione del tempo, il macrocosmo ripropone un'ampiezza di scala che è irriducibile ai concetti antropomorfi di "origine" o di "significato" e rafforza il sospetto che ciò che chiamiamo materia sia intenta a sperimentare tutte le sue potenzialità.

 
È un fatto osservativo finora non smentito che le stelle più antiche che siamo in grado di studiare nell'universo non superino i circa 15-19 miliardi di anni. Anche se non si vede una ragione di ordine superiore che faccia coincidere la loro età con quella dell'"intero" universo, resta da comprendere quale è il destino che le accomuna e che al di là della cosiddetta "sequenza principale" coinvolge l'età stessa delle galassie. Le età delle stelle sono di norma stabilite in base a modelli teorici della loro struttura interna attraverso misurazioni di sezioni d'urto di interazioni atomiche effettuate in laboratorio, che poi sono integrate da stime sistematiche delle temperature e delle luminosità. Ed è pur vero che sebbene l'età dell'universo sia "risolta" dalle scansioni effettuate dal satellite WMAP sulla "temperatura fossile" di 2,7 K° in ragione di 13,7 miliardi di anni, molti astrofisici indicano con forza un limite inferiore di 16 miliardi di anni per le stelle più vecchie della nostra Galassia
 PIÙ PROBABILMENTE VICINE AI 19 MILIARDI, con l'aberrante conseguenza che queste stelle risultano essere più antiche dell'universo stesso.

 

Se infine si è disposti a sorvolare sul Big Bang e sui dipartimenti di cosmologia, sembrerebbe ragionevole affermare che gli astri più antichi che siamo in grado di vedere abbiano al massimo una ventina di miliardi di anni. Che sono certamente troppi per le teorie correnti, ma che impongono un LIMITE TEMPORALE alle popolazioni stellari che si avvicendano nei vortici che poi chiamiamo "galassie". Il mondo degli oggetti cosmici dunque, così come lo conosciamo, sembrerebbe richiedere una qualche trasformazione a partire da stati precedenti, che però non sembrano affatto evidenziarsi attraverso le indagini strumentali. Le osservazioni raccolgono invece fortissime evidenze che le composizioni stellari delle galassie - e quindi in prima approssimazione le loro età - siano estremamente diverse, e che quando si vanno a confrontare i contenuti di "metallicità" in base all'assunzione convenzionale che i redshift rappresentino comunque la misura delle loro distanze, l'universo non sembra per nulla "primitivo".

 

In uno scenario evolutivo, infatti, la formazione dei metalli nelle stelle richiederebbe l'accumulo di molte generazioni di supernovae, cosi che gli oggetti più lontani dovrebbero inevitabilmente esibire i loro caratteri primordiali, cioè in pratica l'assenza o comunque la carenza di questi elementi.

 

Ancora una volta SI OSSERVA ESATTAMENTE L'OPPOSTO, con galassie e quasar presunti lontanissimi ma con percentuali di metallicità che eccedono largamente quelle che riscontriamo nel nostro sole! IL RAPPORTO TRA IL FERRO E IL MAGNESIO ADDIRITTURA AUMENTA ALL'AUMENTARE DEL REDSHIFT E NON È STATO POSSIBILE DOCUMENTARE ALCUNA EVOLUZIONE DEGLI OGGETTI COSMICI IN UN RANGE CHE VA DA SPOSTAMENTO VERSO IL ROSSO Z = 0 FINO A VALORI DI Z = 6,5!!


Anche le quantità di polveri risultano eccezionalmente alte in sistemi ad elevato redshift e in molti quasar, mentre le immagini super pubblicizzate delle galassie "più remote" fotografate con l'Hubble Telescope mostrano oggetti già perfettamente strutturati con redshift fino a z = 7 e oltre (Hubble Deep Field) (Becker et al. A.J. 122, 2850, 2001; Constantin et al. Ap. J. 565, 50, 2002; Iwamuro et al. Ap. J. 565, 63, 2002: Dietrich et al. Astro-ph / 0306584, 2003; Fredling et al. Ap. J. 587, L67, 2003; Maiolino et al. Ap. J. Letter, 2003; Barth et al. Ap. J. Letter, 2003; Dunne et al. Nature 424, 285, 2003),
CHE COSTITUISCONO UNA VERA E PROPRIA CONFUTAZIONE DELL'IPOTESI EVOLUTIVA ORTODOSSA. È interessante ricordare che per il punto di vista alternativo quelle galassie non sarebbero necessariamente così lontane, ma più probabilmente piccoli sistemi di bassa luminosità e di alto redshift intrinseco che verrebbero rivelati dalla grande sensibilità e dalle condizioni ideali in cui si trova a operare lo strumento spaziale.

Il danno collaterale della verità
Il celebre fisico Richard Feynman non disdegnava di dialogare anche con i dilettanti più improbabili. Una volta Alberto Bolognesi, dal quale ho estrapolato questa pagina, gli scrisse che le sue particelle che andavano indietro nel tempo erano un trucco grossolano e lui gli rispose prontamente: "Well Alberto, may be" ("Bene Alberto, può essere"). Ma quando gli tese un agguato con la complicità dell'allora console di San Marino Josè Riba, lo liquidò seccamente girando sui tacchi: "Lei vorrebbe scambiare la relazione di Hubble con un idealistico niente". Al che Bolognesì dovette ribattergli: "Meglio altri cent'anni di fiction?". Feynman si sporse appena e fece con un sorriso o con una smorfia: "La scienza non è mai stata in mano agli scienziati"!!!

 

 

 

Sono passati più di trent'anni, Feynman ahimè è morto e la scienza continua a non essere in mano agli scienziati. Sono costretti a dichiarare che abbiamo una visione "panoramica" e rappresentativa dell'intero universo, che è lo spazio che si dilata a spostare le righe degli spettri delle galassie e che l'espansione cosmica deve ora essere intesa come un'accelerazione.
 

La "scoperta" di questa nuova forza può essere sintetizzata con poche parole: quando si cercò di estendere le misure cosmiche alle più grandi distanze impiegando le Supernovae come candele standard, sempre tenendo ferma l'ipotesi che il redshift fornisse la distanza attuale, si constatò che alcune SN erano troppo deboli rispetto ai loro spostamenti verso il rosso mentre altre implicavano potenze inconcepibili. Poiché questo determinava inevitabilmente una costante H0 troppo bassa... fu rapidamente deciso che L'UNIVERSO DOVEVA AVER ACCELERATO PER RAGGIUNGERE IL VALORE ATTUALE DI H0 = 72 KM/SEC, DEDOTTO DA CEFEIDI (STELLE VARIABILI) OSSERVABILI IN GALASSIE PIÙ VICINE! Fu così definita "la misteriosa energia del vuoto", "l'elusiva dark energy" che in collaborazione con titaniche quantità di un'altra sostanza invisibile, "l'onnipervasiva materia oscura", teneva in piedi l'imbroglio dell'espansione, accelerandola o rallentandola alla bisogna.
 

È ciò che Robert Oldershaw denunciava già negli anni Ottanta "come incontrollabilità totale della cosmologia" (R. Oldershaw, "American Journal of Phisics", 56, 1075, 1988): il modello del Big Bang può essere modificato a piacere in modo da poter recuperare sempre l'accordo con gli esperimenti e con l'osservazione attraverso congetture che vengono presentate come scoperte. Possiamo allora augurarci che tutta questa scienza surrettizia, quotata ormai anche sulle borse asiatiche e che alimenta la costruzione di costosissimi collisori supertecnologici "in grado di riprodurre le pesantissime particelle della Creazione" vada tranquillamente alla malora con tutti i tecnocrati, gli inventori di particelle e i faccendieri senza scrupoli che dal Big Bang ad Atlantide l'hanno irrimediabilmente pervertita? Ma chi se la sente di cassare tanti programmi, tante carriere e tanti destini in nome della "verità scientifica"? Se Feynman poteva ancora svignarsela, gli specialisti delle supersimmetrie che abitano negli acceleratori sono lì apposta per dar conto del fotino, del neutralino e del dilatone...
 

La verità è che non ci sono stipendi per passione ed è ovvio che anche i fisici tengano preliminarmente alle loro professioni prima ancora che alla collocazione spaziale dei quasar. Chi ha veramente nostalgia della "scienza povera"?

Il codice celeste
Ma allora, alla domanda della vita "che cos'è l'Universo", la risposta scientifica è che non c'è risposta scientifica. L'incongrua definizione di "ente fisico che contiene tutte le cose" o quella assolutamente umoristica di "fenomeno naturale" devono cedere il passo a nozioni che vanno al di là della fisica e della geometria e che inevitabilmente riconducono ai vasti pascoli della filosofia.
 

Qual è la forma, il contenuto, il passato o il futuro di qualcosa che potrebbe essere infinito?
 

Possiamo forse spiegare la gestazione continua delle stelle dal grembo delle galassie con l'analogia della farina mescolata all'acqua calda e alla gravità? Possiamo forse risolvere il mistero dell'estensione, la natura profonda del mezzo siderale e degli abissi extragalattici con un'apposita particella che qualcuno sarebbe già disposto a chiamare "volumino" o "spazione"?

 
Segregata nell'angusta indecidibilità kantiana, l'isola del "pensato" (che è tutt'altro dal pensare) continua a contrapporre eccentriche divinità che girano manopole per calibrare il Mondo, a creazioni fisiche accidentali provocate dal nulla. In opzione l'universo è un ologramma, anzi un multiverso a bolle, anzi un frattale, anzi una coscia di pollo, anzi un tubo di giardino teso tra due pali con sopra una formica (nell'ordine: M. Behe; M. Gell Mann; S. Hawking; M. Rees; L. Pietronero; J. Silk; B. Green).

Ma nella parte di Mondo in cui possiamo ancora far scienza, quindi in quella parte che siamo in grado di monitorare e che ci si rivela come una sovrapposizione di istantanee sempre più inattuali a causa della "velocità della luce" (rapidissima alla nostra grandezza di scala ma lentissima su quella cosmica), l'espansione dell'universo è un falso provato. La materia celeste vicina e lontana non mostra apprezzabili discontinuità: nella sua spettacolare estensione la si potrebbe definire una spettacolarità perfino monotona, dove tutto sembra esistere e insistere. In flagrante contraddizione delle nostre teorie correnti, la cosmologia osservativa colleziona continue espulsioni di quasar di bassa luminosità e di alto redshift dai nuclei eccitati di galassie attive accompagnate da imponenti emissioni di materiale radio e in alta energia, X e gamma. Il gran numero di oggetti espulsi suggerisce uno scenario empirico di evoluzione NON CASUALE da quasar a galassie compatte: a partire da plasmoidi gassosi che emergono dai nuclei e che procedono a formare atomi e poi stelle, sempre e invariabilmente da alti redshift verso redshift più bassi,
GLI OGGETTI E LE GALASSIE PIÙ GIOVANI SONO QUELLI CHE ESIBISCONO GLI SPOSTAMENTI VERSO IL ROSSO INTRINSECI PIÙ ELEVATI.


Il passaggio cruciale per la nostra sempre più ristretta possibilità di capire è che l'origine espulsiva dei quasar ad alto redshift dai nuclei delle galassie attive a più basso redshift comporti una funzione replicativa e moltiplicatrice della materia cosmica. Funzione CODIFICATA e INTERNA, bisognerebbe aggiungere, perché le emissioni di getti così collimati nello spazio e così persistenti nel tempo debbono obbedire a procedure già inscritte nella fisica dei nuclei stessi al centro delle galassie e che sono irriducibili a una dinamica fisico-chimica meramente contingente.

 
Questo riecheggia un'antica eresia che non ha a che fare né con il Dio delle Manopole né con i Capolavori del Nulla: sembrerebbe stupefacente ma anche ovvio concludere che nella parte di universo che riusciamo ancora a osservare, assistiamo a un ininterrotta "mitosi" della materia cosmica che si tramanda e che si diffonde come un codice attraverso quegli immensi organismi celesti che chiamiamo galassie.

 

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Bibliografia essenziale: Alberto Bolognesi, "IL CODICE CELESTE" di Alberto Bolognesi