IL PARADOSSO DELL'IMBECILLE

 

 

 

L'uomo riesce, da un lato, a far lavorare le macchine in vece sua e, dall'altro, non riesce a  godere legittimamente del fatto che non è più costretto a lavorare.

 

Come mai l'antroposofia del terzo millennio non vede questa contraddizione? Eppure tutti gli uomini che non sono ciechi volontari vedono la realtà dei fatti relativa all'automazione del lavoro.

 

La sedicente società antroposofica è un putrescente e paradossale covo di businessmen incalliti e assatanati dal dio quattrino. Ma il dio trino e il dio quattrino non potranno mai accordarsi come i businessmen vorrebbero.

 

Negli anni '80 ebbi una lunga esperienza di lavoro volontario come pianista nella scuola steineriana di Milano (quella che faceva capo alla sede di Via Vasto), la cui pianista si era ammalata.

 

In quel periodo Elisabetta Pederiva, maestra oggi centenaria, e Iberto Bavastro, che dirigeva l'edizione antroposofica, mi chiesero di diventare docente nella loro scuola elementare. Accettai.

 

I cosiddetti antroposofi milanesi si comportarono però con me in modo talmente aberrante che ha del comico, semplicemente perché sostenevo - come sostengo - che se detta scuola avesse accettato (come poi accettò) la parificazione con le scuole di Stato, avrebbe perso la sua prerogativa, cioè la  sua caratteristica essenziale di essere pioniera per l'attuazione della triarticolazione dell'organismo sociale, auspicato dal suo fondatore Rudolf Steiner.

 

Steiner ripeté più volte che le esigenze sociali dei tempi nuovi non potevano supportare compromessi con gli Stati, non solo perché gli Stati erano, e sono, plenipotenziari, ma soprattutto perché "tutto ciò che tende a compromessi conduce solo a vie sbagliate" (R. Steiner, "Risposte della scienza dello spirito a problemi sociali e pedagogici", Milano, 1964, p. 287, §4, Opera Omnia n. 192, 13ª conf., Stoccarda, 8 settembre 1919).

 

In quel periodo poi, per disaccordi interni dovuti a questo punto cruciale, la scuola si spaccò in due, e nacque quella di Via Clericetti.

 

Ricordo che quando parlai del problema all’allora amministratore della scuola dr. Franzini, esprimendogli il fatto che le idee della triarticolazione non potevano convivere col benché minimo compromesso statalista, la raggelante risposta che mi diede fu: "Per me quelle sono tutte stronzate".

 

Questo era dunque il clima spirituale degli anni ottanta nel contesto steineriano milanese.

 

Potevo così osservare una situazione paradossale: io dovevo essere assunto come maestro elementare, e per questo motivo ero obbligato dalla scuola steineriana a sostenere l'esame di Stato, riprendendo studi interrotti a 16 anni per fare il musicista a Torino, pur sapendo che il maestro elementare per Steiner NON è affatto maestro per via di diplomi di Stato, bensì per la ragione della sua capacità di giocare coi bambini tirando fuori da loro i talenti. 

 

Invece, a 34 anni mi trovavo a dover dimostrare al gruppo insegnati della scuola steineriana di Milano - secondo le loro motivazioni psicologiche - di essere talmente "maturo" da sostenere gli esami statali di maturità magistrale!

 

Anche se la cosa mi sembrava una barzelletta sull'ipocrisia antroposofica, per un intero anno mi preparai controvoglia all'esame di Stato per ottenere il diploma (che ero, fra l'altro, orgoglioso di non possedere) e fui, malgrado tutto, promosso.

 

Dopo avere così dimostrato la mia "maturità", avvenne poi che, in occasione di una riunione sull'idea di triarticolazione sociale e a proposito del concetto di compromesso, ebbi la spregiudicatezza di ripetere al Franzini ed al gruppo insegnanti di Milano, che la "maturità" di Stato era appunto un compromesso...

 

Allora il Franzini ed il gruppo insegnanti mi estromisero dalla scuola adducendo la causa della mia presunta "immaturità" per quel tipo di lavoro antroposofico. Questa, pertanto, non era altro che la seconda ed ultima parte della barzelletta sull'ipocrisia... Così ripresi a suonare per il mondo…

 

Oggi quel clima spirituale già degenerato negli anni '80 si è ulteriormente imputridito, ed il paradosso del compromesso con lo Stato e/o dell'ipocrisia antroposofica è diventato un mostruoso tumore in metastasi, che chiamo il paradosso dell'imbecille.

 

Inserendo il comunismo giuridico proibizionista di Fichte (1) nell’individualismo etico di Steiner, il paradosso dell’imbecille, impedisce oggi di fatto la libertà con l’ideologia della libertà, per cui la donna, per esempio, è divenuta l’ultima schiava da liberare (anzi da autoliberarsi) come massaia, e sarà massimamente impedita nella sua autoliberazione, grazie a questi pseudo insegnamenti sedicenti antroposofici dell'imbecille di turno.

 

La dinamica del paradosso dell'imbecille è la seguente: "Se Kant ritiene morale solo quella legge che si addice a tutti gli uomini, bisogna contrapporgli che ogni azione positiva dovrebbe cessare" scrive Steiner nella sua "Introduzione agli scritti scientifici di Goethe. Per una fondazione della Scienza dello Spirito (Antroposofia)", Opera Omnia n. 1, Milano, 2008, p. 168); la paradossale comprensione di queste parole da parte dell'imbecille di turno è la seguente: Steiner afferma che dovrebbe cessare "ogni azione positiva", cioè relativa alle imposizioni (per es.: "fai questo e quello"); non dice però che dovrebbero cessare le azioni negative relative alle proibizioni legali ("non fare questo e quello"); perciò, sostiene sempre l'imbecille, ogni legge proibitiva è giustificata: se la legge impone le imposte, poniamo al 50% del reddito, essa non è giustificata in quanto ogni imposizione è costringente ed impedisce la libertà; occorre dunque trasformarla in legge negativa per cui si dirà "È proibito tenere per sé più del 50% del reddito", e con ciò la libertà è salva, dato che ognuno è libero di offrire non solo il 50% allo Stato ma anche di più! Non è il trionfo dell'imbecillità? Ebbene, questa è l'antroposofia del terzo millennio. Ebbene, a differenza di questo insulso modo di ragionare, secondo cui ci si chiede ancora cosa l'uomo debba non fare, Steiner afferma esattamente il contrario e, a proposito della natura morale umana, afferma chiaramente nella sua prima opera: "non si chiede che cosa l'uomo debba fare o non fare, bensì che cosa sia, nella sua intima essenza, quello che egli fa" (ibid., pag. 170). 

 

Dunque, anziché occuparsi "innanzitutto di comprendere il suo tempo" (ibid., p. 171) attuando in libertà la sua missione, "scegliendo il punto giusto per parteciparvi col proprio lavoro" (ibid.), vedendo per esempio la realtà delle macchine che lavorano al posto dell'uomo - e quindi pretendere dal profitto delle macchine un minimo vitale per tutti, casalinghe comprese, dalla nascita alla morte e senza condizioni - l'imbecille di turno che fa? Si preoccupa di proibizioni, leggi proibitive assolutamente, cioè fichtianamemnte, giustificate, giovando a fare il dotto, predicando leguleie antroposofie del "dover essere proibizionisti" in nome della liberazione della specie umana, senza accorgersi che la specie umana non può, in quanto specie, liberarsi, dato che solo all'individuo umano è concessa la possibilità della libertà!

 

Marx, almeno, servendosi del proprio io - immateriale e quindi sostanziato da spirito - era convinto di restituire la materia a se stessa… Solo che non si accorgeva - ma ognuno oggi può accorgersene - che se è vero che la materia è materia tramite l’immaterialità dell’io che la pone. Si tratta quindi di vedere solo quali di questi due termini è il soggetto.

 

Invece con Fichte ciò è impossibile in quanto, anticipando l'io come assoluto e negando la materia, si nega di fatto la possibilità di conoscerla...

 

NOTE

 

(1) Il comunismo giuridico proibizionista di Fichte trovò comunque ampia accoglienza nel nazioalsocialismo hitleriano o nazismo. Scrive Primo Levi: "In Germania, in specie, per tutto il secolo scorso una serie ininterrotta di filosofi e di politici avevano insistito in una teorizzazione fanatica secondo cui il popolo tedesco [...] era depositario del primato in Europa e forse nel mondo [...] erede di remote e nobilissime civiltà [...] per sangue e per razza. I popoli tedeschi avrebbero dovuto costituirsi in uno Stato forte e guerriero, egemone in Europa, rivestito di una maestà quasi divina. [Impadronendosi di quest'idea della missione del popolo tedesco, Hitler] nel giro di pochi anni, a partire dal 1933, riesce a trarre partito dalla collera [...] e dall'orgoglio suscitato dai profeti che l'hanno preceduto, Lutero, Fichte, Hegel, Wagner, Gobineau, Chamberlain, Nietzsche: il suo pensiero ossessivo è quello di una Germania dominatrice [...] non attraverso una missione di civiltà ma con le armi" (P. Levi, "Se questo è un uomo", Torino, 1958).