CONCLUSIONE

 

 

    Siamo ora in grado di trarre le conclusioni della nostra ricerca per definire un quadro concettuale coerente e corretto che metta fine all’equivoco che percorre la storia della filosofia. Alla domanda che ci eravamo posti all’inizio del nostro lavoro, circa che cosa si debba intendere per filosofia, riteniamo di avere risposto esaurientemente, precisando che per noi “filosofare” significa “amare la conoscenza della realtà” e per conoscenza si deve intendere innanzitutto quella del reale fisico e biologico con cui si relaziona la nostra ragione. Se invece si vuole perseguire l’amore della trans-realtà metafisica, ovvero del divino, si deve essere consapevoli che questo tipo di pseudo-conoscenza va in direzione opposta e che il suo perseguimento compromette irrimediabilmente ogni approccio gnoseologico alla realtà. La metafisica persegue infatti fini opposti alla conoscenza del reale, creando un sovra-reale che di esso si pretende causa. Non riconoscendo alla metafisica il diritto di definirsi “amore per la conoscenza” abbiamo proposto di definirla teologia filosofale, ma rimane inteso che gli operatori della metafisica hanno il sacrosanto diritto di definire la loro attività come meglio credono, e che non saremo certo noi a metterlo in discussione.

    La questione non è soltanto definitoria, ma riguarda il fatto che la filosofia sia ancora legittimata ad occuparsi di ontologia, e in tal caso seguire la scienza, oppure se si debba limitare ai campi dell’etica e dell’estetica, lasciando definitivamente l’indagine sull’essere del cosmo alla scienza, che di esso si occupa analiticamente e sperimentalmente. Il problema di fondo di fronte al quale si trova oggi la filosofia è quindi quello di cercare di capire che è auto-distruttivo continuare a rivendicare un’autonomia cognitiva rispetto alla scienza che è manifestamente inconsistente e anacronistica. Una rivendicazione che la porterebbe a rinchiudersi nella propria fortezza logico-dialettica, tirare su un metaforico ponte levatoio e urlare dagli spalti alla scienza che non ha bisogno di essa per sopravvivere, morendo poi per la mancanza di nuovo cibo conoscitivo. Ora, che la teologia filosofale, come “scienza del divino”, possa sopravvivere non solo a lungo ma magari per l’eternità (visto il suo rapporto privilegiato con Dio) è fuori discussione, ma in tal caso deve dichiararsi come tale, immergesi nel suo medium divino, e cessare di autodefinirsi per ciò che non è.

    Sarà tuttavia difficile che ciò avvenga, perché proprio di questa ambiguità di fondo la metafisica si è giovata per cavalcare sia la religione e sia la scienza, ponendosi come manutentrice e alimentatrice dell’una e come pretesa guida epistemologica dell’altra. Una posizione di rendita favorita da venti secoli di Cristianesimo che costituisce un’eredità troppo ghiotta per essere abbandonata spontaneamente. È possibile che la teologia filosofale non smetterà mai di definirsi filosofia, a meno che i teologi filosofali stessi (o almeno una parte di essi) non decidano di chiarire la loro posizione ritagliandosi un legittimo spazio di ricerca para-religiosa, oppure di riconoscere che la cosmologia scientifica è la base irrinunciabile di ogni ricerca sull’essere reale, ammettendo che essi si occupano unicamente dell’essere ideale e metafisico. Si tornerebbe così a una “doppia verità”, chiara e non equivoca, che sarebbe l’unico modo di offrire ai propri simili cultura autentica e non pseudo-cultura attraverso la confusione e la sovrapposizione dei ruoli. Non siamo però ottimisti: la teologia filosofale, da Platone in poi, ha avuto modo di riempire tutte le nicchie culturali, saturandole con una pretenziosa ed oziosa metafisica che col suo fascino letterario e la sua forza ideologica ha portato troppi vantaggi.

    Si aggiunga che la teologia filosofale per secoli non si è neppure preoccupata di autodefinirsi ancilla theologiae, accodandosi alla dottrina cristiana e fornendole gli strumenti per un suo rassodamento razionalistico. Essa ha ricominciato “ad agire in proprio” soltanto verso la fine del XVI secolo, toccando nel XVII, con Descartes, Leibniz e Spinoza, i suoi vertici razionalistici, con i primi due in accordo col monoteismo, col terzo in direzione panenteistica. Con l’Idealismo tedesco dell’Ottocento si tocca il culmine del delirio di onnipotenza della teologia filosofale, fagocitando il criticismo kantiano e facendone il trampolino noumenico di una pura follia cogitativa che ha perso ogni freno. La metafisica post-idealistica contemporanea, nella sua ostinazione presuntuosa e autoreferenziale di continuare a rivendicare un proprio ruolo cognitivo alternativo a quello della scienza, si è così ridotta a portare in processione un cadavere filosofale, imbellettandolo di continuo per farlo parere vivo.

    All’autentica filosofia compete il compito gravoso di ritrovare le proprie origini gnoseologiche precedenti il disastroso avvento dell’idealismo e quello di ricostituire un legame con l’attività scientifica in ogni suo aspetto e branca. Ciò significherà anche evitare in futuro che qualche scienziato possa affermare (cito a memoria) che «I filosofi sono sempre lì pronti a dire cose stupide sul lavoro degli scienziati.» [1] Noi dobbiamo fare in modo che nessun scienziato si senta autorizzato ad affermazioni di questo genere, ma sono anche convinto che Feynman facesse riferimento a qualche teologo filosofale. Ma noi non pensiamo affatto che, in generale, i teologi filosofali dicano cose stupide; anzi, ne dicono spesso di troppo intelligenti con intenti elusivi e mistificativi. L’intelligenza non garantisce conoscenza autentica né onestà intellettuale. Ma non intendiamo neppure affermare che ci sia sempre cattiva fede da parte dei filosofali; diremo solo che c’è troppa fede nel divino e nella verità meta-fisica per potersi occupare del reale senza mistificarlo od equivocarlo.

    Ciò che non ci deve sfuggire, pena un ulteriore deterioramento della cultura filosofica è che la gnoseologia e la teologia vanno in direzioni diametralmente opposte e che occorre che un pensatore decida da che parte vuole andare. Si tratta di un aut aut ineliminabile, che deve far appello alla coscienza forse prima ancora che alla volontà. Riconosciuta la totale legittimità intellettuale di andare verso l’obbiettivo che si vuole e quella esistenziale di collocarsi nell’orizzonte ontologico più confacente alla propria struttura psichica, dovendo la psiche conseguire la propria omeostasi, corre tuttavia l’obbligo di dichiarare onestamente e chiaramente se i fini della propria riflessione concernano la conoscenza del reale o quello dell’ideale. Non abbiamo nulla da obbiettare circa l’attività di coloro che riservano la loro attenzione e i loro sforzi in direzione dell’ideale, ma riteniamo che sia scorretto mescolare l’ideale al reale.

    Siamo consapevoli che questo saggio si qualifica eminentemente come pars destruens e ci corre l’obbligo di pensare a una pars construens. Resta infatti in sospeso il compito che ci siamo dati di proporre un nuovo modo di produrre ontologia filosofica e vogliamo qui offrire alcune anticipazioni del principio operativo che guiderà le nostre ricerche. Noi riteniamo che per procedere filosoficamente non si possa che partire da una posizione anti-metafisica semplice e chiara che si confronti oppositivamente sia col monismo, sia col determinismo e sia col vitalismo, ritenendo che la datità scientifica offra ad essi veramente pochissimi appigli, ma che una sorta di scientologia strisciante trovi il modo di costruirsene molti. Facciamo veramene fatica a comprendere perché numerosi fisici si ostinino a cercare qualche “principio unificante e omogeneizzante” della pluralità delle cause e degli aspetti reali del mondo fisico. In relazione a ciò ci permettiamo di proporre i concetti alternativi di “varianza” e di “differenziazione” cosmica in riferimento ad un divenire fisico che si realizza in quanto varia e differenzia le proprie componenti fenomeniche.       

    Nel congedarci dal lettore, e ringraziarlo per la sua pazienza, ci permetteremo un’ultima considerazione, aggiungendo che se la scienza ha il compito di aprire nuovi orizzonti nella conoscenza della realtà per definirne le denotazioni e per misurarne i fenomeni, alla filosofia spetta il compito di aprire l’orizzonte gnoseologico in funzione delle possibilità umane di seguire tale conoscenza esatta connettendola a un “non esatto” sentire il mondo che lo concerne nella sue aspettative e nelle sue speranze, le quali, tuttavia, non debbono mai perdere i contatti con la realtà oggettiva stessa e non avventurarsi, almeno consapevolmente, verso ectoplasmi accattivanti ma perniciosi per l’amore della conoscenza.  Le sirene metafisiche cono infatti sempre in agguato dietro ogni scoglio e i pifferai magici della filosofalità dietro tutti gli angoli di strada.

 



NOTE

[1] È un giudizio del grande fisico Richard Feynman, il quale mostrava così di non avere una grande stima degli operatori della filosofia (ma di quale filosofia?).