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Recensione

"Lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta" di Robert M. Pirsig

“Le montagne si scalano in un equilibrio che oscilla tra inquietudine e sfinimento. Poi quando smetti di pensare alla meta, ogni passo non è soltanto un mezzo, ma un evento fine a se stesso. …Vivere soltanto in funzione di una meta futura è sciocco. E’ sui fianchi delle montagne, e non sulla cima, che si sviluppa la vita.

Ma evidentemente senza la cima non si possono avere i fianchi. E così saliamo…”

Queste poche righe ci introducono all’atmosfera che si respira in questo libro, dal titolo “intrigante” e apparentemente incongruente, pubblicato dall’autore nel 1974 e ancora così attuale, sullo sfondo del mondo hippie e della “beat generation”.

In realtà, questo romanzo, o piuttosto questa biografia in forma romanzata, tratta di un viaggio dal Minnesota al Pacifico che si trasforma in meditazione continua, a cavallo di una moto e di una mente, - quella dell’autore stesso - , “rigenerata” dalla follia mediante l’elettroshock.

Proprio il viaggio interiore, dunque, incorniciato dal paesaggio della Frontiera americana, diventa il filo conduttore della narrazione, compiuta attraverso un linguaggio semplice e una struttura apparentemente fragile. Interessante pure l’approccio: condurre il tema come se si trattasse di “una serie di conversazioni popolari intese a edificare e divertire, a migliorare l’intelletto e a portare cultura e illuminazione alle orecchie e ai pensieri degli ascoltatori”, “come i Chautauqua che si rappresentavano sotto un tendone” spostandosi da un capo all’altro dell’America, prima che radio e televisione divenissero i mezzi di comunicazione di massa.

Assistiamo così al recupero del passato, segnato da una miriade di ricordi frammentari, attraverso i quali affiora un altro io, significativamente battezzato “Fedro”:

come nell’omonima opera platonica, infatti, lo sforzo mira a “ricondurre ad un’unica forma ciò che è molteplice e disseminato”.

Lentamente, si profila ai nostri occhi un’altra “beautyful mind”, perdutasi nei meandri della logica e della filosofia, alla ricerca disperata dell’unificazione di ragione e sentimento, in una visione unitaria dell’esistenza e nella contestazione del sapere-istituzione.

Ma la domanda cruciale si ripropone, approdando, nel tentativo di darsi una spiegazione, allo Zen:

“il Buddha, il Divino, dimora nel circuito di un calcolatore o negli ingranaggi del cambio di una moto con lo stesso agio che in cima a una montagna o nei petali di un fiore”?

Urge trovare “un modo di concepire il mondo” che “unifichi la selezione dei granelli di sabbia con la contemplazione della sabbia fine a se stessa, rivolgendo “l’attenzione al paesaggio infinito dal quale è stata presa…”

Per questa strada, dunque, Pirsig, non più biologo molecolare, filosofo, giornalista professore, giunge alla quadratura del cerchio:

“il modo di risolvere il conflitto tra i valori umani e le necessità tecnologiche non è rifuggire dalla tecnologia, ma abbattere le barriere del pensiero…che impediscono l’autentica comprensione della natura della tecnologia - non sfruttamento della natura, ma fusione della natura e dello spirito umano in una nuova specie di creazione che le trascende. Quando la trascendenza si manifesta in eventi come la prima traversata aerea dell’oceano o il primo allunaggio, c’è una specie di riconoscimento pubblico della natura trascendente della tecnologia…”

Tutto lo sforzo prodotto verso l’unità e la chiarezza non determina alcun progresso nel rapporto tra l’autore e il figlio Chris, compagno di questo viaggio, se non quando, in seguito alla sua tragica fine l’autore ci restituisce un’ulteriore lezione: “se i nomi o i corpi sono sempre diversi, il disegno più vasto che ci contiene tutti continua immutato”.