Introduzione di Carlo Monti a

Giordano Bruno

"OPERE LATINE. Il triplice minimo e la misura.

La monade, il numero e la figura. L'immenso e gli innumerevoli"

(UTET, Torino 1980)

 - A cura di Nereo Villa -

Presentazione

Io non credo in Dio perché so che c'è; e non è diverso da quello di Giordano Bruno. È auspicabile che il contenuto di "OPERE LATINE" del Bruno sia studiato e ristudiato da tutti quei frettolosi "esperti", che in questi ultimi quattro secoli si agitarono moltissimo per mettere il cappello da asino a Giordano Bruno, in nome della scienza, oggi divenuta superstizione da credere come religione "scientifica" di Stato. "Ma come può questo auspicio realizzarsi se questi esperti dei secoli passati sono già morti?", obietterà qualcuno. Ebbene, vi dico con certezza che molti di loro si sono già reincarnati come scimmioni intelligenti (a causa della concezione animale che hanno di se stessi, emergente perfino da titoli di loro libri quali, ad esempio, "Lo scimmione intelligente" di Giorello-Boncinelli), pur avendo sembianze umane. Sono i vostri professori, per nulla innamorati della via, della verità e della vita, ma assatanati dalla trasformazione delle pietre in pane, o del piombo in oro, o del dio trino in quattrino. Su "OPERE LATINE" rifletto dal 1980, perché sono le basi dell'antroposofia, che pertanto giudico più italiana che tedesca. La scienza dello spirito di Steiner aspira infatti, anche attraverso le opere scientifiche di Goethe, al compimento dell'impresa che per la scienza fisica esteriore fu iniziata da Bruno, il quale annunciò in modo solenne e grandioso che quando un uomo nasce, è un quid di macrocosmico che si concentra in forma di monade, tornando, quando egli muore, a dilatarsi, così che quanto era racchiuso nel corpo si dilata nell'universo, per ritornare poi a concentrarsi e quindi a dilatarsi nuovamente in altre forme di esistenza. Nelle sue parole si esprimevano perciò concetti poderosi, anche se ancora in modo informe, quasi come un balbettio. Spetta a ognuno di noi portare avanti liberamente, ma secondo logica di realtà, questo balbettio, che in verità è un grandioso impulso alla Conoscenza della Verità.

PS: ho evidenziato in grassetto le parti che più mi colpirono di questa Introduzione di Carlo Monti alle OPERE LATINE di Bruno, e che sottolineai nel testo cartaceo; ho messo tra virgolette le parole che nell'originale sono scritte in corsivo; ho aggiunto alcune mie note critiche [ndc] in merito ad alcune affermazioni di Carlo Monti, da me non del tutto condivise. Buona lettura.

Nereo Villa

Castell'Arquato, 8 maggio 2018

 

 

 

INTRODUZIONE DI CARLO MONTI

 

Felice Tocco, dopo aver suddiviso le opere latine del Bruno in quattro gruppi, assegna al quarto di essi le cosiddette opere costruttive, vale a dire quelle implicanti la costruzione di "nuove teorie", ovvero la famosa trilogia latina, assieme alla "Summa terminorum metaphisicorum" (F, Tocco, "Le opere latine" di Giordano Bruno esposte e confrontate con le italiane, Firenze, 1889, p. I). Ad esso fa peraltro corrispondere una particolare fase della speculazione bruniana da identificarsi con il trapasso dal monismo eracliteo all'atomismo di Democrito e Leucippo, che sarebbe comunque da collocarsi su uno sfondo animistico (ibid., p. 357). Ciò comproverebbe la tendenza eclettica del Nolano, volta a superare, pur senza riuscirvi sempre, le contraddizioni di vari sistemi filosofici come dimostrerebbe la tensione animismo-atomismo che il Nolano, nella sua sostanzialità, avrebbe lasciato insoluta (ibid., pp. 355-356). Ma se quello dell'eclettismo appare il punto di vista di non poche interpretazioni, mi sembra che il porre l'accento sulla pluralità delle sollecitazioni, degli spunti e delle soluzioni presenti nelle opere latine, non significhi accettazione di tale punto di vista, quanto piuttosto la convinzione che i Poemi francofortesi siano l'espressione di una sostanziale sintesi, quanto si voglia travagliata, ma tale da potersi a ragione considerare come l'ultima elaborazione e sistemazione del pensiero bruniano, quale fase conclusiva del suo stesso processo di evoluzione; il che di per sé sconfessa la validità di un certo tipo di atteggiamento storiografico che vuole concluso il periodo di maturazione del Nolano con la fase londinese e considera i poemi latini sulla base di una scheletrica corrispondenza con i dialoghi italiani.

 

Sulla base di queste premesse, un riscontro con le opere italiane al fine di considerarne le analogie e le diversità, appare opportuno soltanto alla luce della convinzione che la presenza di tesi contrastanti non stia tanto ad indicare un'intima incoerenza, quanto la tensione tra ispirazione umanistica ed esigenze metafisiche che, proprio nella trilogia latina, Bruno riesce a placare, allorché giustifica su definitive basi dottrinali il rapporto uno-molti, e definisce l'universo come un'infinita realtà unitaria, ricorrendo ai concetti di atomo, di monade, di minimo. Se di novità, poi, possiamo parlare a proposito dei poemi latini, essa è da ravvisarsi, forse, nella parte matematica, svolta dal Bruno (si pensi alla alla polemica contro la dottrina degli irrazionali e degli incommensurabili, contro la trigonometria, contro i canoni dei triangoli sferici) all'insegna di una funzione speculativa imperniata proprio sulla concezione del minimo.

 

Nel 1964 sono state pubblicate delle lezioni inedite del Bruno di argomento matematico, le quali si possono considerare illuminanti riguardo ai motivi contingenti del rientro del Bruno in Italia; si tratta delle "Praelectiones geometricae" (suddivise in "Axiomata", "Theoremata", "Problemata"; le prime due sezioni illustrano geometricamente postulati ed enunciazioni del libro IV del "De minimo", la terza i problemi del libro V) con l'aggiunta del trattato dell'"Ars deformationum", le cui sei dimostrazioni principali rimandano al dialogo "De mordenti circino", ai libri III e IV del "De minimo", mentre il paragrafo "Instrumentum deformationum" rinvia al capitolo XI del "De monade" (cfr. G. Aquilecchia, "G. Bruno", Roma, 1971, pp. 178 segg.).

 

I tre aspetti dei "Poemi francofortesi, come vengono illustrati dalle "Praelectiones" ed esplicitamente dichiarati dal Bruno nella dedica al "De immenso", originariamente concepita quale introduzione all'intera trilogia, sono: matematico ("De minimo"); metafisico ("De monade"); fisico ("De immenso"). Nel "De minimo" si tratta da un punto di vista dottrinario e rigoroso il problema degli elementi originari; nel "De monade" si ricerca l'accordo tra rivelazione, fede e divinazione con i fondamenti dell'opinione e dell'esperienza; nel "De immenso" si adducono inequivocabili dimostrazioni dell'infinità dell'universo, affrontando, correlativamente, i problemi della disposizione dei mondi, dell'unità dell'universo governato da un unico principio, del modo in cui implicitamente ed esplicitamente si rivela l'ordine naturale. Rispettivamente il senso, le immagini, le cose sono state assunti a guida di ciascun poema, quali principi ispiratori di un metodo ora matematico, ora metafisico, ora naturale.

 

Al desiderio di raggiungere la verità ("De minimo") segue la sua infaticabile ricerca "De monade", premiata al fine ("De immenso) con il suo ritrovamento e con la costruzione di una scienza universale. Invero, nelle intenzioni originarie dell'Autore, i tre poemi latini avrebbero dovuto essere pubblicati insieme; ma, giunto all'ultimo foglio del "De minimo", pubblicato nella fiera primaverile del 1591, Bruno dovette abbandonare Francoforte "casu repentino" (forse per decreto del locale Senato) ed incaricò, pertanto, l'editore Wechel di comporre la dedica del poema. A Venezia Bruno giunse prima della fine dell'agosto 1591; alla fiera autunnale dello stesso anno, a Francoforte, furono messe in vendita le altre due opere.

 

Prendiamo adesso in esame ciascun poema separatamente.

 

1. Se nel "De l'infinito" Bruno aveva presentato i prodromi di una teoria atomistica, legata al concetto di materia prima, virtualmente pura ed immutabile, elaborato nel "De la Causa", essa si precisa in una concezione definita (l'interpretazione del Tocco, che pone l'atomismo come terzo momento dell'evoluzione dottrinale del Bruno, non appare adeguatamente suffragata sulla base dei testi, essendo l'atomismo bruniano strettamente collegato alla concezione che Bruno ha della materia. L'Olschki, "G. Bruno", 1927,  nota come l'atomismo appaia fugacemente nel periodo londinese per precisarsi negli ultimi giorni del soggiorno parigino ed esprimersi pienamente nel "De minimo", per concludere però che l'atomismo è stato un episodio tardivo e poco importante nella storia intellettuale del Bruno. Olgiati, "L'anima dell'Umanesimo e del Rinascimento, 1924, e Gentile, "G. Brano ed il pensiero del Rinascimento", 1925, vedono invece nell'atomismo lo sbocco di un insieme di riflessioni anteriori sull'universo e la materia. Per quanto mi riguarda, concordo con P. H. Michel quando afferma che l'atomismo del Bruno "n'est pas seulement un aboutissement, mais qu'il est impliqué dans la cosmologie de Bruno et annoncé des les premières ouvres", l'"Atomisme de G. Bruno, in "La Science au seizième siècle", Paris, 1957, pp. 253-254) ed articolata là dove nel I Libro del "De minimo" si delinea la problematica dell'esistenza degli atomi e si definiscono i particolari dell'atomo stesso ("De minimo" I, 2).

 

Il fondamento sostanziale di tutte le cose è costituito dal minimo ovvero dalla monade o atomo: come un numero limitato di lettere dà luogo ad un numero infinito di parole, così la sostanza semplice ed il minimo si rivelano il fondamento delle cose, in cui per altro queste tendono a risolversi (ibid.). Cosi il minimo rappresenta la radice ultima di tutte le specie, come la monade rappresenta il fondamento di tutti i numeri e l'atomo di tutte le grandezze. L'atomo è insomma "pars ultima" della materia, "minimum" fisico assoluto, substrato di tutti i corpi, indistruttibile, insecabile, impenetrabile. Se esso può essere contemporaneamente minimo e monade, non si dà il contrario.

 

 Nella prima parte del "De minimo" l'atomo è paragonato ad un punto matematico, il quale può essere per altro inteso in due maniere, o come estremo di una linea o come la più piccola parte della linea stessa; esso è dunque limite o elemento ultimo, termine o "pars ultima". È in questo senso che l'atomo è paragonabile al punto; esso, va ribadito, e un "minimum" non un termine; come tale ha in potenza tutte le dimensioni. Tutte le divisioni, tutte le disgregazioni, riconducono all'atomo e qui si arrestano, essendo appunto esso indistruttibile ed insecabile. Tali caratteri rimandano alle proprietà della impenetrabilità e della discontinuità ed è quest'ultima che, in ultima analisi, giustifica, nell'ambito della prospettiva atomistica bruniana, il cambiamento incessante, legato ai processi di aggregazione e disgregazione che mostra l'universo: «quand un philosophe a posé en principe l'existence d'une matière première, substrat de tous les corps, pour expliquer ensuite les changements et les diversités du monde sensible, il n'a le choix qu'entre deux solutions: ou bien il admettra la possibilité d'une géneration de substances, diverses et déterminées à partir d'une substance indéterminée et unique (ou aboutit alors à une physique du type aristotélicien); ou bien il admettra que les corps doivent leur forme et leur détermination au mode de groupement de particules élémentaires (et alors on aboutit à une physique du type atomistique). Autrement dit, si on pose en principe que la matière est sans qualité et que toute qualité résulte de la forme, on est nécessairement amené, quand ensuite on se pose la question de savoir si la matière est continue ou discontinue, à opter pour le discontinue. C'est ce qui est arrivé à Bruno" (cfr. P. H. Michel, "L'atomisme", cit., pp. 252-253; cfr. "De l'infinito. Dialoghi italiani", con note di G. Gentile ile, a cura di G. Aquilecchia, Firenze, 1958, p. 414; cfr. "De minimo" II, 10). Il contatto tra due atomi, giacché l'atomo è un corpo materiale, non significa dunque penetrazione e rimane così salva la differenza tra il toccante ed il toccato. Ma, contrariamente a quanto sostenevano Democrito e Leucippo ("De minimo", I, 2, p. 98 e I, II, p. 131), non è sufficiente postulare l'esistenza del vuoto e degli atomi per comprendere la realtà: occorre affermare l'esistenza della materia che li agglomeri. Tra gli atomi si trova dunque lo spazio la cui natura per i Pitagorici era riconoscibile ad una sorta di materia paragonabile all'aria, per gli atomisti della scuola di Abdera al vuoto assoluto. Invero Bruno non accetta la soluzione dell'esistenza del vuoto; se egli ricorre alla parola vuoto lo fa solo per comodità, per indicare brevemente ciò che in natura diverge dai corpi materiali. I termini vuoto, aria, etere, spazio, sono indicati dal Bruno per designare il mezzo che circonda i corpi naturali, ma non sono usati con lo stesso significato (cfr. "De l'infinito" cit., pp. 528-529).

 

Quello che interessa il nostro discorso è più propriamente il termine etere, visto che il termine spazio è usato indifferentemente: l'etere infatti non è un corpo, esso è semplice e continuo e non offre alcuna resistenza al movimento, ma ne è la condizione necessaria; esso sfugge per altro alla regola della discontinuità, propria di tutti gli oggetti materiali. Ciò che muta nelle proprie parti, senza posa e variamente nel tempo, incorrendo sempre in nuove forme non è la sostanza, ma il composto, mentre i suoi componenti ultimi si riconducono alla semplicità della sostanza immutabile che, come realtà originaria, non può annullarsi.

 

L'incessante mutazione delle cose particolari trova la sua spiegazione nell'azione dello "spirito ordinatore" che "dopo essersi esplicato negli aggregati atomici, coordina il tutto, fino a che, trascorso il tempo ed infranto lo stame della vita, si ricomprime nel centro e nuovamente si espande nello spazio infinito" ("De minimo", I, 3, p. 100; cfr. "De la causa", in "Dial. It.", cit. p. 239).

 

Nell'aggregato si trova dunque celato l'animo che si esplica in tutte le sue membra, fino a che lo consente il corso vicissitudinale degli eventi. Ogni cosa dell'universo comprende tutta l'anima del mondo; l'essenza dell'universo è una nell'infinito ed in qualsiasi suo membro e a tal riguardo convenientemente Parmenide parlò di un uno infinito ed immobile ("De minimo", I, 2, I, 3, I, 4, cfr.  "De la causa", cit. p. 326). Tuttavia il vero ente non è quello immobile di Parmenide; infatti il processo cosmogonico si fonda sul divenire eracliteo e sulla rappresentazione dell'uno come un seme o come un centro in espansione, cosicché la presenza dell'opposizione uno-molti si spiega e si dissolve nella concezione di un tutto vivente che continuamente trascorre dall'uno all'altro termine. La visione eraclitea dell'universo si accompagna alla convinzione secondo cui alla base di questo divenire sia l'eternità dell'essere. Dalla metafisica eraclitea che delle cose spiega la veste esteriore, Bruno vuole "giungere a cogliere i punti costanti dell'universale flusso del tutto" (N. Badaloni, "La filosofia di G. Bruno", Firenze 1955, p. 37). Ciò non significa che la ragione giunga a cogliere l'unità dell'uno e del tutto e in ciascun essere l'eternità dell'essere percorrendo unicamente il terreno dell'astrazione, in quanto la bruniana contemplazione intellettuale è colta nel suo vero significato solo nella prospettiva della sua origine nell'ambito del divenire stesso della realtà, in cui la visione unitaria del tutto viene ad assumere nello stesso tempo un significato fisico. Infatti l'anima del mondo è situata tra l'universo e Dio; essa costituisce il principio vivificatore della natura e Dio agisce sulla ragione soltanto attraverso la natura. In sostanza, l'anima del mondo ha una faccia rivolta verso il Divino ed una rivolta verso l'universo sensibile. "L'atome est centre de vie, il est un point où vient s'insérer l'àme du monde" (P. H. Michel, "L'atomisme...", cit. p. 263). La materia non è un caos che il nous organizza; non è creata prima del tempo; anch'essa si colloca nella prospettiva dell'eterno; ma poiché nello stesso tempo la fonte di movimento dell'atomo va ricercata in una natura diversa da quella materiale, ciò ci conduce ad una prospettiva animistica. La mente della natura, insita nelle cose, presiede alla loro costituzione e differenziazione quantitativa in rapporto al genere ("De minimo", I, I, pp. 93 segg.). Dio, natura, ragione costituiscono la triade suprema. Dio è monade, fonte di tutti i numeri e fondamento sostanziale di ogni grandezza, assolutamente semplice, infinito ed immenso. La natura è numero numerabile, grandezza misurabile; la ragione è numero numerante, criterio della realtà. La natura si rivela dunque quale grado intermedio tra Dio, ovvero amore e causa efficiente, e la ragione, ed in questo senso possiamo affermare che come la cosmogonia bruniana assume toni chiaramente metafisici così la visione cosmologica che ne deriva è ben lontana dall'assumere un'impronta astronomica tecnicamente precisa e definita ("Présenter la genèse de l'être comme une émanation et le monde comme un aspect de Dicu, c'est en effet donner à un certain nombre de questious touchaut la nature, la forme, les dimensions et la durée de l'univers des réponses déjà certaines, immédiatement deduites, que l'expérieuce et la raison n'auront plus qu'à corroborer"). L'oggetto dell'intuizione intellettuale del Bruno non è tanto comunque la suprema unificazione mistica dei Platonici, quanto invece la natura considerata in una prospettiva animistica che permette al Bruno di cogliere il movimento unitario dell'universo stesso. Né la sostanza delle cose, né l'anima devono temere la morte ("De minimo, 1, 3, p. 100; cfr. "De la causa", cit. p. 324); essa è semmai nuova vita e si inserisce nel ritmo vicissitudinale degli eventi quale momento di passaggio che riguarda unicamente i composti, perché la sostanza non può essere scambiata con i suoi singoli accidenti.

 

S'inserisce a questo punto il problema del rapporto delle anime individuali con l'anima universale, la cui soluzione, in contrasto con quella teologico-peripatetica, consiste nel negare l'assoluta individualità delle anime sulla base del principio della loro trasmigrazione ("De minimo", I, 3, p. 101). Se la nascita rappresenta l'inizio di un processo in espansione, la vita una sfera compiuta, la morte una contrazione verso il centro, ogni fenomeno naturale, ogni corpo, rimandano alla sfera ed al centro come alla propria espressione più compiuta. Occorre, dunque, superare qualsiasi distinzione e raggiungere quella visione unitaria per cui ogni numero è riferito alla monade ed il minimo viene a coincidere con il massimo.

 

Si delineano in tal modo i fondamenti matematici, gnoseologici e metodologici della ricerca che, se sembra muovere da una prospettiva teologica, si chiarisce subito come analisi razionalistica dell'idea di Dio, contemporaneamente ovunque ed in nessun luogo, fondamento e principio di ogni cosa, indivisibile e assolutamente semplice (ibid. I, 4, p. 104). La contemplazione del minimo deve articolarsi in una scienza naturale, matematica e metafisica (ibid. I, 5, p. 107. Poiché Bruno ammette l'esistenza di un triplice minimo:1° il minimo metafisico o la monade; 2° il minimo fisico o l'atomo; 3° il minimo geometrico o il punto, ciascuno di questi tre minimi è principio di una scienza speculativa: la monade è principio della metafisica; l'atomo della fisica, il punto della geometria. Per questa interpretazione cfr. K. Atanasijevich, "The Methapbysical and geometrical doctrine of Bruno", St. Louis, Missouri, 1962, pp. 24-25) e innanzi tutto occorre abbattere i fondamenti del falso, primo tra essi la-divisibilità-all'infinito, ammettendo la quale non esisterebbero più né le prime parti, né il centro, né le ultime parti, ma solamente parti indeterminate che ciascuno potrebbe dividere a volontà ("As a metaphysician, Bruno recognized that discrete geometry is much simple than continuous geometry and much more closely related to metaphysics. It is for this very reason that he embarked upon the critique of continuous geometry and, the construction of discrete geometry. Let us say at once that Bruno was so intensely aware of this relationship of geometry to metaphysics, that he found it impossible to make purely geometrical deductions": K. Atanasijevich, op. cit., p. 96). Ogni realtà corporea consta di un numero definito di parti; sottraendo numero a numero, ci imbatteremo necessariamente nella monade e nell'atomo, poiché la divisione di qualsiasi grandezza deve osservare la corrispondenza tra realtà e numero. Il processo inverso, di addizione, sarà invero infinito. Al contrario i Peripatetici non vogliono ammettere tali minime realtà, mentre giustificano invece il limite che l'ultima sfera rappresenta per l'universo, il limite cioè del processo ascensivo. Il rovesciamento bruniano della tesi aristotelica implica dunque l'affermazione dell'esistenza di mondi infiniti da una parte, dal momento che illimitata è la serie numerica, e dell'unità quale punto iniziale ed imprescindibile della formazione dall'altra. Proprio quest'ultimo è Il principio basilare in virtù del quale la prospettiva matematica del Bruno si salda fortemente con quella filosofica: l'atomo non è considerato solo come principio di costruzione genetica della realtà e di conservazione della qualità fisica, ma anche come principio di costruzione della quantità stessa, in stretta coerenza con la convinzione precedentemente affermata secondo cui non si danno parti dell'infinito, ma nell'infinito. Così, se è determinato il momento in cui lo stesso Bruno inizia a mettere per scritto la verità destinata a tramandarsi nel tempo, i secoli che da questo momento hanno inizio non avranno mai termine.

 

Si comprende dunque come qualsiasi momento dell'eternità sia un principio senza termine oppure un termine senza principio giacché nell'eternità, o istante infinito, principio e fine sono la medesima cosa ("De minimo", I, 6, p. 110). In sostanza, nella polemica antiaristotelica sulla divisibilità all'infinito, Bruno procede con un ragionamento analogo a quello a cui è ricorso nella polemica sull'infinità dei mondi nel "De l'infinito": da una parte la coincidenza di minimo e massimo e dall'altra l'ubiquità del centro convergono, in ultima analisi, all'identificazione della corporeità infinita con l'atomo (ibid., p. 111).

 

Aristotele dunque sbaglia nel considerare un tutto finito divisibile in un numero infinito diparti (ibid., I, 7, pp. 112 segg.) e la fonte principale dei suoi errori sta nel non aver distinto il minimo come parte, dal minimo come termine e le varie specie del minimo stesso; anche il ricorso all'artificio logico di infinità potenziale non risolve l'aporia, poiché ne deriverebbe sempre che in potenza una linea uguaglierebbe la sua metà, risultando entrambe costituite da un numero infinito di parti. In atto ed in potenza, dunque, la stessa scomposizione naturale rimanda al minimo come all'ultimo ente indivisibile.

 

Che l'infinito sia tutto centro, che l'eternità sia un unico istante eterno, che la corporeità infinita s'identifichi con l'atomo sono verità che presuppongono l'ulteriore affermazione dell'atomo come principio di ogni realtà, per cui esso rappresenta potenzialmente ogni cosa. Gli atomi, identici tra loro rispetto alla sostanza, alla forma e alla dimensione, di formi sferica (ibid., I, 12, p. 132) (che la sfera sia il minimo solido è motivo pitagorico), sono definibili solo razionalmente in quanto ogni forma sensibile è il risultato di un agglomeramento di atomi: essi sono infiniti in quanto infinita è la materia e non v'è nessuna ragione di esistenza per una forza esteriore che ne presieda le combinazioni (ibid., I, 4, p. 104).

 

L'atomo, oltre che minimo, è anche unità e merita il nome di monade, essendo un'unità vivente, animata dall'interno da un principio spirituale. In sintesi, l'elemento ultimo della materia è l'atomo-rnonade-minimo (come si è visto, il concetto bruniano di minimo presenta una triplice articolazione, per cui esso è atomo, monade e punto. In questo senso, l'atomo come fondamento della grandezza, cfr. "De minimo", I, 2, p. 98; I, II, come "pars ultima" della materia, rappresenta il minimo fisico ed in questo senso è monade, cioè sostanza semplice, ibid., p. 97. Ma come l'atomo è minimo senza con ciò esaurire il concetto di minimo, cosi esso è monade senza esaurire il concetto di monade perché questa è anima, Dio e fondamento metafisico di tutta la realtà, I, 3 e 4).

 

Dall'ammissione di una materia prima indeterminata, deriva, oltre all'impossibilità che esistano altri corpi semplici di diversa natura, che la sostanza degli atomi è sempre la stessa. Se, in polemica con la doppia fisica di Aristotele, Bruno, a proposito dell'omogeneità dell'universo, parla dei quattro elementi, ne parla senza per altro contraddire il proprio atomismo: infatti la parte più piccola di un corpo semplice, ad esempio l'acqua, è già costituita da una pluralità di elementi ultimi. Quanto poi alla sfericità degli atomi, Bruno recupera i classici argomenti dell'antico pitagorismo: perfezione della sfera; uguaglianza delle sue tre dimensioni; semplicità ed unità di questa stessa figura. D'altra parte l'esperienza gli sembra corroborare tutti questi argomenti: in natura ogni cosa tende alla forma sferica (l'azione corrosiva del tempo, infatti, smussa gli angoli di ogni massa corporea ed in una visione prospettica ogni corpo appare rimpicciolito ed arrotondato, ibid., I, 12. p. 133) e questa tendenza sarebbe rivelatrice dell'atteggiamento del pensiero sia pure in forma approssimativa poiché mai un oggetto sensibile può raggiungere la forma sferica perfetta propria del minimo e del massimo, cioè dell'atomo e della sfera infinita. Gli atomi dunque non assumono le forme infinitamente diverse dei corpi, di cui costituiscono le parti, ma sono tutti sferici (l'affermazione bruniana secondo cui ogni figura geometrica ha il proprio minimo ha suscitato perplessità tra gli interpreti che talora, come l'Olschki hanno creduto di vedere una contraddizione con l'altra affermazione secondo cui tutti gli atomi hanno la stessa forma, mostrando cosi di aver dimenticato la distinzione bruniana tra atomo e minimo. Infatti se l'atomo è anche il minimo, non è dato il contrario; dunque potremo definire "pregnante", fisicamente parlando, la sfericità dell'atomo). Solo se si muove lungo queste direttive, la nostra indagine potrà giungere alla scoperta della monade delle monadi che origina la varietà del tutto, che dona l'essere agli enti, ovvero Dio (ibid., I, 4, p. 104), entità degli enti, unità a cui si riconducono tutte le cose.

 

Di qui la coesistenza nel minimo dei contrari, uno-molti, infìnito-finito e la coincidenza minimo-massimo. Infatti ciò si dimostra anzitutto in Dio, quindi nell'universo, nella sfera, nella coincidenza del minimo angolo acuto e massimo ottuso (cfr. anche "De la causa", cit., pp. 337-338 e n. I), nel fatto che il cerchio infinito e la retta infinita non differiscono (cfr. ibid., p. 335, n. I).

 

Poiché i sensi non riescono a superare il minimo fisico, si ammette, con Lucrezio (cfr. "De rerum natura", I, vv. 268 segg), che la realtà sia costituita da atomi sottili. Necessariamente poi il minimo sensibile risulta dall'aggregazione dei minimi naturali, i quali si trovano così celati nel minimo sensibile ("De minimo", I, 9). Non è detto dunque che la nostra rappresentazione sensibile corrisponda alla reale conformazione delle cose (cfr. "De rerum natura", I, vv. 319 segg.).

 

Occorre distinguere ancora tra minimo assoluto e minimo relativo, il primo quale elemento irriducibile, sotto qualunque aspetto lo si consideri di un unico genere, il secondo come appartenente ad una data specie ("De minimo", I, 10. p. 128) e poiché ogni specie gode di un proprio minimo, non deve meravigliare che ciò che per l'uno rappresenta l'effetto, per l'altro rappresenti la causa. Così ogni indagine razionale si è mossa da un proprio minimo, identificato ora nella monade pitagorica, ora nella sostanza corporea platonica, ora nei quattro elementi di Empedocle. Si ribadisce dunque il principio della relativizzazione che si estende qui al genere della misura per avvallare in ultima analisi la tesi fondamentale della speculazione bruniana della infinità dell'universo e dei mondi, dal momento che, in questa prospettiva, questo sole con i suoi pianeti non è altro che un minimo corpo tra i minimi sensibili e, rispetto all'universo, nient'altro che un punto al centro del punto. La forma del minimo piano è rappresentata dal triangolo e dal cerchio; la combinazione tipica è esemplificata dall'area di Democrito, ovvero da sei cerchi tangenti ad uno centrale, loro identico, in modo da formare un cerchio più grande tale che tra i punti di contatto si formino dei vuoti triangolari dai lati curvilinei: così, il minimo triangolo curvilineo ed il minimo cerchio si presentano come gli elementi primordiali del piano; nel solido, tra sfere analogamente tangenti, risulteranno invece frapposti spazi piramidali di modo che la sfera e la piramide si presenteranno come gli elementi primordiali del solido (su queste basi, Bruno assume una posizione totalmente divergente dall'opinione di Democrito, sostenitore dell'infinità delle forme degli atomi e di quella di Epicuro, secondo cui le forme degli atomi sono di numero finito seppure tanto grande da non potersi definire. Anche Lucrezio segue Epicuro, cfr. "De rerum natura", I, vv. 479 segg.). Se poi vengono meno le differenze del finito, la sfera infinita, in cui l'indifferenza e l'uguaglianza delle dimensioni si colgono ovunque ed in cui ovunque è il centro, rappresenta perfettamente l'universo infinito, che è semplicemente e tutto di per sé ("De minimo", I, 13, p. 136 e III, 4, pp. 192 segg.). E se Aristotele rimprovera Senofane per aver assimilato l'infinito ad una sfera, dimostra di non averne compreso il motivo di fondo.

 

La medesima fìgura rappresenta dunque il massimo ed il minimo e, si badi bene, le proprietà del minimo, a detta del Bruno (ibid., I, 14, p. 138), si accordano pienamente con gli elementi euclidei.

 

L'Area di Democrito, mentre sta a dimostrare che il massimo altro non è che il risultato di una moltiplicazione per n volte del minimo, ribadisce come il minimo si presenti quale unità di misura del massimo: eccoci, dunque, nuovamente al punto iniziale della coincidenza di massimo e di minimo e la verità del minimo, che si erge minacciosa contro la folla dei geometri innovatori che, moltiplicando proposizioni e assiomi, hanno dato prova non tanto di un maggior sapere, quanto di un regresso, mostrando così di non capire neppure i princìpi euclidei (ibid., p. 139); la verità del minimo, si diceva, costituisce il presupposto della successiva affermazione dell'unità della materia, della forma, dell'efficiente: la molteplicità procede dall'uno, è contenuta nell'uno e ad esso si riferisce (ibid., II, I, p. 141).

 

Il problema del rapporto tra complicatio ed explicatio risulta così profondamente connesso con la teoria della divisione della materia e, insieme all'idea di un unico principio eterno animatore dell'universo, come si è visto, si pone come termine imprescindibile per la conciliazione tra la mutevole molteplicità infinita delle cose e l'unità della natura. Se è possibile, dunque, distinguere Dio come implicatio e Dio come explicatio, se quest'ultima è la natura, oggetto della conoscenza naturale, mentre la prima è la Divinità, oggetto della contemplazione superiore, se in certo modo si distinguono due piani del conoscere, ciò non implica resistenza di una doppia verità: è possibile conoscere Dio solo nelle cose e tale è l'autentico oggetto di una scienza veramente libera; il trascendente può essere solo oggetto d'amore. La conoscenza naturale si rivela, dunque, per Bruno conoscenza fisica dell'universo e si presenta come conquista dell'impegno umano al di fuori di qualsiasi illuminazione sovrannaturale. Se poi in Bruno la conoscenza matematica non sbocca alla determinazione di una verità concreta, giacché non bisogna credere che Bruno sia assertore di una ricerca sperimentale, dal momento che la sua costruzione cosmologica si compie su basi razionali, essa è tuttavia preliminare alla conoscenza naturale, la quale si identifica con lo sforzo dell'uomo volto a penetrare la realtà dell'universo (P. H. Michel, "La Cosmologie de G. Bruno" cit., pp. 58 segg.).

 

Il numero appare cosi un espediente di computo, un mezzo per adeguare la varietà della natura alle leggi della ragione e i concetti matematici si rivelano uno strumento per determinare la realtà naturale in figure ed in numeri. Non il senso, dunque, ma la ragione è in grado di astrarre dalla variabilità della materia e di determinare l'esattezza geometrica della figura del minimo come di qualsiasi altra figura ("De minimo", II, 2), anche se la prima rappresentazione della figura deve essere necessariamente sensibile ed imperfetta poiché, ad esempio, se il cerchio è definito in base all'uguaglianza dei raggi, in natura non si danno due linee perfettamente identiche (ibid., II, 5, p. 152). L'impossibilità che esistano in natura figure perfette è appunto una conseguenza della discontinuità della materia. Inoltre ogni rappresentazione sensibile è soggettiva, può assumere come tale denominazioni contrarie, è condizionata dal contesto storico in cui avviene. Il bene e il male, il vero e il falso non esistono in senso assoluto e della contraddizione sono veri entrambi i termini (ibid., II, 3, p. 146).

 

La realtà sensibile non può essere assunta come oggetto dell'attività gnoseologica della mente, interessata all'aspetto razionale ed intellegibile delle cose. Essa è infatti misurabile solo con un metro ad essa omogeneo, a meno che non si voglia contraddittoriamente definire la realtà sensibile da un punto di vista razionale e viceversa. In natura nulla si trova di perfetto: ad illusioni ottiche si riducono l'arcobaleno ed il circolo dell'orizzonte, né è perfetta la specie di quei cerchi che si formano nell'acqua dopo che vi è stato lanciato un sassolino: nessuna parte può essere uguale ad un'altra ed in natura tutto muta senza posa (ibid., II, 4, pp. 150 segg.), anche se in maniera più o meno evidente. Il senso non deve, quindi, credere alla propria impressione di una natura che osservi una norma fissa, ma deve correggere se stesso per trasformarsi in una nuova guida per una nuova visione del cielo, dove, vanificati tutti quei motori ed orbite aristoteliche, subentrino gl'infiniti mondi mirabili, costituiti dagli stessi elementi, dove i composti sottostiano alle regole dell'eterna variabilità e vicissitudine per il vicendevole scambio degli innumerevoli atomi.

 

Numeri sempre diversi indicano la misura di una realtà che continuamente muta: in due momenti distinti un corpo non conserva le stesse misure; né gli strumenti di misura, né gli operatori permangono uguali a se stessi (ibid., II, 5, p. 153). In questo processo di perpetua differenziazione, i numeri sono ben lontani dal corrispondere ad un valore universale né rivestono in Bruno la funzione loro attribuita dai Pitagorici di rappresentare le cose più diverse, poiché tra cose diverse non può esistere una misura comune: la natura del numero e la natura di ciò che deve essere numerato sono diverse come le teste di chi opera numericamente. Il massimo ed il minimo non sono dunque definibili da un punto di vista quantitativo. Poiché la qualità naturale è liberata da qualsiasi ingerenza matematica ed in natura non si danno realtà commensurabili, tempo e spazio sono depauperati dei caratteri di costanza e universalità e relativizzati in molteplici processi che non conoscono limiti; la quantità risulta inadeguata alla semplicità intensiva del minimo assoluto e all'infinita molteplicità degli individui naturali. L'uguaglianza esiste solo a livello della monade e solo la natura dell'atomo è eterna. "In sostanza si è scoperta la divina natura dell'anima che nessuna differenza o passione può intaccare e quando è soggetta al fato, venendo a far parte di un composto, appena per un solo istante si trova ad essere in una identica condizione e permane nel medesimo ordine numerico" (ibid., II, 6, p. 150), giacché il movimento, il tempo, la sorte non si ripetono mai e quando sono, sono già trascorsi.

 

Grandezze diverse non si riconducono, dunque, ad una misura comune, dal momento che ogni minimo costituisce una precisa unità di misura che ha in sé tutte le caratteristiche della figura finale (ibid., II, 8, p. 163). Figure circolari e figure poligonali sono quindi irriducibili ad un'unica misura. Inutile è ogni tentativo di trasformare il cerchio in altra figura, sia essa un angolo per Platone (ibid., II, 7, p. 161) o un quadrato per  Antifonte (ibid., II, 8, p. 166), poiché il minimo di un cerchio è anch'esso un cerchio ed il minimo di un poligono è anch'esso un poligono.

 

Da tutto questo consegue: l'impossibilità della quadratura del cerchio, l'irrazionalità del rapporto tra circonferenza e diametro (giacché non sono divisibili in uno stesso numero di parti); le leggi di accrescimento o di diminuzione di ciascuna figura seguono criteri e numeri propri. Anche se nel libro "Sui principi della misura e della figura", Bruno sostiene la possibilità di risolvere qualsiasi figura in un triangolo, a sua volta risolvibile in un cerchio, apparentemente in contrasto con le precedenti affermazioni, questi, come ricorda lo stesso Autore, sono principi propri dell'opinione comune, avvalorati dalla consuetudine, matematicamente veri solo per il senso, non per la ragione naturale.  Solo la ragione può cogliere le differenze che si originano da tali operazioni e quelle latenti nella indistinzione delle minime parti. In sostanza, gli errori dei matematici si possono riassumere in due fondamentali: quello della continuità e quello della divisibilità all'infinito. Infatti, le sfere atomiche disposte lungo la diagonale nella figura denominata Campo di Democrito Non formano un tutto continuo (ibid. II, 13, p. 174) ed un cerchio che ruotasse su una retta, scomponibile in infinite parti minime, verrebbe a percorrere in un tempo finito, infiniti punti di essa (ibid. II, 14, pp. 176 segg.). Mentre la continuità negherebbe lo spazio vuoto (da intendersi secondo l'accezione bruniana) [Attraverso il contenuto di questa parentesi di Carlo Monti, si può evincere che egli pone Einstein sullo stesso piano di Bruno; se avesse compreso gli errori di Einstein non avrebbe certo avuto bisogno di tale specificazione, che avrebbe avuto tutt'al più la seguente intonazione: "da intendersi secondo l'accezione intuitiva e non einsteiniana, dato che quest'ultima è l'accezione anti-intuitiva per eccellenza". Per Einstein la fisica era infatti comprensibile ma non intuitiva, in "Physikalische Zeitschrift", Vol. 21: "Allgemeine Diskussion ueber Relativitaetstheorie bei Versammlung deutscher Naturforscher und Aerzte", Bad Nauheim, September 1920)" - ndc], la divisibilità all'infinito vanificherebbe l'esistenza del minimo, quindi la teoria atomistica nel suo insieme. Dal minimo, intorno a cui si aggregano altri minimi consimili, nasce il massimo; si è visto come intorno ad un minimo cerchio centrale se ne possano disporre altri sei uguali al primo: potremo cosi misurare qualsiasi grandezza dall'interno, una volta trovato il principio della sua formazione ed il Campo di Leucippo e il Campo di Democrito potranno condurre dall'osservazione del minimo alla misura di tutte le cose (ibid., III, 2, p. 186). Anche la divisione dell'angolo, operata con mezzi euclidei, trova un proprio limite, al massimo possiamo operare una bisezione ed il limite è rappresentato da una retta. Il minimo, quale è rappresentato nel Campo di Democrito, non è certo individuabile dai sensi.

 

Data una grandezza, si potrà sempre pensare ad una grandezza di misura minore, pur convenendo che esiste un determinato limite nella suddivisione del molteplice: è sufficiente ricorrere alla progressione proporzionale, il che facilita l'individuazione per via indiretta della minima particella di per sé troppo esigua e questo è appunto il metodo del Mordente che il Bruno illustra con la figura che del matematico prende il nome (III, 7, p. 197).

 

Con questo ed altri metodi, Bruno riteneva di poter giungere al minimo di ciascuna grandezza il quale, si noti bene, conserva la medesima forma del tutto: il minimo di un triangolo è un triangolo, il minimo di un arco è una curva. Di qui la falsità delle tavole trigonometriche che si fondano sull'identità del minimo arco con il minimo seno, tanto è vero che gli stessi geometri operano solo

nella sfera, dove gli archi si possono misurare con triangoli curvilinei o sferici (ibid., III, 9, pp. 201-204).

 

Il criterio di misura, dunque, non può essere onnivalente; nessun composto o aggregato è riconducibile ad un'unica caratteristica; le varie parti della materia non soggiacciono alla medesima fortuna; inoltre i metodi che non tengono conto dei residui del calcolo sono erronei: questo in sintesi il senso complessivo della critica bruniana alla matematica del suo tempo (ibid., V, 2, pp. 240-242; III, 9, p. 202; cfr. anche "Articuli adversus mathematicos", art. 46), anche se egli poi non esita a ricorrere al calcolo di approssimazione fino a reperire una misura comune a tutte le grandezze cosicché risulta aperta la via anche per la quadratura del cerchio ("De minimo", III, 10, 11 e 12), mentre nel secondo libro del "De minimo" ne aveva dichiarato l'impossibilità in virtù del fatto che ogni grandezza ha un proprio minimo. Si possono così individuare due opposti atteggiamenti del Bruno: 1) in nome del calcolo rigoroso respinge le tavole trigonometriche e dichiara insolubile il problema della quadratura del cerchio e della trisezione dell'angolo; 2) in base al calcolo dell'approssimazione combatte la dottrina della incommensurabilità, tripartisce l'arco, quadra il cerchio. Già il Cusano aveva creduto di aver trovato un nuovo metodo per risolvere il problema della quadratura del cerchio (del resto criticato dal Regiomontano) e proprio questa soluzione, seppur modificandola e generalizzandola, il Bruno fece sua. Se la verità matematica dipende dalla sua astrattezza, in virtù della separazione operata dalla mente della quantità dal soggetto, ciò non vuol dire che abbia ragione Sesto Empirico allorché afferma che il senso non può cogliere la grandezza matematica, ad esempio la linea matematica (ibid., V, 4, 243). Invero il senso può benissimo cogliere la linea come termine che segna la differenza tra il bianco e il nero: se una cosa è la scienza che si identifica con la contemplazione ed un'altra quella che si identifica con la rilevazione empirica, entrambe hanno per oggetto i vari aspetti inerenti ad un'unica sostanza. Il vero, il sacro, il bene da ogni parte tendono in eterno ad un'unica meta, esistono un unico significato dell'uno ed un'unica sua realizzazione.

 

Scoperta e documentata l'esistenza del minimo, l'Autore procede a individuare i presupposti di ogni misura, vale a dire assiomi, definizioni, teoremi che si rivelano essenziali per caratterizzare tutte le figure che constino degli elementi in essi impliciti. È in questo modo di procedere che si vengono delineando il carattere e la funzione della matematica bruniana che va caricandosi di intonazioni ed accenti chiaramente metafisici: "… ora indaghiamo con cognizioni matematiche tra i numeri e le misure, in altro momento con cognizioni fisiche tra gli elementi delle cose, quindi in prospettiva metafisica in una luce ideale, sovramondana e feconda" (ibid. IV, 1, p. 214 ). La matematica si rivela dunque il presupposto imprescindibile per poter procedere nella ricerca dei più profondi contenuti naturali e per l'ascesa alla contemplazione della Divinità.

 

Il primo capitolo del quarto libro, che contiene l'esposizione dei principi della misura e della figura, tratta della progressione della monade. "Pitagora" ricavò dalla monade la tetrade e dalla tetrade la monade; poiché dalla monade deriva la diade, dalla diade la triade e dalla triade la tetrade, la monade si pone come limite e numero delle cose. Bruno fa sua questa concezione pitagorica secondo cui la monade, la diade, la triade e la tetrade sono i principi di tutte le cose e se noi li assommiamo tra loro otteniamo la decade che contiene tutti i numeri ed è il numero dei numeri. Il numero procede dalla fonte della monade secondo un ordine ben stabilito il cui principio basilare è fornito all'arte dalla natur (ibid. p. 212). Come bene riassume K. Atanasijevich: "In departing from the teaching of Xenophanes that the universe is one, unique and absolute, and from that of Parmenides who descended from Divinity toward nature and ascended through nature back toward Divinity, Bruno establishes that particular things derive their origin from the monad, which is existence, the most common and the most general being; the absolute truth; the source of the world of plurality and diversity" (K. Atanasijevich, op. cit., p. 86). "Nulla... infatti vediamo opporsi negli elementi della natura se non ciò che converge con un'altra cosa nel desiderio dello stesso oggetto, o almeno nel desiderio della propria autoconservazione. Dunque, tutti i contrari, in virtù della materia comune a ciascuno, coesistono nel medesimo genere" ("De minimo", IV, 1, p. 213), non esiste cioè dissonanza alcuna nell'ambito dell'armonia universale.

 

Seguono poi analoghe considerazioni di tipo geometrico (ibid., pp. 213-215) a proposito del minimo inteso come punto, ma l'aspetto più significativo del discorso matematico è da vedere là, dove il Bruno afferma che tre sono le figure archetipe di ogni numero, misura e figura, corrispondenti agli atrii di Apollo, Minerva e Venere (ibid., IV, 2, pp. 216 segg.).

 

Già il Bruno aveva introdotto queste figure negli "Articuli adversus mathematicos", quali sigilli della triade costituita da: Mens, Intellectus et Amor e proprio questa corrispondenza testimonierebbe le implicazioni etico-metafisiche della geometria bruniana (cfr. "Praelectiones geometricae et ars deformationum", testi inediti a cura di G. Aquilecchia, Roma, 1964, nota introduttiva, p. xxv. A proposito dei diagrammi del "De minimo", esaminati nelle edizioni originali, F. A. Yates - "G. Bruno e la tradizione ermetica", trad. ital., Bari, 1969, pp. 347-348 - osserva che essi presentano vari elementi fantastici di decorazioni che non dovevano essere privi di senso, anche se poi eliminati successivamente dai curatori delle opere latine, ma che addirittura potevano rappresentare certi simboli o messaggi cifrati di un'eventuale setta ermetica che Bruno potrebbe aver fondato in Germania), presenti per altro anche là dove si è alluso all'equivalenza del triangolo e del cerchio infiniti. Il cerchio ed il triangolo rappresentano la misura di ogni altra figura e contemporaneamente la massima e la minima figura. Il triangolo massimo è quello circoscritto al cerchio, quello minimo è quello inscritto. Il cerchio ha in sé inscritto il triangolo, ma è esso stesso inscritto in un triangolo. Cosi il cerchio è la misura delle misure e la figura delle figure. Alle definizioni geometriche del minimo e del termine, Bruno fa seguire teoremi enunciati da vari personaggi mitologici che provvedono poi a dimostrarli in maniera curiosa dal momento che ciascuno di essi rappresenta più definizioni e proposizioni di Euclide ("De minimo", IV, 7, pp. 223 segg.).

 

Nel quinto libro, che tratta della misura, si parla della linea retta, dell'angolo e del triangolo. La linea retta, ovvero la distanza più breve tra due punti, è considerata archetipo della verità, poiché le linee curve, che in numero infinito possiamo tracciare tra due punti, sono tutte più lunghe di una linea retta. Analogamente la verità è unica ed unico il suo aspetto; della falsità, invece, innumerevoli sono le forme e le figure, tutte difficili ad intendersi e complicate come la geometria e la filosofia dei sofisti.

 

I presupposti del discorso sono geometrici, ma la conclusione appare chiaramente metafisica come quando si afferma che la linea non è altro che il movimento del punto; la superficie è la linea che si muove; il solido la superficie che si muove, cosicché il punto che si muove è la sostanza di tutto, mentre il punto immobile è la totalità. Ciò vale per l'atomo e soprattutto per la monade.

 

Insomma, la continuità del flusso costituisce il presupposto della sostanzialità dell'individuo.

 

Per concludere, mi sembra opportuno osservare, come del resto ha già notato K. Atanasijevich (op. cit. pp. 96 segg.), che in termini moderni la geometria bruniana potrebbe essere definita come una geometria del discreto, la quale presuppone un discreto finito composto di punti semplici ed indivisibili. E si tratta indubbiamente di una scelta non casuale in quanto Bruno comprende che essa, molto meglio della geometria del continuo, in ragione della sua maggiore semplicità, si adatta ai principi metafisici. Ecco perché è necessario stabilire definitivamente che il numero uno (la monade) è l'essenza di ogni numero, che l'atomo è la sostanza di ogni corpo e che il punto è la sostanza di ogni figura geometrica. La prima supposizione da cui si deve muovere per evitare, in questa direzione, l'obiezione di Aristotele, secondo cui lo spazio non può essere composto di punti indivisibili, perché posti uno accanto all'altro coinciderebbero, cioè non realizzerebbero l'estensione dello spazio, è la supposizione di due specie di punti: le une che sono le minime parti dello spazio discreto e le altre che sono i punti che separano queste parti in modo che esse non coincidano.

 

È questo il senso della distinzione bruniana tra minimo e termine: il minimo inteso come la minima parte da cui è composto lo spazio; il termine inteso come punto di contatto e di separazione tra i minimi, che evita la coincidenza dei minimi stessi.

 

Un minimo non tocca un altro minimo né col suo tutto (perché così coinciderebbe con l'altro minimo), né attraverso qualche sua parte, perché, essendo la parte: ultima e indivisibile, non ha parti. In questo senso il minimo può toccare altri minimi soltanto attraverso il suo termine. Ciò che vale per il minimo inteso come punto, vale anche per il minimo inteso come atomo, cosicché il superamento da parte del Bruno di quelle che indubbiamente erano le maggiori difficoltà sollevate contro la tesi dello spazio discreto, si colloca sia sul piano geometrico che su quello fisico. Si può forse, anzi, affermare che il punto di vista fisico rappresenti per così dire il modello del punto di vista geometrico: i minimi di Bruno, anche quando egli li tratta come minimi matematici, come punti, rimangono sempre atomi del continuo fisico e così i termini, situati tra i minimi, corrispondono allo spazio vuoto fisico. La stessa identificazione del minimo piano con il cerchio e del minimo solido con la sfera deriva dall'identificazione dei minimi matematici con gli atomi fisici del continuo.

 

Ma per intendere meglio quanto è stato fin qui osservato, sarà opportuno ricordare con G. Aquilecchia, che i libri quarto e quinto del "De minimo" sono anticipati dagli "Articuli adversus mathematicos" ed illustrati dalle "Praelectiones geometricae", composte nel periodo patavino, allorché Bruno dovette avvertire l'esigenza di rivendicare la validità matematico-speculativa della propria dimostrazione del minimo. "Per quanto fondata essenzialmente sulle proposizioni e sugli assiomi euclidei, la geometria del "De minimo", quale ora appare esplicata nei nuovi inediti - e già in parte preannunciata negli "Articuli adversus mathemaiicos" - presenta caratteristiche sue proprie in virtù dell'applicazione simbolica ad una tematica etico-speculativa e teologica, conforme ad un metodo che, se può richiamare ad un'antica tradizione di stampo neoplatonico, andrà più particolarmente confrontato con la ancor scarsamente studiata matematica cusaniana e, tramite questa, con la geometria lulliana di cui si è recentemente sospettata l'importanza non solo rispetto all'"Ars" di Lullo, ma altresì per l'interpretazione di aspetti particolari della civiltà rinascimentale" ("Paelectiones", cit., nota introduttiva, pp. XXIV-XXV).

 

2. Di contro ad uomini che considerano la forza del loro intelletto unicamente come mezzo per procurare a se stessi il necessario per vivere, per i quali il fine della vita è la vita stessa; di contro a quelli che, cullandosi nelle proprie agiatezze, fanno sonnecchiare la mente e, ancora vivi, a ragione si possono considerare già morti; di contro a coloro che alla fatica intellettuale sono spronati solo dal bisogno, dominati dalla sete dei profitti, non dall'ansia della verità, si erge l'animo indomito del Nolano, che né i fati avversi, né il male, né la morte sono ancora riusciti a piegare, e si rivela in tutta la sua fierezza nella dedica del "De monade" al Duca di Brunswick. Questi, liberale reggitore di popoli, ha saputo assommare alle ricchezze la felicità dell'ingegno, ma il volgo, proprio perché non abituato

a speculazioni razionali, sembra paradossalmente preferire la "cieca pratica", quasi incarnasse i principi della ragione anziché identificarsi con gli artificiosi espedienti con cui i potenti sottomettono il popolo. Il saggio deve dunque ricorrere ad immagini sensibili atte a tradurre concetti altrimenti inafferrabili, in modo che ognuno possa delle cose cogliere l'essenza. Del resto, i caratteri delle cose sono manifesti, tanto più se consideriamo che noi stessi facciamo parte della natura ed in noi assommiamo tutti gli atti della materia ("De monade", I, p. 300).

 

Gli Antichi classificarono le cose in varie specie, in base alle caratteristiche particolari, e ne riconobbero la comune derivazione da una fonte suprema: in natura, dunque, ogni membro di qualsiasi specie rimanda ad ogni altra specie che, inserita a sua volta nel processo di derivazione dalla monade, secondo le differenze della diade e della triade, si esplica contenendo in sé tutti i numeri. Proprio a questi numeri corrispondono quelle figure naturali in cui la natura scolpisce le proprietà delle cose e le leggi delle loro vicissitudini; come si vedrà, sul fondamento di questa corrispondenza, l'uomo potrà divenire attivo collaboratore dell'opera della natura.

 

Tutte le specie risultano formate dalla stessa materia (da Timeo e da Platone denominata diade in opposizione alla monade) ed in tutte è un unico spirito animatore di modo che essa ed il suo impulso risultano costanti. La varia disposizione del Fato fa sì che tra gli individui appartenenti alla medesima specie si verifichi una differenziazione tale da poter affermare che ogni specie rappresenta tutte le altre; talora queste divergenze si fanno cosi accentuate da divenire addirittura opposizione che, prima latente nella materia divisibile e differenziata quantitativamente in corrispondenza ai vari gradi della scala della monade, poi esplicandosi, rende l'uomo il nemico più temibile dell'uomo stesso (ibid., p. 302). Tuttavia l'uomo è incorso in una sorte migliore rispetto a quella degli altri esseri, per aver avuto il dono della mano. Se per Bruno l'anima dell'uomo non differisce dall'anima degli altri viventi, il poter divenire dell'anima universale dipende dalla struttura della corporeità che le è propria; se da essa dipende la vita, la forma di vita dipende dalla particolare relazione di forma e materia. Cosicché sono le qualità naturali a porre le differenze tra gli uomini e la prassi strumentale a porre le differenze tra i viventi: l'eccellenza umana deriva, dunque, dall'"organo degli organi", dalla mano (cfr. anche "Spaccio", in "Dial.", it., cit., p. 887, e n.I). Il naturalismo bruniano converge qui con la ripresa della concezione anassagorea della mano e della teoria lucreziana della civiltà originata - dall'antagonismo degli uomini con gli altri viventi, dallo sfruttamento della natura per i bisogni umani.

 

Lo stesso uomo si è costruito la sua attuale superiorità, in virtù del passaggio che egli ha compiuto e che gli era possibile compiere dalla natura alla cultura, grazie alla sua particolare struttura corporea. La costruzione della civiltà trova il suo fondamentale presupposto in un particolare strumento di cui dispone il corpo umano e questo è la mano. Se Bruno ha certamente presente Aristotele ("De partibus animalium", IV, 10; "De anima", III, 8), egli restaura invero la posizione anassagorea per giungere, attraverso la mediazione della critica lucreziana ("De rerum natura", IV, vv. 820), alla concezione finalistica degli organi corporei, rovesciando cosi la stessa tematica aristotelica della mano ("L'uomo, se è diventato dominatore invitto delle altre specie", scrive F. Papi, "non lo deve ad un disegno teologico che regola il ritmo dell'universo, ma lo deve al fatto che il suo stesso comportamento naturale, la strumentalizzazione della sua propria corporeità, che è un evento comune a tutti i viventi che devono sopravvivere, lo conduce fuori dal ciclo naturalistico. È quindi il tipo di strumento corporeo primario che possiede la complessione umana a determinare la rottura dell'equilibrio naturalistico e a introdurre nel mondo la dimensione della civiltà. L'uomo, per continuare ad essere natura, diviene civiltà": "Antropologia e civiltà nel pensiero di G. Bruno, Firenze, 1968, p. 212; il tema della mano si trovava del resto sviluppato in un'opera del Ronsard, uscita a Parigi nel 1571, intitolata "Paradoxe" e dedicata a Carlo IX e notevole è l'influenza del Ronsard sull'atteggiamento negativo del Bruno nei confronti della riforma protestante; cfr. F. A. Yates, "The religious policy of G. Bruno, in "Journal of Warbourg and Courtauld institutes", III, 1939-40, p. 198; comunque, la problematica delle mani si manifesta come topos letterario comune alla letteratura cinquecentesca, disponibile, per altro,

alle più varie utilizzazioni). La mano rivela lo spirito, produce opere feconde, avvalora il senso, esegue i dettati della mente ("De monade", VI, p. 361); nel palmo della mano è scolpita la figura della pentade, che rivela la legge e il destino della vita. Chi sappia decifrare i caratteri del libro stampato nelle mani può leggere il corso della vita; con l'imposizione delle mani (nel terzo libro del "De occulta philosophia", Agrippa afferma che un requisito indispensabile che il mago deve avere coincide con la dignificazione dell'uomo: se una particolare condotta di vita costituisce il presupposto per conseguire la dignificazione necessaria al mago religioso, alcune cerimonie conferiscono questa dignità e tra esse rientra appunto l'imposizione delle mani), grazie alla forza che promana da questo segno, l'uomo si difende da nemici occulti e, sfruttando la virtù dell'occulta essenza della pentade, il mago opera artifici malefici su statue trafitte da cinque ferite. Ogni azione viene compiuta dalle mani e passa, dunque, attraverso il quinario.

 

Dalla decade e dai suoi elementi ogni cosa riceve la propria configurazione e la razionalità della natura si esprime nel passaggio dal numero indeterminato alle forme definite da cui ogni cosa è caratterizzata. Così dieci sono le figure che presiedono alla specie umana e rimane salva la distinzione tra geometria ed aritmetica nella fusione della ricerca dei numeri primi elementari con quella sulle figure elementari allorché, a tutto vantaggio di chi lo intende, Bruno viene mostrando "in figure migliori di quelle che il volgo conosce gli elementi sensibili dei numeri" e si propone di "esaminare gli elementi delle figure sensibili di questo genere nei numeri di questo genere" ("De monade", I, p. 304), i quali non si identificano per altro con i termini propri dei matematici e dei geometri, ma con quelle figure naturali e sigilli che si rivelano nelle leggi per mezzo delle quali la natura governa le cose. Inoltre Pitagora, Zoroastro, Ermete babilonese videro in questi numeri il principio essenziale per la cooperazione uomo-natura e proprio perché l'uomo può innalzarsi alla conoscenza di tali numeri, che altro non rappresentano se non la varia disposizione dei principi, e di queste figure, egli è il più sapiente degli animali.

 

Se vogliamo stabilire una corrispondenza tra gli enti numerici e gli enti geometrici, la monade corrisponde al punto, la diade alla linea, la triade alla superficie, la tetrade al solido e quest'ultima rappresenta appunto la natura del corpo e poiché essa è simbolo della giustizia, attraverso essa Dio si manifesta in tutte le cose (ibid. V, pp. 337 segg.). Ai concetti matematici di punto, linea, piano e solido corrispondono poi i concetti fisici di seme, mutamento, formazione e compimento (ibid., p. 350). Secondo un processo ciclico di rinnovamento, la natura fa sì che ogni cosa sia coinvolta dal ritmo vicissitudinale del tutto e possa così godere della vita: per questo attraverso i quattro punti cardinali corrono i pianeti, quattro sono le stagioni e così via. La distinzione delle specie è parallela alla distinzione dei numeri; le cose si differenziano in rapporto alle figure, manifeste o nascoste. La figura è il numero sensibile e il cerchio è la figura progenitrice di ogni altra (ibid. II).

 

In esso ogni altra figura è compresa, ad esso tende allorché aumenta o diminuisce indefinitamente. Divenendo ogni figura così simile al proprio principio, il cerchio è affine alla monade, progenitrice di ogni numero e fondamento della molteplicità. Poiché il cerchio, in cui il tutto, la parte, il termine, il principio, il fine, il moto e la quiete coincidono, è una figura sempre uguale, serve di norma a sé e alle altre (ibid. II, p. 307); alla forma circolare tende ogni cosa che raccoglie nel proprio centro tutta la forza d'attrazione per farvi convergere le parti e conservare così la propria specie. Circolare è il movimento che distribuisce alle parti le proprie vicissitudini, ma non unico è in natura il centro di innumerevoli specie: ogni parte gode di una propria circonferenza e di un fine specifico, il quale è peraltro identificabile con il fine di qualsiasi altra parte, vale a dire con la propria conservazione e appunto a questo fine mira qualsiasi movimento, il cui termine diviene inizio di un nuovo moto mentre tutto si pone come termine ed origine del moto e della quiete. Ogni opera della natura, anzi la vita stessa, è un cerchio ed il dispiegarsi circolare dell'anima dal suo centro cioè dal cuore origina l'organismo con le sue membra (ibid. p. 309). L'anima è quindi centro delle cose e la sua essenza si esplica nel tutto; essa rappresenta l'imprescindibile principio vivificatore del tutto che appare come un'unità indivisibile e se il principio del movimento è riposto come nel centro di una sfera, lo spazio è tutto centro ed il tutto è un cerchio od una sfera infiniti.

 

Si tratta di un misticismo assai vicino alla teosofia ermetica, quale per esempio può essere paradigmaticamente rintracciata in Giorgio Veneto, là dove emerge l'idea di un'unità attiva, vincolo delle cose intese come parti del grande ed eterno animale. Tema indubbiamente non estraneo al pensiero del Bruno, invero molto sensibile alle suggestioni ermetiche, come l'altro, assai caratteristico, secondo cui bellezza, ordine e regolarità dell'universo si configurano nella forma geometricamente perfetta della sfera e per cui Dio, principio ed unità di tutte le cose, tutto comprende nella sua essenza, sfera infinita, il cui centro è dovunque e la cui circonferenza è in nessun luogo (cfr. "In Scripturam sacram problemata", c. 322 v, "Corpus Hermeticum", I, pp. 153-154).

 

Dopo avere enumerato alcune proprietà geometriche del cerchio ("De monade", II, p. 3I2), Bruno procede dalla geometria all'aritmetica, dal cerchio al principio di tutti i numeri vale a dire alla monade, ovvero l'uno, l'ente che comprende in sé tutte le forme ed è appunto rappresentato dal cerchio. "Il cerchio unico è il Fato che con ferrea legge domina tutte le cose e per cui le cose contingenti si uniscono con una certa libertà e con un fine, e ogni cosa è tuttavia necessaria, anche se la volontà della natura e quella della ragione si combattono qui dove puoi cogliere non il tutto, ma le cose particolari. Unica è la legge in nome della quale attraverso la natura abbiamo avuto origine da un alto principio, per la quale ci conserviamo in vita e, dotati di senso e di ragione, siamo vigorosi; infine, a tali alte origini ritorneremo, rifluendo dalla regione in cui la vita tramonta" (ibid.).

 

La generazione delle cose riferita alla scala dell'essere, deriva dal senario, tramite il concorso di sei elementi; sei sono le specie del movimento; sei sono gli atti che concorrono al compimento della generazione i cui soggetti sono identificati dai cabalisti rispettivamente nel fuoco, nell'acqua, nell'olio, nel vento, nelle nubi e nella pietra. Il processo ciclico della nascita dal seme e del ritorno ad esso è ritmato dall'ordine del senario ed in funzione della misura del raggio e delle sue leggi l'efficiente ha distinto l'orbita universale (ibid. VII, p. 380). Infatti il raggio è la misura della circonferenza.

 

Le singole cose non sussistono, dunque, autonomamente; esse sembrano assumere una posizione effimera nell'economia della trasformazione cosmica e la libertà viene ad avere un senso logico nella misura in cui si raggiunga l'identità col tutto.

 

In questa prospettiva, secondo taluni, la difesa bruniana delle opere umane concilierebbe la stessa libertà umana con la necessità del processo divino; secondo altri, Bruno accoglierebbe la soluzione teologica del libero arbitrio. Giustamente però ha osservato Gentile, come nota E. Garin, che "il libero arbitrio di Bruno... è difetto che lo sviluppo della ragione deve a poco a poco colmare" (cfr. E. Garin, "Storia della Filosofia italiana", Torino, 1966, p. 700).

 

La volontà umana afferma dunque la propria autonomia nel momento in cui esplica, attuandoli, gli stessi decreti divini, ma si ricordi di sottolinearne il contenuto naturalistico e acristiano, tipica espressione della fiducia dell'uomo rinascimentale che appare affermata nelle capacità operative di un'umanità liberata dal cosiddetto peso della trascendenza ed in una visione estremamente razionalizzata della realtà. Il riconoscimento di un quid che trascenda la conoscenza umana non comporta l'accoglimento del soprasensibile; l'ideale dell'umanità implica in Bruno l'ideale dell'autonomia e il deciso superamento di quei residui teologico-religiosi ancora chiaramente ravvisabili in Cusano e nell'Accademia fiorentina. La Fortuna è, per così dire, l'imponderabile che si accompagna agli eventi umani; poiché agisce secondo un'indifferente legge naturale, essa è egualitaria; il suo comportamento apparentemente contraddittorio dipende unicamente dalle condizioni oggettive in cui essa opera. La possibilità della Fortuna è offerta dalla Natura a tutti; essa dipende per altro anche dall'attività dell'uomo rivolta in tal senso. Cosi dal rapporto uomo-natura scaturisce anche il nuovo concetto del lavoro ed accanto all'esaltazione del significato del lavoro traspare un disprezzo della ricchezza trasmessa ereditariamente ("De monade", VII, p. 376).

 

Ogni opera compiuta è indicata dal numero sei e tale fu infatti il numero di giorni destinato all'opera della creazione. Per questo l'esagono raffigura la casa del lavoro, distinta in sei parti, destinata dall'artefice supremo all'uomo che, secondo i dettami della propria sorte naturale, quanto più è dotato, tanto più deve impegnare nel lavoro le proprie doti. Solo il lavoro può soddisfare a meno che, come già si è detto, non si tratti di un'anima animalesca che goda solo del frutto delle fatiche paterne, ma per essa non sarà piacevole la vecchiaia, tramonto di una vita trascorsa inutilmente, e la morte sopraggiungerà a stroncare una vita mai vissuta. Non devono scoraggiare gli eventuali ostacoli, poiché qualsiasi impresa è possibile se la si vuol fare. Non importa, comunque, il riuscire, ma l'essersi impegnati al massimo ed il sentirsi degni delle lodi negate dalla sorte e destinate al vincitore (considerazioni analoghe si possono trovare nel "II Dialogo della Cena", cfr. "Dial. it.", cit., p. 63).

 

La continua crescita spirituale dell'uomo costituisce in Bruno il necessario presupposto del realizzarsi del progresso, della conquista della verità. L'idea del progresso umano si è posta nel Rinascimento come soluzione storica del conflitto tra antichità e modernità, tra principio di autorità e principio di libertà. Infatti il senso del progresso umano si rivela nella possibilità di creare nuove realtà distinte da quelle esistenti, con una capacità simile a quella divina (proprio in questa prospettiva dell'esaltazione della fecondità dell'opera umana, P. M, Schule, seppur attenendosi alle opere etiche italiane, ha ritenuto di poter ravvisare in Bruno una tappa importante verso l'affermazione della "filosofia attiva dei nostri giorni": "Perché l'antichità classica non ha conosciuto il macchinismo?", in "De Homine", fasc. 2-3, 1962; oggi anche in appendice a A. Koiré. "Dal mondo del pressappoco all'universo della precisione", a cura di P. Zambelli, Torino, 1967, pp. 132-133). Il fine della propria conservazione, in altre parole la necessità, è il pungolo che muove la laboriosità dell'ingegno umano, in una indissolubile unione tra attività intellettuale e attività materiale e la nuova verità è da vedersi appunto nella divinità dell'uomo, quale microcosmo, sintesi del tutto e che su tutto opera con la sua azione trasformatrice, confortato dalla consapevolezza della vanità del timore di fronte alla morte; sono temi questi la cui matrice può senz'altro essere rintracciata in Agrippa, in cui appare giustificata nel principio dell'universale mutazione, alla luce del quale il concetto di distruzione appare privo di qualsiasi significato ("De occulta philosophia", III, pp. CCXXXIIII, CCLXXXIIII; I, pp. XLIII, XLIIII).

 

Si tratta di spunti e di temi non isolati, ma largamente compresenti nel panorama culturale che agisce su Bruno e nel quale un posto certamente significativo è occupato dal pensiero di M. Ficino. Sono motivi che s'inseriscono nella tematica dominante dell'uomo microcosmo, che si pone come punto d'incontro tra la razionalità del tutto e la razionalità delle cose e che, grazie alla propria capacità di inserirsi attivamente e operativamente in tale intreccio di piani, è in grado di porsi come il dominatore di una realtà che sembra prestarsi a ricevere, come appare chiaro appunto nel pensiero di Ficino, l'impronta del suo volere ed il sigillo del suo agire. Ed è un discorso questo ricco di presupposti e fecondo di sbocchi. Dal primo punto di vista esso nasce dalla consapevolezza che la realtà, ad ogni suo livello, può essere ridotta a misura dell'uomo e dal secondo punto di vista esso implica le capacità dell'uomo di utilizzare tutte le forze operanti nel mondo naturale, inserendosi nell'infinita gamma delle possibilità dell'essere per trasformarle in attualità concrete, tali da testimoniare la potenza dell'agire umano, quale risulta dal suo efficace innesto all'interno di quella vita cosmica che, lungi dallo schiacciare l'autonomia dell'uomo, costituisce lo sfondo imprescindibile del suo emergere (scrive E. Garin in "Medioevo e Rinascimento", Bari, 1961, p. 168: "Di contro ad uno scheletro d'uomo che si muove in un mondo di scheletri geometrizzabili si leva l'esaltazione dell'ideale ermetico ove la volontà, l'opera, l'atto, produce e dissolve le forme, crea e si crea, si muove liberamente proteso nel futuro in un infinito di possibilità, in un'apertura senza confini"). È questo probabilmente il senso più genuino ed autentico della corrispondenza e quindi della similarità tra i diversi settori della realtà ("M. Ficini Opera omnia", I, Torino, 1962, facsimile ed. Basilea, 1961, "De vita", III, 13, p. 548) ed è questo il senso della corrispondenza formale tra magia ed astrologia (M. Ficini, "De mysteriis", in op. cit., II, pp. 1901 segg.; "De vita", III, 18, "op. cit.", p. 556) quali appaiono non solo in G. Veneto e C. Agrippa ("De incertitudine, op. cit.", cap. XII) ma anche in significative pagine del Ficino la cui singolare umanizzazione del neoplatonismo fu certamente presente alla riflessione bruniana. È questo l'intento palese di certe famose pagine del "De mysteriis" come dei "Libri de vita", in cui non può sfuggire il tentativo di presentare la propria concezione astrologica come uno strumento capace di indirizzare l'azione dell'uomo e di caratterizzarne la sua più esatta ed equilibrata collocazione all'interno del mondo naturale nonché il tentativo di inserire tali indicazioni in una sorta di programmazione personale a sfondo magico-operativo, nell'intento di affermare con forza l'esigenza di una sua autoprogettazione che abbia come scopo costante un'opera di finalizzazione totale della natura stessa ai disegni della ragione. In questa direzione, ciò che risalta con evidenza, è il capovolgimento delle prospettive antinaturalistiche del platonismo che in Agrippa corrisponde all'esigenza di autonomia ed originalità, la cui soddisfazione è affidata alla magia (cfr. P. Zambelli, "Umanesimo magico-astrologico e raggruppamenti segreti nei platonici della preriforma", in "Umanesimo ed esoterismo", Padova, 1960, p. 112). L'influenza di Agrippa su Bruno si accompagna all'istanza, centrale nell'ermetismo, di una armonica corrispondenza tra l'uomo e il mondo, tra la ragione umana e la razionalità delle cose.

 

Metafisica e neoplatonismo, cabala, esoterismo e ideale di una conoscenza pansofica si trovano nel poema fusi insieme allorché misteri cabalisti da una parte e conoscenza razionale della verità ideale dall'altra si presentano ambedue quali utili strumenti per fondare l'unità del sapere. È presente nel discorso bruniano l'esigenza di un ideale gnoseologico operativo, accanto alla ricerca di un meccanismo di simboli che abbia applicazione pratica. All'insegna della dialettica delle forme ideali si scandisce il ritmo della realtà e sulla base di questo nesso parallelo di forme e strutture, Bruno viene edificando il proprio metodo conoscitivo che dal piano sensibile muove verso l'assoluta certezza filosofica. Se le diverse qualità degli oggetti sensibili risultano dalla diversa disposizione e numero degli elementi costituenti, il cui principio motore è un principio intrinseco, non l'ordine gerarchico è il criterio di differenziazione degli esseri, ma il tipo di produttività oggettivata che la struttura corporeo-spirituale di ogni essere è in grado di esplicare: lavoro o magia. Così l'azione magica trova il suo presupposto nella partecipazione dell'universale nell'uomo e la tradizione magico-cabalistica e quella delle scienze occulte s'inseriscono organicamente nell'ambito della speculazione bruniana allorché Bruno dopo aver costruito la propria teoria atomistica e dopo aver chiarito la propria posizione sulla divisibilità della materia, prima di descrivere la struttura dell'universo e dei corpi celesti, deve spiegare le combinazioni elementari e giustificare le forze che vi presiedono. Di qui l'appello bruniano alla sapienza pitogorico-platonica a proposito del rapporto numeri-figure-fenomeni naturali; accanto a queste osservazioni, Bruno introduce contenuti di chiara natura magica, attribuendo ai numeri e alle figure geometriche una potenza specifica. Questi simboli e sigilli, attraverso cui traspare l'opera della natura, ma che pochi possono cogliere, derivano la loro importanza dalla stretta corrispondenza tra i simboli e le cose, cosicché, per dirla con E. Cassirer, l'uso dei simboli ed immagini viene ad essere non "complemento esteriore", ma "veicolo del pensiero stesso" (E. Cassirer, "Individuo e cosmo nella filosofia del Rinascimento", Firenze, 1950, p. 149). Se nel "Sigillus sigillorum" ("Opera latine conscripta", recensebat F. Fiorerrtino, Neapoli, MDCCCLXXXIV, II, 2, pp. 174-175) la logica conseguenza del principio secondo cui in tutte le cose penetra la mente animatrice dell'universo si era tradotta nell'esigenza di una linea di continuità tra i vari gradi conoscitivi e si era espressa quindi in chiave gnoseologico-psicologica, per cui ogni cosa ha in sé l'intelletto universale modificato secondo la propria natura, la dialettica che racchiude in sé il processo eterno del reale, che nella somma dei suoi momenti s'identifica con il supremo principio conoscitivo, informa di sé il "De monade".

 

La convinzione platonico-cabalista del Bruno confidante in un medesimo ordine per quanto riguarda il piano della realtà e quello della conoscenza, si giustifica alla luce della sua adesione al lullismo e alla mnemotecnica. Data la stretta connessione tra le articolazioni del pensiero e quelle dei termini corrispondenti, il ritmo stesso della realtà può essere colto nell'unità del moto delle idee e del moto delle cose. Consapevole di tale istanza lulliana, Bruno, nella lettera dedicatoria al Senato dell'Università di Wittemberg, premessa al "De lampade combinatoria", afferma che dal lullismo Scoto aveva tratto la "theologicam metaphysicam", Cusano i misteri, Paracelso la sua medicina. La tematica lulliana sembrava cosi offrire le premesse per ricostruire la trama del tutto.

 

Matematica e magia si presentano come le guide migliori per la contemplazione del puro intellegibile. Della magia si hanno due specie, l'una basata sulla credulità, l'altra che potenzia i sensi ricercando affinità e repulsioni delle cose e giungendo così a dominare la natura e le sue forze (cfr. "Sigillus sigillorum", in "Opp. lat", cit., II, 2, p. 198; cfr. anche "Spaccio de la bestia trionfante", cit., p. 782; cfr. C. Agrippae ab Nettesheym, "De Incertitudine et vanitate omnium scientiarum et artium liber", anno MDCXXII, Francisci Maria Naldini, Roma, cap. XLII). La magia è dunque per Bruno ministra della natura, potenziatrice del potere umano. "La sua idea di un'intima vitalità naturale", scrive E. C. Vasoli, "scandita in ritmi eterni ed universali può cosi mutarsi nella fede nella sorgente divina delle forze naturali, operante con una sua potenza originaria infinita, che è pure riconducibile a semplici termini di linguaggio" (E. C. Vasoli, "Immagini e simboli nei primi scritti lulliani e mnemotecnici del Bruno", in "Studi della cultura del Rinascimento", Manduria, 1968, p. 423). Quanto E. C. Vasoli osserva, alludendo ai temi del "De magia", delle "Theses de magia" e del "De magia mathematica" ("Opp. lat.", cit., III, pp. 393-454, 459-491, 494-506), bene si adatta al "De monade" e si potrebbe precisare che qui la potenza infinita della sorgente divina delle forze naturali viene posseduta nella misura in cui la fede si naturalizza ed interviene il rito come semplice strumento operativo ed evocatorio. L'esito dell'indagine bruniana non è puramente mistico e tanto meno religioso; la sua essenza è riposta nel consapevole scaturire dell'energia naturale dalle "contractiones", che permette il dominio su noi stessi, sulla natura e sulle sue leggi. Interrogato sui testi dai giudici romani, lo stesso Bruno ammise (A. Mercati, "Sommario del processo di G. Bruno", Città del Vaticano, 1942, p. 106) di aver conservato presso di sé libri di autori condannati e proibiti dall'indice, come ad esempio quelli di Lullo, la cui influenza si estendeva dal campo della pura logica combinatorio-menmonica a quello proprio dei problemi medico-chimici (significativa in proposito l'opinione di F. A. Yates: "The art of memory has become in G. Bruno's occult transformation of it, a magical-religious tecnique, a way of becoming joined to the soul of the world as part of a hermetic mistery cult": "The art of memory", London, 1966, p. 259).

 

Non a caso la divinità umana è ricercata negli uomini che, come Lullo, hanno conoscenza di tutte le scienze e che, grazie al potenziamento delle proprie facoltà intellettuali e capacità creative, sono in grado di penetrare i misteri della natura, in cui la scoperta anassagorea del tutto in tutto ha messo in luce come in ogni cosa siano nascoste virtù che devono essere rivelate e potenziate. Così le scienze aventi per oggetto la struttura della realtà sono utili alla magia, intesa come prassi trasformatrice della natura, per cui quanto più la scienza progredisce tanto più il mago va gradualmente perdendo quel particolare carattere di misteriosità. Il mago non è dunque altro che un sapiente e corrisponde ad una nuova immagine dell'uomo che contiene in sé numerosi spunti di indubbia derivazione ermetica (E. Garin si riferisce alla polemica Fludd-Keplero quale valido punto di riferimento per chiarire le componenti dell'ermetismo rinascimentale, nei richiami a Ficino, Pico, P. Giorgio Veneto, Agrippa, Patrizi, Bruno: "La cultura filosofica del Rinascimento italiano", Firenze, 1961, pp. 143-I50 ). "La forma universale del tutto", scrive E. Garin, "è dunque anima e vita, oscura e latente talvolta, ma ovunque in qualche modo presente; onde non a torto il mago interroga e parla e domina le cose, e il negromante evoca i morti e in qualche modo li comanda" (cfr. E. Garin, "Storia della Filosofia" cit., p. 693 ). Si può parlare di esseri inanimati solo da un punto di vista relativo; in realtà il principio vitale è riposto in ogni cosa. La dimensione dell'omogeneità del tutto è dunque la natura e poiché in ogni composto è il principio connettivo della vita, si giunge alla concezione neoplatonica dell'animazione universale, presupposto della magia. L'omogeneità fisica e metafisica di un universo infinito e animato garantiscono la perenne relazione dell'uomo con la totalità. Di tale relazione l'uomo è dominatore purché conosca le regole di connessione delle cose. "La coscienza magica si sostituisce alla rassicurazione che deriva dalla fede religiosa dell'essere creatura privilegiata di Dio" (cfr. F. Papi, "Antropologia e civiltà nel pensiero di G. Bruno" cit., p. 5). Mentre, sotto il profilo gnoseologico, il problema si prospetta nel senso di considerare sotto l'aspetto dell'unità ogni ente esistente, l'elemento caratterizzante del pensiero bruniano sembra essere proprio rappresentato dall'immagine di un universo infinito e vivente, totalità organica di cui partecipa la molteplicità degli esseri che nella loro singola individualità incarnano e riflettono l'unitario ed universale principio dell'animazione cosmica. Questo concetto non solo è richiesto come premessa della prassi magica, ma prepara quello nuovo di natura. Riguardo all'incompatibilità talora sostenuta dalla critica bruniana tra animazione universale e materialismo atomistico, qui occorre mettere in rilievo come anche per Democrito gli atomi sferici fossero anime e come il materialismo atomistico giungesse al Bruno soprattutto attraverso la voce di Lucrezio al quale gli atomi si rivelano i semi delle cose e Venere si palesa universale genitrice. Sulla base di questa concezione della fecondità dell'atomo si è visto come Bruno abbia costruito la propria dottrina atomistica.

 

Un unico massimo cerchio, un'unica massima sfera, entrambi infiniti, abbracciano tutte le cose (non è qui fuori luogo ricordare ancora l'importanza che presenta nell'ambito della rielaborazione ermetica di Giorgio Veneto la figura perfetta della sfera assunta ad esemplificare tra l'altro l'ordine dell'universo: solo nell'opposizione dei contrari si realizza l'unità dell'universo, dunque la presenza del male e la corruzione materiale sono elementi necessari dell'armonia universale: cfr. "In Scripturam Sacram problemnata", tomus quintus, de septem sapientum doctrina, 296, p. 322; p. 318, Bernardinus Vitalis, Venetiis excudebat mense Iulio! MDXXXVI) e poiché contemporaneamente quest'unico cerchio è anche perfettamente contenuto in tutte le cose, esso è anche minimo. Così in un unico spazio infinito, tutto si trova in tutto e per tutto, ed il centro è dovunque. Nell'universo sono: la forza agente che fa convergere in uno tutte le cose in modo che ogni cosa divenga centro di tutte le altre; la materia

infinita, che rappresenta il substrato inferiore e che esaurisce la sostanza delle cose e che, con un eterno corso circola ovunque tutta per tutte le parti cosicché ogni cosa in natura si può considerare principio, fine, forma, atto, materia, efficiente, infinito, immenso, minimo. Un'unica legge presiede alle cose, sia che si considerino singolarmente oppure nel loro reciproco ed universale rapporto, come unico è il centro da cui si irraggiano i raggi di uno stesso cerchio. In questo senso il cerchio, ovvero la monade, rappresenta la sostanza di tutte le cose ("De monade", II, pp. 312 segg.). E dalla monade, appunto, Bruno prende l'avvio per svolgere poi il suo studio sui numeri ed occuparsi del due, del tre e cosi via, non perdendo per altro di vista i capitoli che lo stesso Agrippa ("De occulta philosophia", II, 4-13) ha scritto sui numeri, anche se Bruno ne altera gli schemi; capitoli in cui il nesso matematica-magia trova la sua più completa applicazione là dove il processo di produzione operato dalle virtù naturali appare regolato dal numero e dalla misura cosicché l'affermazione pitagorica secondo cui i numeri hanno più realtà delle cose naturali, sembrerebbe pienamente confermata.

 

Nel momento in cui Agrippa fa corrispondere ai numeri virtù specifiche e sembra contemporaneamente utilizzare le tradizionali concezioni sull'anima del mondo, egli ricorre per altro anche al materiale tratto dal "Corpus hermeticum" elaborandolo in senso magico e mostrando così di forzare la magia di tipo ficiniano e di avvicinarsi a quella di tipo pichiano ("Le misteriose allusioni ai segreti ermetici e cabalistici", scrive F. A. Yates, "la dignificazione che il mago consegue a questo livello, riflettono sensibilmente il tono dell'orazione pichiana sulla dignità dell'uomo. Ma Agrippa ~1 spinge ancora più in là di Pico poiché è evidente che la magia del... mondo... intellettuale... è di fatto una magia sacerdotale, religiosa, implicante il compimento di veri e propri miracoli": "G. Bruno e la tradizione ermetica", trad. ital., Bari, 1969, p. 158 ), pur rimanendo fedele alle posizioni dei

magi cristiani e attribuendo ai numeri un significato cristiano, trinitario, pseudodionisiano e cabalistico, mentre i numeri bruniani, come osserva F. A. Yates, assumono un tono puramente egiziano, ermetico e pitagorico.

 

Ai vari gradi di esplicazione della monade nella realtà corrispondono in Bruno le varie scale: uno è l'intelletto universale ordinatore, uno è il principio primo da cui tutte le cose procedono, una è l'anima che tutto vivifica. Dalla monade, essenza di tutte le cose, da cui si genera ogni numero e differenza, procede la diade; la monade, il primo pari ed il primo dispari sono a loro volta compresi dal numero tre e come questo numero comprende le specie di tutti i numeri, la figura ad esso corrispondente, il triangolo, implica ed esplica qualsiasi altra figura. A tale processo produttivo presiede la triade Mente, Intelletto, Amore, oppure Vero, Bello, Buono, ovvero le tre Grazie ed appunto la tavola delle Grazie indica la costruzione matematica della triade che presiede ogni cosa. Nel numero dunque è rappresentata tutta quanta la sostanza ("De monade", IV, p. 326) che, sebbene unica, si manifesta in diversi rapporti quantitativi: si giustificano in questo modo le diverse forme di vita e le diverse forme dei composti. La posizione trinitaria del Bruno va così assumendo precisi caratteri neoplatonici ed ermetici. Lo spirito, con la sua potenza generativa, non è dunque specifico, ma è comune a tutti i generi corporei, tuttavia si converte in ciascun individuo nel seme della specie a cui appartiene, cosicché l'uomo non nasce dall'uomo, ma dal suo spirito che è nel suo seme (ibid., V, p. 354). Ad ogni specie di generazione corrisponde un soggetto specifico della relativa forma sostanziale la quale, peraltro, nella sua assolutezza, è ricavabile solo dall'insieme di tutti i corpi. Cosi Bruno accetta e giustifica la concezione di materia prima ed indefinita propria dell'alchimia secondo la quale lo spirito permea di sé i quattro ordini della natura. Chi conosca la potenza dei numeri, la forza delle immagini, la potenza infinita e continua dello spirito diffusa nell'universo non potrà disconoscere la validità delle arti magiche che, esercitate da demoni o da uomini, esperti di numeri e di segni, confermano la provenienza di tutte le cose nell'universo dai medesimi principi naturali, secondo un ordine stabilito (ibid., VI, p. 369).

 

Non trascurabile appare nel "De monade" l'uso del commento necromantico di Cecco d'Ascoli alla Sfera del Sacrobosco con lunghe citazioni che testimoniano l'alta opinione che Bruno doveva avere del negromante, allorché si tratta del numero dieci e delle dieci Sefirot che agiscono su tutte le creature, situate nell'intersezione dei cerchi che si distinguono all'interno della sfera massima. È evidente il richiamo ad una magia di tipo evocatorio, a carattere demonico, allorché si nota come gli spazi vitali siano universalmente contrassegnati e come una ben determinata legge ed un ordine preciso imperino e continuino ad aver valore anche per ciò che è già trascorso: tutti lo possiamo constatare allorché dalla considerazione delle costellazioni e dei segni della mano, per conoscere la misura della vita, ci si rifaccia al principio universale della misura allo stesso modo con cui tutte le forme possono essere espresse ricorrendo ad un metodo universale per mezzo di un unico cerchio, la cui circonferenza venga divisa in parti che, prese due a due, corrispondano al numero dei lati.

 

L'aspetto essenzialmente metafisico del "De monade", come lo stesso Bruno precisa nella dedica dell'opera, giustifica l'esposizione geometrica che potremmo senz'altro definire un'avventura nel campo delle dimostrazioni, ma che può risultare più accessibile se si tiene presente l'illustrazione che lo stesso Bruno ebbe più tardi a darne nel trattato dell'Ars deformationum, aggiunto alle "Praelectiones geometricae" del periodo patavino (cfr. G. Aquilecchia, "G. Bruno", Roma, 1971).

 

Certo è, però, che il linguaggio matematico usato dal Bruno nel "De monade" appare in molti casi diverso e sostanzialmente più approssimativo di quello adoperato nel "De minimo". Cosi, ad esempio, come è stato osservato dal Tocco (F. Tocco, "Le opere latine" cit., p. 204) "per costruire il pentagono, invece di servirsi del metodo euclideo della media ed estrema regione... immagina una contorta e fallace costruzione, che diresti trovata con il compasso e che certo conduce a risultati approssimativi". Su questa linea, del tutto approssimativa, appare la costruzione dell'ettagono, là dove nel "De minimo" l'Autore aveva condannato perfino l'approssimazione della tavola dei seni, e cosi via di questo passo per la costruzione dell'ottagono e dell'enneagono. Insomma, la matematica del "De monade" sembra inserirsi in una prospettiva in cui il rigore geometrico e lo sfondo euclideo, che con tutti i limiti erano certamente presenti nel "De minimo", cedono il posto ad un atteggiamento simbolistico che si spiega all'interno di una prospettiva mistico-pitagorica.

 

3. Il "De immenso", mentre amplia la polemica contro la fisica aristotelica, riprende quasi letteralmente l'esposizione della cosmologia bruniana dei Dialoghi italiani cosicché il Fiorentino, nella sua prefazione alle "Opere latine", fu tentato dalla "non necessaria illazione" di riportare agli anni del periodo londinese l'inizio della composizione del poema (cfr. G. Aquilecchia, "G. Bruno", Roma, 1971), avvalendosi anche dei riferimenti bruniani presenti nello stesso "De immenso" all'ambiente paesaggistico londinese. Ma se la tematica dei Dialoghi italiani viene ripresa, essa è ordinata in un poema lucreziano (cfr. E. Garin, ARIN, "G. Bruno. I Protagonisti della Storia Universale", 35, p. 472), all'insegna del rifiuto del peripatetismo ed insieme della critica a tradizionali motivi neoplatonici (per gli spunti antiplatonici del "De immenso", cfr. A. Ingegno, «In margine al "De immenso"», in "Rinascimento", XXI, pp. 88-108, dove si chiarisce, tra l'altro, come nella prospettiva di un universo infinito, non abbia alcun senso la separazione tra mondo sensibile e mondo intellegibile e si mette in luce come: «nel "De immenso", nella grande costruzione metafisica del poema» Bruno "abbia attribuito la credenza nell'esistenza di entità immaginarie alla tendenza propria dell'uomo ad ipostatizzare quello che era il semplice risultato del suoi processi di astrazione, la tendenza, in altri termini, ad assegnare una realtà propria al concetto inteso quale entità distinta ed autonoma rispetto alle sue manifestazioni", p. 93), all'insegna dell'assimilazione e della trasfigurazione del copernicanesimo, della recezione del messaggio cusaniano, della meditazione delle esperienze di una vita intera.

 

I primi due capitoli del Poema rispondono puntualmente all'introduzione dei dialoghi italiani "De la Causa" e "De l'infinito" ("De la Causa" cit. pp. 191-92; "De l'infinito" cit., p. 365); l'inizio del poema latino sta ad indicare una prospettiva che non si svolge basandosi sul senso e sull'esperienza, limitati alla comprensione del finito, ma sulla "mens" e sull'intelletto, i quali solamente possono aprirsi alla comprensione dell'infinito stesso.

 

Se ogni filosofia è condizionata da un tema centrale e come tale si presenta quale sviluppo di una intuizione, potremo affermare che il motivo dominante della filosofia bruniana è costituito da una continua spiegazione dell'idea di infinito, dove l'infinito è insieme Dio, Verità, Bene, Uno e tutto l'universo. Cosicché tra scienza ed etica le distinzioni restano imprecise: la riflessione sull'infinito sbocca in una cosmologia; essa, a sua volta, si conclude in una teoria dell'essere (H. Vedrine, "La conception de la nature chez G. Bruno", Paris, 1967. p. 149). Il discorso bruniano sull'infinito è dunque discorso cosmologico e metafisico insieme; esso dovrà essere analizzato e seguito in tale sua duplice dimensione e sarà proprio in questa oscillazione di piani che potremo vedere come il meccanicismo si unisca al teleologismo, la scienza si apra alla poesia, l'atomismo conviva con l'animismo ed il lucrezianesimo con il neoplatonismo. Soltanto apparentemente il punto di partenza è teologico; dall'analisi dell'idea di Dio (quale Bruno la concepisce nei suoi scritti più noti dalla "Cena" al "De immenso") si può dimostrare come sia contraddittorio negare agli effetti quel carattere d'infinità che si ammette, come postulato o assioma di base, essere proprio della potenza creatrice di Dio (il modo di procedere non è nuovo; tralasciando per ora l'ovvio richiamo a Cusano - i. e.: implicatio ed explicatio - basti ricordare, di passaggio, questo caratteristico passo del "Nova de universis philosophia" di F. Patrizi, "Pancosmia", 8: "la somma potenza, bontà, volontà creò un mondo infinito a testimonianza della somma gloria di Dio"). Il discorso bruniano si rivela comunque subito complesso ed articolato ("De immenso", I, XI. Cfr. "De l'infinito" cit., pp. 384-385): in Dio alla capacità di produrre deve corrispondere una uguale possibilità di realizzazione. Non ci può essere hiatus in Lui tra potenza ed atto, a pena di cadere in una contraddizione logica. Ammettere che la causa infinita sia limitata dall'esterno vuol dire negare la stessa definizione iniziale, vale a dire il concetto di causa infinita; ammettere che la limitazione provenga dall'interno è ugualmente assurdo poiché l'operare di Dio non può essere concepito altrimenti da quello che è: in Lui la libertà coincide con la necessità, anzi con la "necessitas naturae" ("De immenso" I, XI, p. 454). Ne consegue che la creazione non può essere considerata se non come lo sviluppo dell'essenza divina. Punto di vista teologico? Credo di poter rispondere negativamente. Esigenze metafisiche e morali sussistono non tanto in ragione di un contributo alla soluzione di un problema teologico, quanto per costituire il fondamento della nuova cosmologia. Sullo sfondo dell'omogeneità dell'infinito, nell'ambito dell'idea di una natura in cui la causalità è inseparabile dai suoi effetti (ed è quindi implicito il rifiuto di una libertà che sfugga alle leggi della necessità: "De immenso", VIII, IX, p. 803), emerge chiaramente la tendenza bruniana a divinizzare la natura e a naturalizzare Dio, dove l'atteggiamento prevalente è, senza dubbio, il secondo. La natura costituisce, dunque, la struttura ontologica a cui deve necessariamente adeguarsi ogni umano tentativo di interpretazione del reale; essa, nella sua struttura rigidamente normativa, costituisce il quadro logico universale in cui si colloca ogni singolo fenomeno. Nel quadro della sua vivace polemica antiperipatetica, il Bruno fa osservare che non è la natura che deve adeguarsi ai sensi o alla ragione, ma sono i sensi e la ragione che devono adeguarsi a ciò che essa incontestabilmente rivela (ibid. VII, XIV, p. 778).

 

In questa prospettiva di una natura che guida l'uomo verso la conquista della verità, il modello è rintracciabile in Lucrezio ("De rerum natura", II, vv. 60-62). La natura si rivela quale presupposto dell'esaltazione della potenza umana, indipendentemente da qualsiasi valore sovrumano. Tuttavia l'uomo non è ricercato di per sé, ma nell'indissolubile e reversibile nesso con la natura; la riscoperta di una natura autentica, a cui si è indebitamente sovrapposta la ragione, il ripristino della sua lex si pongono come i momenti più salienti dell'imperativo bruniano.

 

L'occhio della mente, così spesso invocato nel corso dell'opera, non è altro che l'espressione figurativa e fisica di questo necessario atto di umiltà del ricercatore, atto di umiltà che è, però, nello stesso tempo, frutto della decisione estrema di rompere con tutta una tradizione imperniata sul più vivo senso di ossequio e di fedeltà all'inderogabile principio dell'autorità. Sullo sfondo sono Lucrezio e la sua concezione famosa dei "foedera naturae" (ibid. V, vv. 920-21) ed ancora Lucrezio appare come il richiamo più ovvio in una delle celebri confutazioni della concezione finitistica dell'universo ("De immenso", I, VII, p. 442. "De l'infinito" cit., p. 373. "De rerum natura", I, vv. 968-983. A proposito del famoso elogio lucreziano del primo libro, P. Boyancé osserva: "ciò significa che Epicuro ha riconosciuto il carattere limitato del nostro mondo, ha ammesso l'esistenza di molti altri mondi simili a questo, ha sostenuto, insomma, l'infinità dello spazio": "Lucrèce et l'épicuréisme, Paris, I963, p. 44; era quanto Bruno scorgeva nella sua esaltante visione dell'infinito: il segno della potenza dello spirito umano che, varcati gli angusti limiti del finito, si apre ad una nuova visione del mondo e delle cose, contro l'idea aristotelica di un mondo finito, perfetto ed eterno, governato da Dio) propria della concezione peripatetica, là dove si ricorda l'esempio di colui che, recatosi per ipotesi agli estremi confini dell'universo, scaglia un dardo la cui funzione liberatrice emerge nel contesto generale del pensiero di Bruno come in quello di Lucrezioanalogamente, la famosa finzione poetica del libro IV del "De immenso", del gigante sepolto sotto il peso della Trinacria, è rivolta polemicamente contro gli uomini che esaltano gli dèì fuggiti di fronte alla minaccia del nemico e ignorano gli uomini di alto ingegno che sfondarono il palco dipinto che pareva chiudere il mondo. Anche il gigante, sentendo che la terra è un pianeta, si alza libero, quasi che su di lui non gravi più il peso dell'isola sicana (analogamente, la famosa finzione poetica del libro IV del "De immenso", del gigante sepolto sotto il peso della Trinacria, è rivolta polemicamente contro gli uomini che esaltano gli dèì fuggiti di fronte alla minaccia del nemico e ignorano gli uomini di alto ingegno che sfondarono il palco dipinto che pareva chiudere il mondo. Anche il gigante, sentendo che la terra è un pianeta, si alza libero, quasi che su di lui non gravi più il peso dell'isola sicana). Man mano che egli procede nel suo lungo ed esaltante viaggio mentale per le vie infinite dell'universo, Bruno appare a se stesso quello che Epicuro apparve a Lucrezio: come colui che ha aperto le porte della natura, dove la forza della sua anima ha vinto ogni ostacolo percorrendo gli spazi infiniti dell'universo (Lucrezio, "De rerum natura", I, vv. 62-79). Indubbiamente, nell'orizzonte culturale in cui opera il Bruno, questa collocazione storica, che all'Autore non poteva certo sfuggire, dell'idea dell'infinito ha un profondo significato e, in rapporto alla sua portata antiteologica, assume una decisa intonazione naturalistica ed immanentistica che, mentre riflette immediati echi cusaniani (cfr. "De docta ignorantuia", II, 5), sta a dimostrare con chiarezza l'opportunità solo formale della separazione tra Dio e l'universo, in quanto non è possibile porre Dio senza l'universo. Anche se l'immanenza non implica identità tra Dio e l'universo, essa implica che un termine non sia concepibile senza l'altro. Una interpretazione dualistica del pensiero di Bruno, priverebbe il concetto di causalità divina di tutto il suo senso e porterebbe alla separazione aristotelica tra atto e potenza. La riflessione sull'Uno conduce Bruno a rifiutare lo schema della processione e a non opporre la sostanza divina che ai modi diversi in cui si manifesta. Cosi Bruno giunge alla teorizzazione dell'esistenza di un'unica scala, che ha il suo punto di riferimento nel concetto di unità, per cui la natura discende alla produzione delle cose e l'intelletto si innalza alla loro conoscenza e alla comprensione dell'essere e della sostanza delle cose nella loro unità; tuttavia non si tratta di annullare nell'unità dell'universo la differenza sussistente tra le cose, ma di considerare queste nella loro molteplice individualità numerica. Le innumerevoli nature particolari costituiscono l'unità rispetto alla sostanza, essenza e natura; rispetto al numero, soggiacciono alle vicissitudini ("De immenso", II, 4, p. 477; V, I, pp. 659 e segg.; "De la causa" cit., p. 323 e cfr. anche A. Ingegno, "Il primo Bruno e l'influenza di M. Ficino", in "Rivista critica di storia della filosofia", 1968, 2, pp. 165 segg. Già il Tocco osservò che: "il Bruno, muovendo dal monismo neoplatonico... lo sorpassa per far ritorno al monismo presocratìco, con lieve oscillazione tra l'immobilità di Parmenide e la perenne mobilità di Eraclito": "Le opere latine" cit., p. 350. Anche P. Michel nota un'oscillazione nel richiamarsi del Bruno ora al concetto dell'unità presocratica, ora a quello dell'unità neoplatonica, cioè da un lato al monismo pamenideo, dall'altro all'uno trascendente neoplatonico: di qui deriverebbe l'oscillazione bruniana tra due modi di procedere: "La cosmologie de G. Bruno" cit., p. 78. A me sembra, invero, di poter concordare con quanto ebbe ad osservare Limentani: "posta l'antitesi tra l'uno ed il composto, tra idee e fenomeni, tra il mondo intellegibile archetipo e il mondo etico sensibile, si rappresenta quello alla maniera di Parmenide, mentre si assume valida per questo l'intuizione eraclitea, si sottrae il primo ad ogni cambiamento e si riconosce dominar nel secondo il fato della mutazione; dal punto di vista della fisica ha ragione Eraclito, dal punto di vista della filosofia ha ragione Parmenide": "La morale di G. Bruno", Firenze, 1924, p. 25).

 

Allorché il Bruno introduce il concetto dell'eterna identità dell'infinito universo considerato nella sua totalità, esso si deve collocare nella prospettiva della riflessione bruniana sulla infinita potenza universale, la lucreziana "summa vis infinitatis", per cui "eodem sunt semper", in una eterna corrispondenza tra infinite possibilità e realtà, in virtù dell'azione sempre uguale e costante della "summa vis infinitatis". In altre parole, dal problema del rapporto tra "complicatio ed explicatio" il Bruno muove per giungere all'approfondimento della teoria della divisione della materia che si compie con l'atomismo elaborato nei poemi latini da non giudicarsi, come invece ritiene il Tocco, un abbandono del monismo, ma un suo ulteriore approfondimento. Una è dunque l'essenza dell'universo, che è uno secondo la sostanza, nell'infinito ed in ciascuno dei suoi membri. Sia l'infinito cosmico che l'infinito divino sono ugualmente inesplorabili dai nostri sensi; la testimonianza della semplice intuizione empirica non costituisce un fondamento per l'affermazione dell'infinità dello spazio, in quanto sia i sensi che l'intuizione non sono in grado di condurci alla comprensione del vero concetto di infinito. Nel libero atto dello spirito trova la propria origine l'intuizione dell'universo infinito che, richiesta come atto dell'io, da forma della psicologia e dell'etica della Rinascenza diviene motivo determinante della nuova cosmologia. Cosicché l'eroico affetto dell'autoaffermazione infinita di sé è legato indissolubilmente alla visione dell'infinità del cosmo ("De immenso", VII, I, 2; VIII, I, p. 786; cfr. "De infinito" cit., p. 370; "ibid.", pp. 531-32; "De gli eroici furori" cit., pp. 997-998; Lucrezio, "De rerum natura", II, vv. 1052-1057, 1064-1066). In altri termini, se argomenti etico-religiosi avevano fatto optare Aristotele in favore dell'unità del cosmo, proprio per salvare il valore specifico dell'uomo, in Bruno è la dignità etico-intellettuale dell'io che rende necessario un nuovo concetto del mondo, in modo da permettere l'attuazione concreta di tale dignità.

 

Qualsiasi sia l'argomentazione volta a dimostrare e a sostenere tale infinità, si rifaccia essa a presupposti cusaniani o recuperi invece il senso del più lontano discorso lucreziano, al di là delle singole affermazioni e dei singoli riferimenti, essa riflette un profondo e vibrante pathos soggettivo per cui l'infinità dell'universo appare come lo sfondo imprescindibile di un agire umano che, per realizzarsi nella sua pienezza, deve sbarazzarsi di qualsiasi costrizione, affermandosi nella inesauribilità di uno slancio prepotentemente costruttivo. Occorre, in sostanza, prendere atto che, nel momento in cui salta la concezione gerarchica dell'universo aristotelico-tolemaico, si afferma la visione dell'"homo faber", strettamente unita alla nuova visione dell'universo. S'inserisce a questo punto, nel discorso bruniano, l'esigenza di un ideale gnoseologico operativo che in ogni molteplicità ravvisi l'uno, nella diversità l'identità. L'arte più perfetta è quella che più si accosta alla natura, è presente in tutte le cose, perché in tutte è l'anima del mondo. Dal momento che tale attività formatrice è in tutto, si può concordare con quei filosofi secondo i quali ogni cosa esiste in tutte le altre ("De immenso" V, IX, p. 686).

 

La mathesis è la miglior guida alla contemplazione del puro intellegibile e poiché la dimensione della omogeneità del tutto è la natura e poiché in ogni composto è il principio connettivo della vita, si giunge alla concezione neoplatonica dell'animazione universale. Il neoplatonismo risulta invero trasfigurato nella concezione di una natura ricca dei contenuti propri del mondo archetipo; in sostanza, sotto il profilo gnoseologico, il problema si prospetta ancora una volta nel senso di considerare dal punto di vista dell'unità ogni ente esistente. L'elemento caratterizzante del pensiero bruniano sembra dunque essere rappresentato dall'immagine di un universo infinito e vivente, totalità organica di cui partecipa la molteplicità degli esseri che nella loro singola individualità incarnano e riflettono l'unitario ed universale principio dell'animazione cosmica.

 

Un celebre argomento, su cui Aristotele aveva centrato la sua cosmologia finitistica ("De caelo", I, 7), si fondava sul fatto che il movimento implica passaggio da un luogo all'altro, il che è escluso dal concetto di infinito attuale (R. Mondolfo, "L'infinito nell'antichità", Firenze, 1956, "passim"): in altri termini, per Aristotele, se ammettiamo che l'universo sia mobile, dobbiamo escludere che esso sia infinito.

 

Argomento quanto mai specioso agli occhi del Bruno il quale nota come coloro che ammettono corpo e grandezza infinita non pongano mezzo né estremo in quella; coloro che hanno pensato infinito il vuoto, l'etere, ecc., non gli hanno attribuito gravità, levità o moto, regione inferiore, superiore o mezzana ("De immenso", II, 2; "De l'infinito" cit., p. 405). Non è assurdo ammettere un moto infinito non dell'universo, ma degli atomi in esso disseminati: perché i corpi celesti, come gli esseri viventi, sono sottoposti ad una continua vicenda: noi tutti siamo testimoni che la terra invecchia e come la terra tutti i pianeti ed i soli. Può darsi anche che i corpi celesti si disfacciano; la materia è in indefinito movimento e i corpi in dissoluzione possono entrare nella cerchia di nuove formazioni, ma non per questo è detto che cambi la faccia dell'universo, come non muta lo stato dell'organismo animale o vegetale per l'incessante scambio degli elementi che lo compongono ("De immenso", II, 5; "De l'infinito" cit., p. 361, p. 413; Lucrezio, "De rerum natura", V, vv. 91-99). Il ragionamento aristotelico è sostanzialmente vizioso: parte dal concepire l'infinito al di sopra di ogni determinazione e finisce poi con l'esaminare le conclusioni che deriverebbero dal determinarlo attraverso il moto, la gravità, il mutamento, ecc., cioè attraverso un modo di procedere escluso nella stessa definizione iniziale: c'è insomma una contraddizione a voler determinare il luogo dell'infinito che, per principio, esclude ogni localizzazione. In realtà l'infinito è per Bruno uno, immobile ed eterno ed il problema si sposta, consiste essenzialmente nel comprendere come possa sorgere il movimento in questo infinito, giungendo cosi a distinguere ciò che è nell'infinito (come vedremo i mondi presi uno ad uno) e ciò che è infinito: solo per questa via, pur partendo dalla identificazione dell'infinito con l'uno immobile ed eterno, gli sarà possibile ritrovare spazio, tempo e successione ("De immenso", II, 9, p. 489). Sembra potersi leggere tra le righe del discorso bruniano che Aristotele confonde l'infinito con l'immenso: per Bruno invece esistono due tipi di infinito: l'infinito-infinito e l'infinito-finito; questi, ben lungi dal portare in se stesso la propria verità, rimanda al primo che lo comprende e lo avvolge. Se pertanto l'infinito è, come dice Aristotele nel "De caelo", ciò che non può essere percorso, le obiezioni derivanti dal movimento implicano l'abbandono di tutta la fisica peripatetica. Il problema si aggrava a proposito dell'ultima sfera: che cosa è che la localizza? Che c'è al di fuori di essa? Che cosa le imprime il movimento (ibid. I, 6, p. 436 segg.)?

 

La risoluzione aristotelica non è altro che un vano espediente dialettico e quale sia il rapporto tra il principio immateriale ed il mondo materiale resta, in verità, piuttosto oscuro. Se anche con Palingenio ammettessimo uno spazio infinito esterno al mondo, pieno di luce e che sia abitacolo degli Dèi e sede del primo mobile, la difficoltà resterebbe immutata. Per Aristotele, la teoria del luogo, inteso come limite del corpo contenente, assume il suo significato quando il luogo sia inteso quale determinazione finale del movimento naturale; s'inquadra quindi puntualmente nell'ambito di un universo finito. Ma se la terra gira intorno al sole, essa non è più il centro assoluto di ogni corpo grave e se il cielo delle stelle fisse non è altro che una illusione ottica, il luogo non può più essere considerato come l'immobile contenente delle cose. Non si deve accettare il senso comune: se il Vesuvio, una volta considerato da vicino, è apparso al Bruno più fertile e rigoglioso del monte Cicala (ibid. III, 1, p. 510), al cui confronto prima quello gli era apparso brullo e privo di vegetazione; se, man mano che si sposta il centro dell'orizzonte si sposta anche la periferia, e cosi via, non si vede come ci si debba ciecamente limitare alle indicazioni del senso comune, senza arrivare a comprendere che il senso si corregge con il senso stesso, quando questo sia guidato dalla ragione.

 

Se la terra appare al centro dell'universo per i suoi abitanti, tale apparirà la luna per chi viva su di essa, o qualsiasi altro pianeta. Lo spazio infinito è disseminato di infiniti soli e di infiniti mondi, le terre, che ruotano intorno ad essi come al loro stesso principio di vita e di animazione. Conclusioni queste ultime senza dubbio ricche di interesse, in cui il meccanicismo materialistico di tipo lucreziano si salda con una visione animistica dell'universo. Dopo aver mostrato come I'idea di un universo finito non sia più sostenibile di quella di un universo infinito, dopo aver mostrato le contraddizioni dell'ipotesi classica, soprattutto quelle inerenti l'ultima sfera, Bruno giunge ad affermare come l'idea di infinito si imponga con evidenza necessaria per sostenere, poi, come in tale universo si collochi una pluralità infinita di mondi (cfr. in particolare i libri II, III, VI e VII del "De immenso"). In sostanza, dall'infinità dì Dio Bruno giunge all'infinità della natura, di qui all'infinità dei mondi. Se nella formulazione di tale visione dell'universo concorrono certo elementi culturali diversi, quello che tra di essi emerge e costituisce come il modello della concezione cosmologica del Bruno è l'immagine lucreziana dell'universo infinito e della infinita pluralità dei mondi ("De rerum natura", II, vv. 1048-1086). Il rifiuto della concezione finitistica di Aristotele nonché la formulazione dell'idea di infinito, non sono soltanto il segno della sostituzione di una visione astronomica ad un'altra, quanto l'espressione di una precisa scelta che si colloca sul piano di una contrapposizione che investe due concezioni della vita destinate a divergere man mano che si approfondiscono e si chiariscono ("De immenso", II, I, p. 461; "De l'infinito" cit., p. 400).

 

Recuperando una formula cusaniana, Bruno afferma che l'uno si svolge esplicandosi in forme molteplici che esso complica come totalità. Si può così risalire dalla molteplicità all'uno, mediando ciò che parrebbe irrimediabilmente separato. Per Aristotele, si è visto, i contrari si escludono ("Fisica", I, 6), ma accanto alla via regia della logica si è formata tutta una tradizione contraria alla riduzione della complessa varietà del reale entro i termini di formule rigide e schematiche. Si tratta della logica dei contrari: metodo interpretativo che, sorto sul terreno della tradizione neoplatonica, ebbe a svilupparsi fecondamente soprattutto sul piano teologico: già presente in Platone, fu ripreso da Plotino, da Proclo, dallo Pseudodionigi e da alcuni Padri greci, per riapparire poi nella tradizione mistica ed ermetica e trovare una sua articolata sistemazione nella concezione di Nicolò da Cusa, che ne ha fatto un metodo rigoroso per una logica antiaristotelica. In questa prospettiva, essa è recepita dal Bruno che se ne serve per chiarire la sua interpretazione del reale basata sul monismo della sostanza e per mediare ciò che a livello empirico sembrerebbe irrimediabilmente isolato nella sua singola determinatezza finita. Al limite, cioè, nella dimensione dell'infinitamente piccolo o dell'infinitamente grande gli opposti coincidono: il minimo arco coincide con la minima linea, la curva infinita coincide con la retta infinita; oppure, su un piano diverso e più concretamente fisico, il minimo freddo coincide con il minimo caldo. Al di là, però, dei singoli esempi, quasi sempre viziati da una parzialità di prospettiva, il metodo della logica dei contrari sembra servire al Bruno per salvare la molteplicità da un lato e la sua visione monistica del reale dall'altro (questa logica dei contrari, variamente giudicata dagli interpreti, è apparsa al Troilo - "La filosofia di G. Bruno", Torino, 1907, p. 80 - non "più che un episodio nel sistema filosofico di G. Bruno"; e se anche per il Tocco essa ha un valore puramente approssimativo, alla Vedrine - op. cit., p. 168 -, pare che senza di essa "tutta la filosofia di Bruno rimarrebbe incomprensibile. Essa sola in effetti permette di attribuire un posto al finito e di mostrare in che modo esso può mediarsi nell'infinito... L'infinità dell'uno, l'infinità di perfezione e di grandezza ingloba tutto il finito trasformandolo. La coincidenza dei contrari valorizza, in qualche modo, il finito: e pone gli elementi in relazione tra di loro. Ben lungi dall'essere inutile, essa dà cosi un contenuto positivo all'infinito che evita di confondersi con l'essere indifferenziato di Parmenide. E poiché il finito non ha valore che immediatamente inglobato nell'infinito, l'essere cessa di porsi come totalmente inesprimibile").

 

In realtà, sembra davvero che la logica dei contrari sia nel Bruno l'estremo frutto di uno sforzo di razionalizzazione del reale che ha il suo cardine nel superamento del sensibile. Occorre porci sul piano della relativizzazione dei concetti fisici legati alle opinioni del senso comune, relativizzazione che comincia con una sorta di esperienza mentale, la quale a sua volta consiste nel considerare tutti i superamenti possibili in uno spazio infinito. Si scopre allora che esistono sistemi diversi con centri di riferimento relativi; ogni astro si comporta come un sistema per il corpo che gli appartiene, ma appartiene esso stesso ad un insieme più vasto. Il metodo resta ipotetico, perché Bruno non dà prove di fatto di ciò che sostiene; del resto, non si tratta di giudicare attraverso gli occhi di Copernico o di Tolomeo: egli, Bruno, in quanto filosofo, ha la propria responsabilità e, soprattutto, il proprio lume naturale. Ed è in fondo proprio seguendo tale lume che egli supera Cusano e Copernico giungendo alla visione degli innumerabili mondi che si muovono in uno spazio infinito, che appare come l'unico contenente dei corpi, come ciò che tutti li unisce: è cosi che si giunge a relativizzare il finito e a divinizzare l'universo. È vero che il copernicanesimo sembra per molti versi costituire la chiave di volta per comprendere il pensiero di Bruno; sarà comunque bene osservare, se pure rapidamente, che i testi bruniani non sempre aiutano lo storico che cerchi di chiarire i termini della questione: accanto alle entusiastiche, quasi liriche esaltazioni dell'astronomo polacco, non mancano le riserve, i rilievi critici e accanto all'accettazione, allo sviluppo di quella che a prima vista può apparire come l'intuizione fondamentale, il vario articolarsi del discorso bruniano non riesce a dissipare le perplessità che molti interpreti hanno mostrato di avere per quanto concerne la penetrazione dell'impalcatura matematica che sostiene la nuova concezione cosmologica la quale, se pare dunque accolta nella sua teorizzazione di una visione eliocentrica dell'universo, non pare compresa nella molteplicità degli aspetti che a tale visione si ricollegano strettamente.

 

Scrive il Notano in un luogo famoso: "qui io invoco te, dotato di una mente venerabile; l'infamia dell'oscuro secolo non sfiorò il tuo ingegno e la tua voce non venne sopraffatta dallo strepitante mormorio degli stolti, o generoso Copernico; le tue parole riecheggiarono alla

mia mente in quei teneri anni (l'espressione "teneri anni" sembra alludere ad un contatto giovanile con il copernicanesimo; di fatto, quando esso avvenga è impossibile dire; quel che è certo è che il copernicanesimo è al centro della riflessione bruniana fin dal 1584, cioè dal periodo della "Cena de le Ceneri"; comunque tuttta la parte matematica del "De revolutionibus" non è compresa dal Bruno che cita ampiamente il I Libro, lasciando per altro in ombra gli aspetti tecnici) in cui ritenevo estranee al senso e alla ragione quelle cose che ora afferro con le mani e che, dopo averle trovate, tengo ben strette" ("De immenso", III, 9, p. 563). "Più studioso della matematica che della natura", Copernico non ha saputo però trarre tutte le conseguenze implicite nei suoi principi: di qui certi arcaismi, come l'ottava sfera, ed il rifiuto di ammettere il movimento del sole; arcaismi ed errori che, solo se filosofo, egli avrebbe potuto evitare (i giudizi critici degli interpreti su questo atteggiamento chiaramente espresso dal Bruno non mancano; secondo la Vedrine - "op. cit.", p. 221 - "all'astronomia matematica il Bruno sostituisce un'astrofisica che, nel suoi principi, se non nei risultati, appare un ritorno ai postulati metodologici della filosofia antica", per L. Firpo "la sua anticipatrice adesione all'eliocentrismo non ha alcun fondamento critico, mero accoglimento di una dottrina che, scardinando la terra dal centro dell'universo, si inseriva nella propria intuizione metafisica e che egli avrebbe con lo stesso slancio abbracciata anche se non avsse avuto il minimo fondamento nell'esperienza e nel calcolo": "Scritti scelti di G. Bruno e T. Campanella", Torino, 1949, p. 20). Sta di fatto, però, che la configurazione matematico-astronomica del

copernicanesimo appare in Bruno oscillante ed incerta: oscillante, perché mentre, tanto per citare un aspetto, nella Cena ("Loc. cit", p. 168) attribuisce alla terra quattro movimenti, nel "De immenso" (III, 10. Per quanto riguarda Bruno, Copernico e la loro attribuzione dei movimenti alla terra, in rapporto alle differenze riscontrabili da un confronto del dialogo italiano la "Cena de le Ceneri" ed i corrispondenti passi del "De immenso", cfr. A. Ingegno, "In margine al De Immenso del Bruno", in "Rinascimento", 21, pp. 108-115, dove si sostiene come la "variatio centri" testimoni la fedeltà al quarto moto della "Cena") gliene attribuisce due; incerta, perché la ricostruzione geometrica e cosmologica del nuovo universo copernicano appare approssimativa, conseguenza più di una speculazione filosofica che di un attento calcolo matematico. Ma sia pure in questi termini, la costruzione cosmologica, quale appare nel suo esito finale, cioè nel "De immenso", non manca di interesse anche sul piano scientifico: i moti della terra, come si è detto, si riducono a due: quello diurno di rotazione intorno al proprio asse, quello annuale di rivoluzione intorno al sole; il terzo moto, come nota lo stesso Bruno, è stato ammesso da Copernico in base a ragionamenti puramente astronomici e senza tener conto della natura stessa della terra. In sostanza il terzo movimento appare al Bruno sospetto e comodamente rinunciabile, ammettendo che l'asse della terra resti parallelo a se stesso durante tutta la rivoluzione annuale, il che è sufficiente a spiegare la variazione delle stagioni e l'ineguaglianza dei giorni e delle notti. Ma se il movimento della terra rappresenta per il gran pubblico l'aspetto più nuovo delle idee di Copernico, per gli specialisti il movimento dei pianeti e della luna forniscono incontestabilmente la miglior prova in favore della nuova teoria: Copernico ne è molto cosciente e Reticus nella "Narratio prima" celebra con entusiasmo i miglioramenti apportati dal maestro su questi punti particolarmente delicati e significativi. Ora non si ha l'impressione che Bruno abbia adeguatamente riflettuto su tali questioni: tranne qualche oscillazione a proposito della luna, praticamente non distingue tra pianeti e satelliti; li accomuna tutti in contrapposizione ai soli, nell'unica definizione "terre" ("De immenso", I, 3, p. 428). Ammette che la terra e la luna si muovano sullo stesso epiciclo il cui centro è il sole; utilizza la stessa spiegazione per descrivere i rapporti tra Venere e Mercurio (ibid., II, 9, p. 493). Assistiamo in sostanza al primato del ragionamento verosimile sul

calcolo e sulle osservazioni (ibid., V, 8, pp. 683-684). Senza dubbio l'ordine dei pianeti è rovesciato: essi si muovono lungo circonferenze di diametro quasi uguale, ma seguendo dei piani differentemente inclinati sull'eclittica e ciò al Bruno basta per spiegare il diverso modo del loro apparire agli occhi degli abitanti della terra. Nella critica bruniana al copernicanesimo (ibid. III, 10 e V, 9), è senza dubbio opportuno mettere in luce il ruolo svolto dalla riduzione dei corpi celesti entro lo schema della contrapposizione terra-sole con la conseguente abolizione del concetto di satellite e l'altrettanto conseguente corollario secondo cui la terra e la luna si muovono sullo stesso epiciclo; riduzione, affermazione e corollario che, nel loro organico insieme, rappresentano lo sbocco coerente del rifiuto bruniano del concetto aristotelico di gerarchia (ibid., VII, 8).

 

Riassumendo, possiamo dire che la critica che il Bruno rivolge all'astronomia copernicana essenzialmente mette in luce come egli aderisca ad una concezione cosmologica che se da un lato sembra risentire di influssi platonico-pitagorici, dall'altro si presenta come poggiante su presupposti materialistici (infatti nell'omogeneità costituzionale di ogni parte dell'universo, la distinzione può aver luogo soltanto sulla base di una prevalenza dell'elemento igneo, o dell'elemento acqueo, a loro volta espressione dei due principi naturali del caldo e del freddo: cfr. N. Badaloni, "La filosofia di G. Bruno", Firenze, 1955, p. 85): si è già avuto modo di notare come entro la varia e composita sintesi bruniana sia possibile scorgere un'eco dei lucreziani "foedera naturae"; la natura ha le sue leggi, le sue inderogabili costanti che, una volta scoperte, costituiscono lo sfondo imprescindibile di qualsiasi interpretazione della realtà e dell'universo. Comunque, qualunque sia l'inflessione della bruniana interpretazione della realtà, sta di fatto che in lui cosmologia e metafisica finiscono con il coincidere: per abbandonare il vecchio mito della quinta essenza, per superare la distinzione tra mondo sublunare e mondo celeste è necessario postulare l'unità dell'universo, un'unità che sembra presentarsi in un duplice senso: da una parte una sorta di unità orizzontale del cosmo, identificata nello spazio infinito, dove si muovono infiniti corpi; dall'altra una unità ontologica per cui tutti gli astri sono sullo stesso piano perché composti dagli stessi elementi ("De immenso", III, 8, p. 488). Il nostro sistema solare costituisce come il modello in base al quale si può ammettere che al di là di esso, altre infinite terre ed altri infiniti soli si muovano nell'universo. Se il principio che, al di là del molteplice, costituisce l'unità metafisica è la vita cosmica che pulsa in ogni parte del tutto, l'anima mundi (P. H. Michel, op. cit., p. 114), per cui il più sperduto essere partecipa di una universale animazione, il principio che costituisce, per così dire, l'unità fisica, è rappresentato dallo spazio, concepito come la condizione stessa del darsi della realtà ("De immrnso", I, 8). Esso rappresenta la condizione logica e fisica di qualsiasi oggetto; gli astri stessi nascono e scompaiono nella perpetua vicenda del tutto: ciò che resta, identico nella sua eterna immobilità è lo spazio, elemento costitutivo primo della realtà fisica come l'unità della realtà numerica  (ibid., pp. 445-447). Lo spazio dunque è una realtà fisica o meglio è la condizione dell'esistenza fisica degli oggetti; alle espressioni aristoteliche di limite immobile, di intercapedine tra le sfere, Bruno può ben sostituire quella di continuo omogeneo in cui i corpi si muovono. Lo spazio dunque, come condizione logica di pensabilità del reale, come condizione dell'esistenza stessa dei corpi e del loro movimento, è inseparabile dal corpo: come non è possibile pensare un corpo senza uno spazio, così non è pensabile uno spazio senza il corpo. Ciò che gli atomisti (Leucippo, Democrito, Epicuro) chiamarono vuoto assoluto, per Bruno non esiste; il vuoto è per lui semplicemente uno stato relativo di non resistenza ai corpi compatti, una sostanza interstiziale tra gli atomi e finisce pertanto con l'identificarsi con lo spazio. Il Bruno, sotto la voce vuoto, non intende il nulla, ma "tutto ciò che non è corpo che resista sensibilmente". In tal senso egli afferma resistenza di una immensa ed eterea regione in cui sono i corpi infiniti, detti da noi mondi, composti di pieno e di vuoto, in quanto l'aria non solo è intorno, ma anche dentro ciascuno di essi. La denominazione vuoto è ripresa dal Bruno anche per spiegare la collocazione dell'etere infinito e dei mondi in uno spazio infinito in cui è il tutto, che non può essere in altro ("De immenso", I, 9, p. 447; "De l'infinito", cit., pp. 397-398; "De magia", in "Opp, latt.", cit., III, p. 414).

 

Uno è dunque lo spazio immenso che possiamo chiamare vuoto in cui innumerevoli mondi infiniti sono simili a questo che noi abitiamo. Infiniti sono i motori come sono le anime dei mondi e tutti dipendono da un "primo essere" che dona la motività agli spiriti, la mobilità ai corpi. Ciascuno di questi mondi, come la terra, è composto dai quattro elementi; in alcuni predomina una qualità attiva, in altri un'altra; oltre questi quattro elementi è una eterea regione immensa, in cui il tutto si muove, vive e vegeta; l'etere è detto comunemente aere, quando entra a far parte del composto, puro si denomina propriamente etere e il suo nome deriva dal suo corso ("De immenso", IV, 14, pp. 633 segg.; "De l'infinito" cit., pp. 529-531); spirito si denomina nelle cavità del nostro organismo. Poiché in un unico universo infinito sono mondi infiniti e analoghi a questo che abitiamo, lo spazio è dunque omogeneo. Tale omogeneità non viene peraltro pregiudicata dalla distinzione di tre zone ("coelum telluris", ossia il cielo attorno alla terra o a qualsiasi altro pianeta; "coelum coeli", vale a dire il luogo dove si trova radunato un gruppo di astri; "coelum coelorum", spazio infinito che separa i precedenti raggruppamenti o sinodi), derivante dalla precedente precisazione a proposito dell'etere, corrispondente rispettivamente all'atmosfera propria di un corpo celeste, allo spazio interplanetario, allo spazio interstellare, sulla base di una maggiore o minore rarefazione della materia. È in questa prospettiva monistica, in cui va analogamente inserita la critica che Bruno muove nelle ultime pagine del "De immenso" a Palingenio, che si spiegano l'affermazione secondo cui Dio è dappertutto ed in tutto, all'interno stesso delle cose, e la critica alla teoria della luce intellegibile e sovrasensibile. Oltre la suprema convessità dell' etere, Palingenio pone una luce pura, infinita, senza corpo, di cui la luce del sole è molto meno intensa. In verità l'errore di Palingenio (come una sola luce illumina il mondo, cosi una sola vita lo vivifica scrive il Bruno nel "Sigillus", in "Opp. latt.", cit., II, p. 179) consiste nell'ammettere l'unità del continuo ed immenso senza parallelamente postulare la presenza ovunque, oppure in nessun luogo, della materia. Essere incorporeo e corporeo non possono insieme coesistere poiché non appartengono ad un genere comune. Solo se identifichiamo il continuo, l'immenso nello spazio immenso con la verità, l'essere, l'Uno, il Bene, solo presupponendo un'unica luce che, omogenea, si diffonda per ogni dove, variamente percepita a seconda della natura del substrato, possiamo porre un'unica specie ed un unico genere. Lo spazio è omogeneo, una medesima potenza lo pervade, quale chiara espressione del sublime efficiente. Unico è l'aspetto delle cose in questo ed in altri mondi, a pena di cadere nella dottrina gnostica. In nessun luogo l'essenza è distinta dall'essere e ambedue costituiscono un'unità infinita.

 

L'omogeneità dell'universo comporta due conseguenze sul piano etico-religioso: A) l'onnipresenza del bene. Il male che noi crediamo di percepire ci appare tale in quanto situato nella prospettiva del finito, cioè del parziale. Una visione totale dell'universo ne eliminerebbe la traccia. Ammettere, come fa Palingenio, una regione del bene ed una del male, significa ammettere due principi contrari. B) la presenza in ciascuno dei mondi innumerevoli delle imperfezioni che si legano al parziale e dunque l'impossibilità di esistenza nell'universo esplicato di una regione che sarebbe quella del bene assoluto. Nell'ambito della visione bruniana dell'universo, della natura e dell'uomo, quale scaturisce dal "De immenso", non pochi temi possono essere ricondotti al poema di Lucrezio. Primo tra essi, si è visto, l'idea di infinito (lo stesso Bruno, nel "De l'infinito", aveva indicato i passi lucreziani che presumibilmente gli sono serviti come fonte: "Dial. it", cit., pp. 531-532); esso non è solo un infinito di potenza, intensivo, esso è anche un infinito fisico, estensivo, in cui si riflette ed esplica il primo infinito antologico. Cosicché Bruno, si è detto, dall'infinità dell'universo può ricavare l'infinità dei mondi. Ognuno degli infiniti mondi partecipa di una eterna vicenda caratterizzata dalla nascita e dalla morte. La terra e gli altri mondi, adesso esistenti, non sono eterni, ma destinati a scomparire ("De immenso", IV, 10, p. 619). Il composto materiale è soggetto alla mutazione; tale è la morte stessa a cui peraltro sfuggono, perché eterne, la sostanza corporea e la sostanza spirituale. La terra non è eterna per la consistenza delle sue parti, ma per la loro vicendevole successione, per cui permanendo la medesima anima, il corpo va via via cambiando e rinnovandosi. Tale continuo mutamento comporta un perenne flusso e allontanarsi degli atomi da e verso di noi. Si può quindi dire che gli atomi godono di moto infinito per le infinite vicissitudini di forme e di luoghi (Si noti come la fonte del movimento dell'atomo si debba ricercare in una natura diversa da quella materiale e ciò ci conduce ancora ad una prospettiva animistica) [L'"animismo" è purtroppo diventato oggi sinonimo di "primitivismo", in quanto gli "scimmioni intelligenti" della scienza odierna non riescono ad emanciparsi dall'abitudine di occuparsi del morto per indagare il vivo - ndc].

 

L'adesione bruniana, in conformità alla tendenza neopitagorica e neoplatonica alla tesi che nega che l'universo abbia avuto inizio nel tempo, non pregiudica la tesi della corruttibilità dei corpi che lo costituiscono ("De immenso", IV, 10). Anche questa concezione può essere ricondotta a Lucrezio là dove rileva come la natura, dopo aver fatto cessare il processo di accrescimento dei singoli esseri, dia l'avvio ad un processo inverso di graduale disgregazione o là dove preconizza la fine dei mondi o la distruzione delle muraglie che sorreggono l'universo. Ma, mentre Bruno, nella sua visione armonica e finalistica della realtà, limita sul piano quantitativo la portata della distruzione dei mondi ed afferma come l'eterno ciclo della vita sia destinato a ripetersi nella rinascita o rinnovazione che succede alla distruzione in una prospettiva in cui tutto modera la mente del padre, Lucrezio, dal punto di vista rigidamente meccanico della sua concezione, non allude almeno esplicitamente al concetto di rinascita e spiega l'origine dei mondi come frutto di un'aggregazione fortuita di atomi, vale a dire mediante un processo da cui è estranea l'idea di una qualsiasi mente ordinatrice. Tutto si riduce ad un giuoco di forze emergenti dal seno della natura, di una natura madre, quindi, ma dotata di una maternità che non sembra di molto divergere dal concetto di produzione meccanica ("De rerum natura", II, vv. 1112-1145 e cfr. anche vv. 235-246, 364-379). Nel ritmo divino in cui si scandisce l'inesauribile vita della natura, tutto si sviluppa, tutto diviene, tutto muta, ma nulla si ripete. La vita si perpetua in un ciclo perenne che tuttavia non ripropone mai le stesse fasi nella loro puntuale e rigida identità (si vedano sull'argomento i testi di Bruno e di Lucrezio: "De immenso", V, 3, p. 669 e "De rerum natura", V, vv. 187-194, 772-828, 831-833). In questo

processo in cui tutto si equilibra e si compensa in uno scambio vicendevole e reciproco, la morte pare essere principio di vita. Nulla si disperde e tutto si conserva. Il logorio di un composto è principio dell'accrescimento dell'altro. Il consumarsi delle vette dei monti è un contributo al consolidarsi del sottostante piano ("De immenso", III, 6; IV, 12). Cosi in Lucrezio, il venir meno delle piogge, assorbite nelle viscere della terra, è principio del rigoglio della natura: nulla si disperde e sulla morte stessa trionfa la vita ("De rerum natura" I, vv. 250-253, 262-264). È un mutamento incessante, inarrestabile, in cui nulla si sottrae al morso del tempo che incide col suo inesorabile volgere ad ogni grado e ad ogni livello della realtà. Perfino là dove la stabilità delle cose e degli elementi sembrerebbe essere inattaccabile. E cosi, dopo aver notato il carattere universale del divenire, ed averlo esemplificato nella variabilità continua dei punti da cui è costituita la superficie mobilissima di un fiume, Bruno scrive ("De immenso", VI, 18, p. 736 e "De rerum natura", I, vv. 311-321): "se poi il tutto ti sembra verosimilmente permanere nelle medesime parti, so che neppur questo è vero, sebbene possa non essere evidente, come accade per parecchie cose il cui mutamento si nota dopo un lungo arco di tempo, come per l'argento, per l'oro e per il diamante... Se la ruota del tempo non girasse, ogni cosa tenderebbe allo stesso punto. Tale è la sostanza delle cose, tale la natura degli atomi, essa sola invariabile". Anche per Lucrezio ciò che soltanto si sottrae al mutamento del tempo è come in Bruno, l'invariabilità degli atomi ("De rerum natura", vv. 592-598). Questo ritmo, questa eterna vicenda, questo cosmico pulsare della vita che, al di là del mutamento e della trasformazione, dell'infrangersi e del ricostituirsi degli equilibri infranti, rivela sempre la sua fecondità, sono in Bruno un ritmo ed una vicenda divini, guidati da una mente, da una intelligenza e da un'anima che si esprime dovunque, in tutti gli infiniti animali, terre e soli, disseminati nell'infinito spazio. È qui che l'atomismo bruniano s'inquadra nella sua visione genericamente neoplatonica; non cosi in Lucrezio (ibid., V, vv. 126-133) che, fedele alla sua visione meccanicistica non ammette un'anima del mondo o dei mondi che non partecipano così di quella spirituale armonia che costituisce invece il tessuto connettivo della cosmologia di G. Bruno ("De immenso", VII, 8).

 

È vero che il concetto di anima individuale (quale appare dal "De rerum natura", IV, vv. 94 segg.), inteso come sintesi di "anima" ("forza vitale che unisce le membra e ovunque è diffusa") e "animus" ("organizzazione [dell'anima] in quella che diciamo razionalità o mente") può essere, come ha scritto F. Adorno (F. Adorno, "La filosofia antica", II, Milano, 1961, p. 149), "il modo di interpretare epicureamente il motivo di un tutto vitale e fecondo, implicito nel motivo dell'anima mundi di origine stoico-platonica"; ma è altrettanto certo che tale motivo centrale nell'intuizione bruniana è del tutto assente dalla concezione naturalistico-meccanica di Lucrezio. E forse questo è il punto in cui è possibile cogliere il fulcro della divergenza tra la concezione di Lucrezio e quella del Bruno. Là, dove i motivi degli atomi, dell'infinità del cosmo e della pluralità dei mondi, della corruttibilità degli aggregati e del perenne flusso della vita hanno indicato quale sia il significato e la portata della presenza lucreziana nel pensiero del Bruno, il motivo dell'anima mundi ne segna i limiti e ci indica il punto attraverso cui passa il superamento dell'atomismo meccanicistico. Mentre il motivo dell'anima del mondo, inserito nel contesto della polemica antiperipatetica sui motori, può essere uno strumento per sottolineare il carattere di spontaneità del movimento stesso e trasfigurare quindi, magari senza ignorarlo, un analogo motivo lucreziano ("De immenso", V, 12, pp. 690-691; III, 6, pp. 549 segg. e Lucrezio, "De rerum natura", II, vv. 266-273, 284-287), ciò non può essere minimamente sostenuto nei passi in cui Bruno adombra nel contesto dell'anima mundi, la sua visione di un ordine immanente e teleologico che si costituisce all'interno di tutti gli esseri che partecipano così di una cosmica animazione ("De immenso", IV, 18, p. 657; V, 12; VII, 18, pp. 782-785).

 

Dalla natura si passa alla sovranatura, dalla cosmologia alla metafisica ed il lucrezianesimo è superato in una più vasta sintesi sincretistica in cui l'elemento catalizzatore sembra essere costituito dal neoplatonismo naturalistico.

 

Sul terreno metafisico, su quello cosmologico e, come ha mostrato F. Papi (F. Papi, "Antropologia e civiltà nel pensiero di G. Bruno" cit., passim.), su quello antropologico, Lucrezio, il cui poema costituisce del resto anche il modello letterario del "De immenso", è quasi sempre sullo sfondo; tuttavia il lucrezianesimo del Bruno non è mai un lucrezianesimo letterale, bensì sempre uno stimolo culturale molto importante che gioca variamente nell'articolata trama del pensiero bruniano, in cui finisce col trasfigurarsi e col perdere quella che fu la sua originaria caratterizzazione storica e teoretica, anche se non la propria intenzionalità ideologica. Si può forse sintetizzare la questione dicendo che lo sfondo in cui s'inserisce il lucrezianesimo del Bruno è quello dell'animismo e del vitalismo cosmico in cui l'eterna vicissitudine delle cose, il nascere e lo scomparire dei mondi, "l'interito e rinnovazion di qualche mondo" si spiegano come effetto di quel generale metabolismo cosmico in cui si concreta e si ritma l'incessante e prorompente fluire di una vita universale. Atteggiamento interpretativo questo che non si presentava del resto come alieno dalla convinzione lucreziana secondo cui tra generazione e distruzione, morte e vita esiste sempre un naturale compenso ed un generale equilibrio.

 

Certo il Bruno accentua la prospettiva lucreziana del compenso e dell'equilibrio in una visione in cui ciò che è scambio e mutua conservazione di vita si traduce in rapporto di amorosa armonia ("De immenso", VI, 5, p. 707) ed appunto applicando al sole e alla terra lo schema vitalistico della relazione padre-madre, Bruno spiega l'intrinseca unità del sistema (ibid.). E non credo di esagerare, pertanto, nel sostenere che perfino il movimento degli astri rientra nell'ambito di schemi biologici per cui là, dove l'astronomia descrittiva non coincide con tale intuizione è essa a sbagliare e a non meritare l'assenso. L'autonomia del mondo naturale, la decisa affermazione dell'immanenza della vita nel tutto, l'infinita e spontanea creatività della natura sono i termini più salienti di tale interpretazione biologistica dell'universo che sbocca nell'esaltazione di un amore cosmico, inteso quale fonte perenne ed inesauribile di vita (ibid.). A voler tradurre su un piano antropologico le conseguenze di questa visione, possiamo affermare con F. Papi che "non c'è dunque né un primo uomo né un primo animale e gli uomini veramente possono prodursi per le forze cosmiche come funghi. La generazione spontanea ha quindi in Bruno la sua estensione e la sua metamorfosi. Ciò che viene a cadere è l'antropocentrismo di tipo teologico e ciò che nasce è l'uomo naturale" (F. Papi, op. cit., p. 12). In realtà, nella concezione bruniana della generazione, il lucrezianesimo si fonde con il neoplatonismo naturalistico nella determinazione dell'uomo secondo due particolari aspetti, da una parte quello del mago, dall'altra quello dell'uomo naturale ed è proprio in virtù della completa naturalizzazione dell'uomo che l'operazione magica può spingersi sino a vincolare gli uomini, in una perfetta omogeneità tra struttura umana e naturale. L'operazione magica trova appunto la propria misura sul piano antropologico e nella meravigliosa possibilità e capacità operativa dell'uomo consiste per Bruno il concetto della divinità umana ("De magia, Opp. latt." cit., III, p. 407; "Dial, it." cit., p. 733 c cfr. F. Papi, "op. cit.", p. 93). Si può quindi senz'altro accettare quella che è la tesi di fondo del saggio del Papi secondo cui la teoria bruniana della generazione spontanea nasce dal sincretistico innesto del lucrezianesimo sul tronco di un animismo a tinta neoplatonica [Con categorizzazioni come quest'ultima, l'attuale scienziato asino mette un bel cappello da asino a Giordano Bruno. Perciò la tesi di fondo della generazione spontanea degli uomini "come funghi" è, a mio parere, una corbelleria, dato che: come il cosmo, l'uomo c'è sempre stato, solo che è diventato gradualmente visibile a se stesso in un'epifania (cosmica, appunto) che può essere umanamente intesa solo attraverso logica intuitiva - ndc]. In ogni parte del mondo la natura ha prodotto gli stessi esseri viventi e se attualmente la vita non si presenta ovunque nelle stesse forme, ciò è dovuto al fatto che le modificazioni ambientali introdotte dall'uomo, che ha inteso finalizzare la natura secondo le proprie esigenze, hanno determinato quel criterio di selettività tra i viventi che sono sopravvissuti in relazione alla loro capacità di adattamento proprio a tale finalizzazione ("De immenso", VII, 18).

 

Sullo sfondo della visione bruniana della natura, non c'è posto per rapporti puramente meccanici autonomi, cioè indipendenti dal processo vitale o spirituale che costituisce la struttura più intima e più autentica della natura stessa. Si è parlato, a proposito della cosmologia, dell'abbattimento della concezione gerarchica di origine peripatetica e della determinazione di una visione per così dire orizzontale del cosmo regolata da principi materiali, meccanici, come quelli del caldo e del freddo, ma si è altresì dovuto notare come i rapporti tra gli astri siano alla fine rapporti biologici; si è detto come la ripartizione delle diverse specie viventi nelle diverse parti della terra possa spiegarsi alla luce del criterio della selettività naturale, criterio che lascerebbe intravedere, sullo sfondo, una natura matrigna e non provvidenzialmente organizzata; ma sembra opportuno aggiungere che, almeno secondo il mio parere, l'affermazione per cui la natura produce ovunque le diverse specie viventi, appare essere una logica, inevitabile conseguenza della concezione, centrale nel pensiero del Bruno, secondo cui tutto è in tutto e l'accenno al criterio della selezione naturale un modo, senza dubbio desunto come tema isolato dal discorso lucreziano, per giustificare l'esperienza.

 

Se la realtà è vita e la vita è flusso e movimento, il movimento non è mai movimento meccanico e non si spiega se non ricorrendo all'azione dell'anima che del movimento possiede appunto tutte le forme e partecipa, attraverso la mediazione dello spirito, ad ogni organo quello che gli è più conveniente. Non c'è moto che non abbia origine da questa radice spirituale.

 

L'ulteriore spiegazione bruniana riguardante il passaggio della ricchezza infinita dell'anima ai movimenti particolari, si muove sostanzialmente sulla stessa linea. Tale spiegazione presuppone, per altro, la risposta a tre quesiti essenziali: 1) come si passa dal possibile al reale? 2) Qual è il rapporto che intercorre tra l'unità implicita dell'anima ed il suo svolgimento nell'ambito dello spazio e del tempo? 3) Come si specifica in ogni organo l'azione dell'anima? La risposta al primo quesito è classica: come il pittore, pur possedendo tutte le linee, realizza solo quelle che corrispondono al suo progetto, cosi l'anima, pur possedendo tutte le virtualità, realizza soltanto quelle che si adattano al substrato cui si applica ("De immenso", IV, 15, p. 640).

 

Il secondo punto si riduce in sostanza al rapporto tra implicatio ed explicatio, rapporto che si spiega tenendo presente che l'anima è tutta in tutto (ibid.).

 

La risposta, in fine, al terzo quesito si basa sulla distinzione tra una potenza primaria e una potenza secondaria; la prima coincide con l'essenza dell'anima, tutta in tutto, la seconda con le sue singole operazioni, che sono differenti.

 

La contemplazione estatica di un universo infinito e la conseguente riduzione del finito ad un punto di vista relativo, inessenziale, quasi un semplice eventum nella cosmica vita del tutto, l'impostazione materialistica della dottrina cosmologica, il concetto di autoproduttività della natura, la tensione che sembra determinarsi all'interno stesso della vita come principio di selettività fanno pensare a Lucrezio e all'atomismo antico in genere; ma il continuo richiamo allo "spiritus", alla "mens insita rebus" ("De minimo" I, 1) sembra indicare come l'atomismo in Bruno sia una delle vie che gli si apre dinanzi, ma che alla fine non si sente di percorrere fino in fondo [anche qui mi pare che Carlo Monti proietti su Giordano Bruno il proprio mancato percorso intuitivo circa l'atomismo bruniano - ndc]. Il senso vitalistico dell'anima del mondo ("De l'infinito", cit. p. 390; "La cena", cit., pp. 33-34; "De la causa", cit., pp. 251-253) appare accentuato nel "De immenso" ("De immenso", II, 11, p. 500). Ne risulta una visione animistica della terra e non si tratta di un fatto isolato; l'animismo costituisce lo sfondo su cui s'inquadra tutta la cosmologia del Bruno che l'infinito concepisce come un grande animale [appunto: la grande bestia o il grande scimmione intelligente della scienziaggine odierna - ndc].

 

In altri termini si tratta di un recupero lucreziano in chiave sia magico-ermetica, sia neoplatonica. Nell'ambito dell'assimilazione della Venere lucreziana all'anima del mondo neoplatonica, s'inquadra dunque la bruniana operazione sincretistica che dalla schiacciante necessità lucreziana muove verso una contemplazione ottimistica, che risulta, del resto, eloquentemente definita in una significativa pagina del "Cantus circaeus" ("Opp. latt.", cit., II, 1, p. 191). In sostanza, la visione bruniana di un universo vivente e dinamico costituisce il presupposto per una visione trasformistica che si spiega sulla base del riferimento all'opera di una intelligenza cosmica. Di qui l'ottimismo fondamentale del Bruno. Il duro mondo della necessità lucreziana dà luogo alla corrente bruniana della vita che permea di sé gli spazi eterei e partecipa della ricchezza degli innumerevoli possibili che si iscrivono nei mondi infiniti, all'insegna della perfezione dell'universo, dell'uniformità del corso della natura, del riprodursi identico degli effetti, subordinato all'identico riprodursi delle cause. Ciò non significa però l'accettazione della teoria del grande anno platonico ("De immenso", III, 7) nel senso del ritorno periodico degli astri alle loro posizioni iniziali in quanto il ritorno di tutte le cose va invece interpretato nel senso della rinascita dei corpi (A. Ingegno, "Ermetismo e oroscopo delle religioni nello Spaccio bruniano", in "Rinascimento", 7, 1967, p. 169. Nel "De magia mathematica", "Opp. latt.", cit., III, p. 501, Bruno, pur non negando la dipendenza dei mutamenti civili-religiosi dal corso degli astri  dichiarerà infruttuoso il tentativo umano di determinarla). La complessità dei motivi convergenti nella cosmologia bruniana è comunque fuori discussione e può trovare ulteriori conferme sia nella struttura astrologica dello "Spaccio" in riferimento alla dottrina dell'oroscopo delle religioni sia nel nesso tra religione egizia e copernicanesimo indicato nel "De immenso" ("De immenso", VI, 2, e cfr. A. Ingegno, "loc. cit.", pp. 170-171, 173-174), dove si pone la coincidenza tra abbandono dell'antica cosmologia pre-aristotelica ed il tramonto della religione egizia, secondo la profezia dell'Asclepio. La nuova cosmologia, infatti, si pone quale mezzo per il sorgere di un rinnovato concetto del Divino simboleggiato appunto dal mutamento della natura (in questo contesto, contro l'opinione della Yates che tende ad assegnare al copernicanesimo bruniano un ruolo secondario, A. Ingegno, nel citato articolo, si preuccupa di ricondurre il significato stesso dell'ermetismo del Nolano nell'ambito del suo copernicanesimo, a pena di non comprendere il carattere dell'opera bruniana. Sarebbe, quindi, evidente uno stretto legame tra la palingenesi cosmica annunziata dalla profezia di Ermete Trismegisto, ripresa dal Bruno dall'Asclepio e la riforma del cielo dello Spaccio nonché il loro nesso col copernicanesimo, quale è indicato nel "De immenso"). L'influenza dell'ermetismo, dunque, va colta proprio in questa nuova concezione della natura intesa come espressione del Divino e tale concezione della natura è comprensibile solo alla

luce di una nuova cosmologia cui Bruno arriva, appunto, attraverso il copernicanesimo.

Carlo Monti

Firenze, giugno 1979.