Nome:
ShEdEviL
Nome completo:
Sheevah Sinclair Liadon
Allineamento:
Caotico Lunatico
Razza:
Vampiri
Clan e carica ricoperta: Puer Van Kunst
Età:
Età apparente di
27 anni
Sesso:
Femmina
Altezza:
1 metro e 85
Peso: 70
kg
Colore degli occhi:
Azzurro gelido e vitreo
Colore dei capelli:
Rosa con sfumature d’oro intenso, lisci e lunghi fino al seno.
Colorati permanentemente dal Senatore dei Folletti Antigone, grazie alle
proprietà della piuma cambiacolore.
Cicatrici o Tatuaggi:
Tatuaggio a forma di giglio rampicante sulla caviglia destra,
affiancata ad un’epigrafe a caratteri latini “Quod vita aegrotat Amor curat”.
Cicatrice
a forma di croce sul polso sinistro.
Luogo di
nascita:
sconosciuto.
Gilda: Ritrattista degli Illuminati
Mestiere: Giullare di Corte
Famiglia:
Madre Try e padre Rakot, adottivi.
Fratello Topolino, sorelle Tanyth e Shiori, adottivi.
Citazione Personale:
“Quod vita aegrotat, Amor curat”.
Abbigliamento: Tuta di stoffa elastica con fantasia a rombi rosa e bianchi alternati, oppure veste di seta bianca, nera o rossa, a seconda dell'umore. Babbucce giullariche (con la punta arricciata) adornate da un campanello d'oro.
Cappello con punte e campanelli, dono del Conte ad ogni giullare. All'interno di esso, in una fodera di seta nera, vi è ricamato con del filo rosso una decorata S
Oggetti: Scettro da giullare di legno di salice, raffigurante il mio viso stilizzato a mò di pupazzo. Cetra rosa in legno di salice. Tra i capelli e la scollatura dei campanellini dorati. Nessun gioiello.
Animali: un pegaso di nome Afros. Un ara ararauna di nome Quent, dono di Try.
Proprietà: un salice piangente che reca lo stesso nome del pegaso, in quanto sono legati dalla stessa vita. Afros,
in una lingua lontana significa "bianco" e
"forte".
Abilità:
Ciò che è Arte è mia prerogativa.
Malus: Propensa al cadere in amore, quando mi rendo conto di amare entro in frenesia. E dalla sorte dipende il lasciarsi andare o aggredire ciò per cui il mio istinto scavalca la logica. Si attua il malus nel caso in cui:
· Vengo interrotta bruscamente durante la declamazione di una poesia (passo immediatamente alla personalità irrazionale, gli effetti possono essere allucinazioni visive e conseguente aggredire della persona che mi ha interrotto)
· Qualcuno a me sconosciuto critica apertamente una mia poesia, o un’intonazione (la personalità vacilla tra quella logica e quella irrazionale. Dico e mi contraddico, fino ad arrivare ad un culmine in cui il mio interesse si sposta sulla demolizione della personalità di colui che ha criticato. Solitamente dura per poco.)
· Vengo interrotta mentre accordo la cetra (la musica interrotta bruscamente provoca la rottura di un incanto, e la conseguente brusca perdita di controllo. Rimango silente per qualche istante e se non ritrovo la musica, l’aggressività si sviluppa in maniera violenta)
Alienazione: Schizofrenia. Incontrollabile ossessione per l’avere.
Personalità: Due, Illogico e Razionale. Mi divido tra notte e giorno.
Scelta d’abbraccio:
Poesia e pallida ipnosi con i campanelli.
Background e Descrizione:
Nulla intorno a me si muove. Non ricordo. Forse camminavo lungo un sentiero lastricato, o forse in equilibrio su un filo argentato, la mia terra non so dove sia, se mai sia stata, non l’ho più cercata. Forse il vento mi sfiorava nel suo vortice di freddo, il mio sguardo si china piangendo sui brandelli, mentre un pensiero stanco scava nella mia maledetta anima, come la lama della pallida contraddizione. Non ricordo genitori né amici, forse ero sola, forse piangevo quando ancora avevo respiro e lacrime, e soffio di vita che non ricordo… ma sento ancora lo sciabordio dei canali di una terra mai esistita, in una dimensione onirica chiudo gli occhi e viaggio con la mente, la figura di un palazzo affiora in mezzo ai pensieri, l’oscurità, un sussurro, poi il vento. Un pensiero, bruciando di pallide ore passate guardando fuori da una finestra dove fronde verdi oscillano al soffio del vento, sentire con l’anima, echi lontani, di stagioni perse, di sabbia su un gradino bianco di una città sospesa nella dimensione dei ricordi, portandoli alla mente con arpe dal suono lontano, che sparisce e si spegne come un fiammifero al vento. Il tempo ritorna come il mare fa sulla sabbia, e fuori dalla finestra si erge un mondo che racconta di pagina bruciata.
Niente che si possa scrivere, rido insieme alla luna, modifico il mio pensiero al mutar del vento, solo immagini, breve sequenza di fotografie, piccoli frammenti di una storia. Camminavo forse su un selciato, con il piede spostavo una sasso spaventato, nella mente sorridevo senza un perché. Sapevo dove andare, seguivo un percorso che conoscevo, mentre la notte scavalcava il sogno, proseguivo con passo morbido, allontanandomi dal centro della città, ero diretta nella foresta, di nulla ricordo il nome. Stringevo tra le mani un pezzo di pergamena, in cui era scritto, con grafia contorta ed elegante, che qualcosa mi era stato donato, non ricordo quanto ho camminato. L’avevo trovata sotto la finestra, legata con un nastro di seta rosso, e accanto ad essa un giglio di un bianco accecante; ma non sembrava un giglio come tutti gli altri, né assomigliava vagamente a quelli del giardino degli aranci; aveva una sottile venatura viola su di un petalo, e sopra, una goccia di un fluido vermiglio; quando la vidi sorrisi, e la posi in una teca di vetro, in un cassetto. La giornata antecedente era piena di sole, e mentre nella mattina sorridevo alla luce e scherzavo con persone i cui volti ricordo come ombre senza identità, quella notte un’espressione gelida ed eccitata mi dipingeva il volto. Nessun arbusto né radice né spina mi ferì quella notte, sembrava un patto tra la lettera e la natura, quasi il pregio del dono sconosciuto mi fosse dovuto al pari di un re. Mi guardavo intorno senza pormi domande, quando mi trovai in una radura che mai avevo visto prima, dove un lago da nere acque increspato pigramente dal respiro della natura, figurava ampio e solitario. Guardai in silenzio la pergamena per rileggere le indicazioni. Né firma né data, ma evidentemente il dono che ancora non avevo veduto era diretto a me, poiché dietro la lettera, in una grafia violetta v’era scribacchiato “Sheevah Sinclair”, mi stupiva che qualcuno conoscesse il mio nome per intero. E mi perdevo distrattamente nei miei pensieri, era strano come la notte e il giorno mi dividessero l’anima. Alla luce del sole adoravo passeggiare e correre sui ponti dei canali, tirare le pietre con i compagni che avevo, riposarmi all’ombra della quercia nel giardino degli aranci. Di notte il mio umore cambiava, divenivo nostalgica e romantica a volte, fredda e inquieta in altre. La notte mi rendeva silenziosa, rimanevo ore a fissare il paesaggio. Pensavo: “E così anche l’ultima luce si spegne delusa”… e l’ultima finestra si è infine chiusa. Regna l’oscurità, la luna e qualche candela, solo una finestra è rimasta aperta appena. Affacciata ad essa, una figura malinconica e sommessa, rapido il suo sguardo di cera, cerca nel cielo e ancora spera.
Mentre l’ultimo bisbiglio dal vento sparso, il silenzio della notte intrepido è apparso, rapida vola la mente ai limiti del vero, tiepido fruscio di seta e velluto nero, notte di sogni speranze desideri paura rabbia invidia stima, ombre e sagome di una notte senza rima, malinconiche e usuali si stagliano, sulla fioca luce dell’anima si attanagliano, mentre la figura alla solita finestra ticchetta piano con la mano destra, e rapida vola la stanchezza sul mare. La figura dietro la finestra dell’esattezza, sospira, senza scampo ne’ carezza, rinchiusa nella sua gabbia di domande. Arriva l’alba, tutto tace. E quella notte, nella foresta, sentivo addosso l’emozione del sussurro di un segreto. Mi avvicinai piano al lago, specchiandomi nelle sue acque. Nel riflesso, accanto a me, distinsi i lineamenti di un volto, per un attimo, che aveva un’espressione enigmatica e indecifrabile, e mi guardava negli occhi. Girai di scatto il viso, ma non vidi nessuno. Solo un sottile fruscio. Pensai alla stanchezza e non mi curai di quel volto, sebbene il suo sguardo intenso mi provochi ancora un brivido. Una farfalla si posò accanto a me, e attratta dalle sue ali incredibilmente colorate, seguii il suo volo correndole dietro, inerpicandomi per un sentiero che il destino mi aveva disegnato. Era buio, quando mi trovai in uno spiazzo intricato di rami, la farfalla era sparita, e mi guardai intorno, pensando di essermi persa. Feci qualche passo, di fronte a me vidi un salice piangente, di straordinaria imponenza, da una delle sue foglie, una goccia di un liquido perlato brillò nell’oscurità. Mi avvicinai lentamente, osservando incantata; l’occhio mi cadde su un rettangolo di marmo rosa con venature rosse piantato nel terreno, lucido e brillante. Tra i riflessi del suo baluginare scorsi una scritta, in caratteri latini. Lessi a voce bassa “Quod me nutrit non me destruit”. Sotto, “Afros”. Conoscevo il latino, mi divertivo a parlarlo con i miei compagni, ma quella frase, del tutto nuova, che non mi ricordava nessun autore, aveva un che di vissuto, di memore. Sorridendo dolcemente passai un dito sul freddo marmo, e mi accorsi di un altro particolare. Un libro con la copertina di pelle troneggiava immobile accarezzato dalle pendenti fronde del salice. Lo presi tra le mani, e cominciai a leggerne le pagine. Sembrava magico, ogni pagina aveva una poesia, e verso la fine erano completamente bianche. Ma più giravo, più mi sembravano troppe per un volume così sottile, non finivano mai. Lo chiusi sorridendo, e lo rimisi al suo posto. Mi girai per guardarmi intorno, ma sentii un istante dopo, un rumore di pagine sfogliate, e guardai il libro, aperto dal vento. Mi chinai perplessa sull’erba e lessi ciò che c’era scritto:
Come un’ancora del peso del destino
Vanno a fondo le arcane concezioni
Di quel libro incerto e senza pagine
Ed è il vento che le sfoglia
La mente che interpreta silenzi e congetture
Il tempo non ha ragione
L’aria conosce il peso del destino
Ma il nulla e il caos regnano sovrani
E la loro corona è germogli di ortica
O rose senza profumo
Solitudine in una compagnia.
Lessi e rilessi molte volte, sembrava quasi si riferisse a me, quella strofa. Mentre lo pensai, mi parse di sentire un sussurro “è per te”. Mi girai ma non vidi nessuno. Ancora incredula rimasi silenziosa. D’istinto accarezzai il tronco del salice, e mi sembrò che ad ogni mio tocco le sue fronde oscillassero. Feci per alzarmi. Guardai l’albero in tutta la sua imponenza. Mi sedetti e dormii avviluppata al suo tronco, in un trionfo di condivisione, le sue radici erano le mie. Sognai tutta la notte, correvo nella radura alla luce del sole, ridevo, coglievo fiori, ero con qualcuno. Un ragazzo suppongo. Inseguivamo una farfalla, correvamo accanto ad un torrente, poi fermavamo, ridendo, per la fatica della corsa. I tratti del suo volto erano sbiaditi, ma avvicinava la sua mano per accarezzarmi il viso, e mi svegliai di colpo, guardandomi intorno smarrita e sorridente. Passò del tempo, una volta uscita dal giardino degli aranci, salutati i compagni, mi recavo da Afros, il mio salice. Riposavo sotto le sue fronde, in estate mi offriva ombra, in inverno mi chiudeva dentro i suoi rami proteggendomi dal vento. Crescevo a vista d’occhio, vedevo passare le primavere, di giorno lasciavo che la luce mi riscaldasse, e di notte scrivevo poesie sul vecchio libro di pelle, rileggevo quelle già scritte, apprendevo le infinite saggezze sorridendo alla conoscenza.
La mia storia ha molti punti sbiaditi dalla memoria, e la ripercorro in base a ciò che scrivevo sul vecchio libro del salice… questo passo racconta dell’incontro con colui che aveva scritto il mio destino. Quel volto che vidi anni prima nel riflesso del lago, non era sognò né stanchezza, ma solida e dolce certezza. In una sera malinconica, lo rividi.
Seduta al tavolo di una taverna
Alla fioca luce di una lanterna
Sorseggiavo pensierosa il mio vino
E non mi accorsi di chi mi sedeva vicino
L’atmosfera era allegra e festosa
Una fisarmonica suonava armoniosa
Da un giullare vestito di rosso
Una goccia di vino mi cadde addosso
Poichè il bicchiere mi giravo tra le mani
Mentre polvere di pensieri arcani
Mi vorticava nella mente
Senza riuscire a concludere niente
Tutti impegnati a fare festa
Non sapevano che il sognatore di notte si desta
Senza un motivo particolare
Ha bisogno della notte, sua amica ideale
Lor pensano ai giochi, alla frivolezza
E non conoscon chi negli occhi ha l’amarezza
Mentre tutto questo pensavo
L’uscio della taverna si apri’ con silenzio eloquente
Per quanto mi riguarda girai il volto distrattamente
E l’occhio mi cadde senza intenzione
Su ciò che ancora credevo illusione
Niente al mondo potrebbe spiegare
Chi quella notte nella taverna vidi entrare
Con fare elegante eppur così naturale
Proprio l’Amore vidi avanzare
In quella taverna scricchiolante e polverosa
Dove la birra scorre copiosa
E la follia regna disinvolta
Proprio dalla porta entrò per la prima volta
(Senza bussare ne’ domandar permesso
Dai miei occhi rapido al cuore un sussurro sommesso)
Un giovane dagli occhi color del ghiaccio
Vestiti di smarrimento e d’impaccio
Rapidi e dolci si aggiravano senza azzardo
Fino a posarsi fulminei sul mio sguardo
Un attimo, un soffio, un lampo
Il mio cuore fece, senza scampo
Una capriola, o balzo che sia
Quello sguardo aveva letto l’anima mia
Rimasi incantata senza ragione
I pensieri smorzarono la loro rotazione
Il bicchiere mi cadde di mano
E mi risvegliò un rumore lontano
Simile a quello del vetro infranto
Ma nessuno si accorse dell’amaranto
Che rapido mi dipinse il viso
Mentre sul Suo si disegnò un sorriso
Non mi curai dei cocci sul pavimento
Ne’ dell’oste che mi guardò scontento
Rimasi confusa incredula ipnotizzata
E non riuscii a capire che lui mi aveva ricambiata
Lo appresi solo quando, con grazia e fascino inusuale
Si avvicinò al mio tavolo con espressione naturale
Eppure quegli occhi non credevano a lor medesimi
Eppure non sapevano di cercare gli stessi incantesimi
Eppure nessuno sapeva che in una notte afosa e musicale
Si poteva trovar l’Amor ideale
Si incontrarono così senza averlo pensato una volta nella vita
Una regina ed un re di una terra mai esistita
Sospesa tra sogno e suprema completezza
Uno sguardo li avvicinò a questa certezza
Mentre lo sbattere dei boccali e le risate della gente
Non li sfiorava minimamente
Ma ecco che ad un tratto una musica eterna
Si spandé tra le mura della taverna
Lui si alzò, con sguardo serio e penetrante
E mi porse la mano senza pensarci un istante
Io lasciai la mia sedia guardandolo disorientata
E poggiando la mia mano sulla sua mi sentii incantata
E strettami di poco a Lui per ballare l’armoniosa melodia
Sentii qualcosa che mai avevo provato in vita mia
La taverna si zittì d’improvviso
Solo la musica e il Suo viso
Potevo capire in quel momento
E mentre il mondo ci osservava sgomento
Un sorriso si fece spazio sul mio volto
Ora rilassato ma coinvolto
La Sua mano dietro la mia schiena mi avvicinò al Suo petto
Solo allora capii quanto il momento fosse perfetto
E non una parola non una domanda venne espressa
Parlammo con il cuore e la mente perplessa
Ma quello bastò per farci capire
Che a volte una risposta non aveva a che servire
Se bruciata con la voce di chi, s’intende,
Non sa come spiegare emozioni stupende
E perciò quel dolce silenzio incondizionato
Li accompagnò durante il ballo che avevano iniziato
Ed un Suo inchino di riconoscenza
Segnò indelebilmente la mia apparenza
Simboleggiando il termine del ballo durato
Senza che nessuno dei due gli occhi aveva abbassato
Rimanemmo in piedi in mezzo alla taverna
E sul mio viso ancora il chiarore della lanterna
Intorno ancora di voci nessuna
Mi guardai intorno e l’occhio mi cadde sul quarto di luna
Che splendido e immenso troneggiava la volta celeste
Così, ondeggiando la veste
Afferrai il suo braccio con tenerezza
Sul polso una cicatrice di croce spiccava nella sua completezza
Lo portai all’uscio dal quale era arrivato
E con gesto rapido eppur delicato
Aprii sorridendo e mostrandogli a dito
La falce d’argento sbiadito
Ringraziai dentro di me la vita
Che finalmente mi aveva esaudita
Le voci in taverna, riaccese dal vino
Si allontanarono dal nostro cammino
Passammo la notte a conversare sotto il salice piangente
Mentre il mondo dormiva indifferente
Discorremmo di sogni e di caffè
Di regine e di re
Di amarezza e quotidiano
Di giovane e di anziano
Fino a rincorrere il silenzio nuovamente
Stavolta era volutamente
Ché il bacio che mi donò
Non aveva eloquenza, No.
Quando mi svegliai, la mattina dopo, Lui non c’era. M’aveva lasciato solo un sogno, un sapore sulle labbra e una cicatrice a forma di croce sul polso sinistro. E al tiepido incedere del destino cammina di pari passo sullo stesso sentiero, la confusione e la ragione, l`amore e l`invidia, la gelosia e l`ammirazione, il dirupo e la collina, la terra e il mare, la carta e il fuoco, la fiducia e la diffidenza, la regola e la maldicenza, la superficialità e il tocco, la musica e il silenzio, la cetra e il rumore.
Rimasi sotto il salice a piangere lacrime agrodolci, mentre il salice con le sue fronde avviluppava il mio corpo, accarezzando la mente, il vento mi portava i canti dell’anima. Piansi per notti, poi finalmente, dopo giorni di isteria, feci sonni tranquilli, senza pensieri, senza nostalgia.
La mia vita continuava, naturalmente, crescevo con i miei compagni, ogni anno toccavamo i rami delle querce del giardino degli aranci con una punta di soddisfazione. Studiavo la filosofia, il latino, e lavoravo nella taverna dell’incontro, ogni sera, prima di chiudere bottega, mi sedevo allo stesso tavolo di quella notte, e con la mente ripercorrevo ogni singolo passo. L’oste e la moglie mi volevano bene come se ne vuole ad una figlia, ed oltre ad essere gentili con me, non mi avevano mai chiesto più di una volta, di raccontargli la mia storia, non volevo parlarne, ma non ricordavo che istantanei flash.
Il giovane non mi aveva neanche detto il suo nome, non conoscevo che i suoi occhi, e ogni volta che pensavo, al mio cuore si aggiungeva una crepa.
Gli anni passarono ancora, non erano tanti, ma abbastanza per mettere da parte la nostalgia di quell’unica notte. Quella sera, mi stavo avviando verso il mio salice, la nebbia era fitta e il rumore della città lontana si attenuava dolcemente nella notte. I riflessi dei lampioni sulla liscia superficie del canale venivano rotti dal passaggio di una gondola. A poppa, una solitaria figura spingeva la sua pertica, fischiettando nella notte. Mentre mi guardavo intorno, il gondoliere si fermò finalmente sotto la debole luce di un lampione. La campana aveva appena battuto due tocchi quando una mano nel buio mi invitò a salire, accompagnata da una voce:
“ehila`
fanciulla diafana,
occhi di gelsomini notturni
e spirito gorgogliante e
inesauribile come cascatelle
di caverne sotterranee”
La notte era gelida, salii lentamente e mi strinsi nel mantello, osservando nel buio, cogliendo lo sciabordio sorridendo. Un momento dopo, la gondola si staccò dal bordo del canale, scivolando silenziosamente sulla via dell’acqua. Dalla prua affondavo lo sguardo nel manto stellato, quando la voce sussurrata e suadente si insinuò nel mio orecchio “sono stato ieri al Ponte dei Sospiri, l’avete mai visto?”. “solo una volta MyLord. La leggenda narra che solo i puri amanti possono camminarci. Ed io di sicuro, non ne ho motivo…”. La figura accanto alla pertica sorrideva nell’oscurità, alle mie parole, lo vidi chiaramente. Poi riprese a parlare: “se non pensate di essere una pura amante, come mai avete acconsentito a salire su questa gondola? Non è questa fiducia, pilastro dell’amore?”. Sorridendo continuai ad osservare lo splendido paesaggio silenzioso. “E Voi, come mai, remate di notte su questa gondola?” ripresi io, curiosa. Il ragazzo, di statura alta, lo vidi dalla sagoma, cadenzò le parole. “Vi stavo aspettando…”. Perplessa mi voltai verso di lui e realizzai che il gondoliere era sparito. La gondola rallentò sotto un lampione, e di fronte a me stava un giovane elegante, vestito di un raffinato abito di seta dai bottoni di perle, guanti bianchi e un ampio mantello rosso. Dietro di lui, la pertica continuava a spingere la gondola. Da sola. “Mi scuso per essere apparso a Voi in questo modo”. E qui si chinò a baciarmi la mano. Rimasi tra l’incredula e l’ipnotizzata, mentre delicatamente mi attirava a sé tirandomi per la mano, vidi sul suo polso sinistro una cicatrice a forma di croce, identica alla mia. Mi strinse in un abbraccio. Io chiusi gli occhi. “Chi siete?” dissi in un sussurro. “Io sono il Vostro destino. Vi amai prima di vederVi. Vi cercai prima di conoscerVi. Vagai, prima di incontrare i Vostri passi. Non fateVi domande. Sono una creatura diversa, divisa.” E mi donò un baciò durato forse attimi, forse anni interi. Poi mi accarezzò una guancia, i suoi occhi brillavano nell’oscurità. “Siete sempre Voi… Perché apparite e poi scomparite via…? Cosa Vi turba?” dissi, teneramente, trattenendo una lacrima. “Sono un’anima senza nome. Senza cammino. Senza destino. Non posso spiegarVi. Dovreste essere come me per capire… Solo allora potremmo ritrovarci.” Perplessa scossi la testa, non riuscivo a capire le sue enigmatiche parole. “Allora insegnatemi ad essere come Voi, cosa avete di diverso?” chiesi. Lui rimase in silenzio, a fissare il vuoto. Oppure era davvero il vuoto nei suoi occhi. Con fatica disse: “Io sono un Vampiro antico.” Sussultai alle sue parole. Ma poggiai una mano sulla sua guancia, mentre sulla mia scendeva silenziosa una lacrima amara. Mi diede un altro lungo bacio, poi gli dissi: “Fatemi diventare come Voi.” “Non posso. Voi siete pura. Diventereste un’anima maledetta”. Il suo viso era gonfio di tristezza. Io lo presi per le braccia e lo pregai “Voglio essere come Voi” Voglio AmarVi!” e un’altra lacrima scendeva. Lui mi baciò ancora, poi scese lentamente con le labbra, passò sul collo e mi morse. Sentii brivido, piacere, rabbia, Amore, lacrime. Ricordo che lui pianse sangue e che mi fece bere lungamente le sue lacrime, e poi più nulla. Mi svegliai sotto il mio salice, intontita, tarda notte. Avevo sete. Ma mi cibai ancora del succo di Afros. Solo così potevo tenere la mia purezza, e la capacità di Amare. Ma ero un’anima maledetta, per tutta l’eternità. Come venni a conoscenza di questo non so. Lo sapevo. Come essersi svegliata da un sogno. Provai a riaddormentarmi ma non c’era modo, quindi rimasi sveglia, a scrivere poesie, e al giunger dell’alba, mi riparai dai suoi raggi sotto le fronde di Afros, senza nemmeno poter piangere. Quella notte, quando tornai al salice, v’era un cucciolo di pegaso e una pergamena. Su di essa un sigillo di ceralacca rossa con una M a caratteri gotici. V’era la storia di Afros e i suoi dati anagrafici. “masseria di Lot”, lessi a bassa voce. Il pegaso era meraviglioso. Setoso, in quelle sue alucce appena spuntate. In quel suo candore puro e perfetto. Lo presi tra le braccia e sorrisi come mai avevo fatto in vita mia. Legato al collo v’era una cordicella d’oro, con un biglietto. “raggiungimi a Lot. Lascia che il destino. Guidi i tuoi passi. Senza indugio.” Era sicuramente Lui, l’autore di quel dono… era da qualche parte e mi pensava. Evidentemente il pegaso aveva fame. Afros. Si chiamava come il salice. Secondo il sacro libro sono legati dalla stessa vita… nelle loro vene scorre la stessa limpida purezza. Non sapevo né come nutrire il pegaso né come portare con me il salice nella nuova città. Impossibile portare una albero a mano. La scritta sul marmo rosa baluginò. “quod me nutrit non me destruit”. “ne ho abbastanza di indovinelli!” mi dissi. Il libro si aprì:
Per rigenerarmi
Donami nuova vita
Curami col tuo sussurro
Lascia che bevano
Dalle mie lacrime
Siamo una vita unica
Immortale musa
Fatti cullare da musiche eterne
Ed io camminerò con te
Suona per me.
Feci bere il pegaso dalle fronde del salice, e mi ringraziò con uno sbattito d’ali. Sorrisi a quel candore. Tra le mani rilessi di nuovo il biglietto “raggiungimi a Lot. Lascia che il destino. Guidi i tuoi passi. Senza indugio”.
“non ora”. Sussurrai. La notte seguente raccolsi le mie poche cose, feci l’ultima passeggiata sul canale e sul Ponte dei Sospiri, fermandomi nel punto in cui la gondola si era fermata, diedi un bacio al salice e mi incamminai per Parigi. Camminai molto. Mi fermavo di giorno, al riparo dalla luce. Di notte, cercavo sangue. E posso ricordare con estrema chiarezza come adescavo le vittime. Ero ormai ossessionata dalle poesie, spesso parlavo in rima. L’emozione di mordere nuovamente mi eccitava al punto che mi ritrovavo concentrata e le rime venivano da sole. Con voce suadente dirottavo il cammino delle vittime, insinuandomi nel loro orecchio, sussurrando intriganti parole. Poi un fruscio, e la fusione dei nostri due corpi. Sentivo il loro respiro strozzarsi e ritrovarsi silenziosi, abbandonati… con cura leccavo le ferite dei miei morsi e delle mie zanne, poi mi allontanavo in un attimo, silenziosa come ero arrivata.
La strada verso Parigi era lunga, e di tanto in tanto mi fermavo un po’ di più per osservare il paesaggio per qualche istante al tramonto, dopodiché continuavo il mio notturno pellegrinaggio. Scrivevo e leggevo, riflettevo e conoscevo sul vecchio libro. Una notte, lessi anche questa:
Noi che guardiamo il cielo
Che abbiamo ancora sguardo per volare
E anima maledetta per sognare
Abbiamo occhi per vincere
Color terra figli del bosco
Della selva intricata foglie
O dunque azzurri figli del cielo
Del vento amici del ghiaccio
Semplice come l’aria
Alzando il volto
Avevo gli occhi azzurri dalla nascita, e non potei nascondere un sorriso leggendo, anche se mi riscoprivo sempre più lunatica e mutevole… mi ritrovavo nervosa e isterica, e la notte mordevo con molta forza. A volte invece ero delicata e gentile, e pensavo solo a poesie e paesaggio. Mi dividevo tra notte e giorno, tra dolce e agro.
In una notte di cammino, sotto un temporale primaverile, scorsi una capanna dove trovare riparo. Tolsi il cappuccio dalla testa e bussai quieta, domandando ricovero. Mentre nei miei occhi baluginava una strana luce, mi aprì un vecchio dalla chioma canuta e due occhietti velati di furbizia e tristezza. Era uno stregone. Non vi narro quanto mi insegnò quella notte, quali alambicchi mi mostrò, quali arti mi fece conoscere, quali veleni, libri, magie, gesti, sguardi. Mi spiegò chi sono i vampiri, e mi parlò di destino e follia. A quanto pare qualcuno aveva tessuto il mio destino. Lo ringraziai e la notte dopo ripartii ripetendo a memoria ciò che lui mi aveva insegnato:
Questa è la follia
Lacrima di canzone
Questa è la follia
Perla di contraddizione
Lasciarsi abbandonare
Dolce ma forte velluto di spine
Quando finalmente arrivai a Parigi ebbi di nuovo fortuna negli incontri che feci…
Giunsi che era appena sera, e già scintillava di luci. Dalla collina le lanterne sembravano tante piccole formiche luminose. Camminai verso il centro della città guadandomi intorno sorridendo. Rallentai il passo di fronte all’insegna di una locanda, sul cui legno stava verniciato, a grandi lettere gotiche “bellevue”. Spinsi cauta la porta e mi immersi nell’atmosfera caotica della locanda.
Dal giorno che divenni vampira mi feci più lunatica, alternando momenti scorbutici e momenti gentili. A volte mi capitava di non accorgermi dei momenti d’ira, e quando ritornavo ad essere calma ricordavo ben poco di ciò che accadeva. Non mi resi conto che stava avvenendo uno sdoppiamento di personalità, e riuscii solo in seguito ad ammettere che il motivo del mio comportamento lunatico dipendeva dall’esperienza con il vampiro che tesseva il mio destino. Ero combattuta tra l’amore che avevo provato e la rabbia che le sue continue apparizioni e fughe comportavano. Ben presto la mia sdoppiata personalità conobbe la sua strada. Oltre all’ossessione per le poesie mi interessavo di arte, cercavo di leggere fuori dalle righe avevo un fine istinto verso tutto ciò che mi circondava.
Nella locanda mi accorsi che nelle salette più interne regnava la tranquillità, forse perch’era ancora presto, gli avventori non erano ancora talmente sbronzi da cominciare a scazzottarsi. Riconobbi subito l’oste, il classico oste basso, baffuto e senza collo. Non gli avrei cavato una goccia di sangue se lo avessi morso, probabile che nelle vene gli circolasse solo grasso. Chiesi una stanza e misi le chiavi nella borsa, pensando che mi sarei coricata con le luci dell’alba. Mi sedetti ad un tavolo senza chiedere nulla da bere, esaminando la mappa giunta insieme al biglietto e al pegaso. Vi era indicata la strada per arrivare a lot, e calcolai almeno qualche mese da passare a Parigi; non avevo nessuna fretta, e avevo bisogno di cercare un lavoro per passare il tempo notturno. Sbuffando piegai la mappa e tirai fuori un pezzo di pergamena e la penna con il calamaio. Cominciai a scrivere sulla mia situazione. Quando ero agitata, mi aiutava a calmarmi, e lo fa ancora adesso. Avevo scritto qualche riga quando avvertii la presenza di qualcuno alle mie spalle. Mi voltai lentamente, dietro di me, un bardo vestito stravagante stava sbirciando i miei versi con un espressione buffa e concentrata. Scoppiai a ridere e lui si distolse dalla lettura, sorridendo.
“scusate myLady, non avevo intenzione di farmi i Vostri affari”
“però l’avete fatto, bardo” dissi ridendo.
“trovo che siate molto profonda nelle vostre rime e mi avete colpito”
“perché non vi sedete con me? Vi offro da bere.” Lui fece un grande sorriso e si sedette. Gli raccontai la mia storia e lui mi raccontò la sua.
“potreste prendere il posto del giullare alla Corte del Re. C’è un posto vacante, in quanto il suo predecessore è appena partito verso le lande di Lot.” A quel nome sussultati
“quindi la corte è sprovvista di qualcuno che allieti le afose estati come queste” fece una risata gentile.
“perché non andate voi?” gli chiesi.
“non mi interessa l’ambiente della ricchezza. Sono un bardo semplice, e sono felice di vivere alla giornata. Sareste perfetta, Sheevah.” Rimasi in silenzio e poi sorrisi. Ringraziai il bardo e mi congedai “è quasi giorno. Abbiamo conversato tutta la notte… s’è fatto per me tempo d’andare…”. Le luci dell’alba cominciavano a schiarire il verde delle colline, e i suoi raggi prendevano vita nei riflessi delle finestre. Mi accompagnò fino alla mia stanza, ci abbracciammo e lui mi baciò la mano. Sul suo polso sinistro vidi la cicatrice a forma di croce. Ma come sempre sparì, sussurrandomi “buona fortuna”, in un orecchio che amava una sola voce. La stessa.
Girai lentamente la chiave nella toppa e mi buttai sul letto, ingoiando lacrime di sangue sorridendo.
Mi svegliai di nuovo sul far della sera. Considerato che non potevo camminare di giorno, non intendevo arrivare troppo tardi alla corte. Mi feci indicare la strada dall’oste e mi incamminai verso il centro di Parigi. In una buia strada un giovane stava camminando lentamente, mentre canticchiava una canzone. Nell’oscurità mi fermai e lo fissai con un brillare negli occhi “cosa cantate?” lui si fermò e si guardò intorno, io mi avvicinai rapidamente. “cantate, per me sarà ossessione non sentire la vostra canzone…” Lui rimase silente e disorientato. Morsi lentamente e con un sorriso mi allontanai, asciugandomi le labbra.
Giunsi nei pressi di un enorme cancello di ferro battuto decorato. Lo spinsi cautamente guardando in alto dove le lunghe punte di ferro troneggiavano minacciose sul cancello. A passo veloce attraversai l’enorme chiostro, fino a trovarmi davanti un portone di legno scuro. Bussai con le maniglie di ferro e la porta si aprì in un anticamera piena di guardie. “so che il giullare di corte è partito in cerca di miglior fortuna. Sono qui per prendere il suo posto.” Non ebbi tempo di finire la frase che una delle guardie si staccò dalle fila per scomparire dietro la porta dell’anticamera. Due guardie, come due alfieri su una scacchiera, si mossero verso lo spazio che la guardia aveva lasciato, in una sorta di partita invisibile. Rimasi in piedi ad aspettare almeno due giri di clessidra, poi finalmente la guarda di prima ritornò, invitandomi ad entrare, mentre con una mano teneva aperta la porta per farmi passare. Mi guardai intorno, ammirando la ricchezza del luogo, talmente ampio che metteva i brividi. La guardia mi condusse, nella sua marcia silenziosa, in una sala di velluto rosso. Un trono d’oro massiccio era occupato da una figura avvolta in un mantello di ermellino maculato. Sul capo aveva una massiccia corona d’oro, prevedibilmente tempestata di gemme. Mi avvicinai, lentamente, e mi inginocchiai al suo cospetto. Lui stava con un gomito appoggiato al bracciolo, e mi guardava con aria seria. Quando mi permise di alzarmi il suo viso si rilasso in un sorriso.
“come ti chiami, fanciulla diafana?” a queste parole sussultati ancora, chè mi ricordavano i versi del vampiro, erano le stesse parole che mi disse anni prima. Con un filo di voce risposi:
“Vostra Maestà, il mio nome è Sheevah Sinclair, non conosco il mio cognome”. Lui fece un altro sorriso, abituato com’era ai vagabondi senza nome e senza Dio. “sono giunta da lontano per prestare servizio a Sua maestà Re Luigi IX di Francia. Sono a conoscenza del fatto il Vostro giullare è partito in cerca di fortuna, e vorrei provare a sostituirlo”. Lui stette in silenzio poi mi chiese: “cosa sai fare? Illustrami”
Cominciai a snocciolare rime, poesie, favole, testi teatrali, danze.
La sua vita è
fatta di salti di musica e rima
Scivolando sul rispetto e la stima
Aiutato da una cetra colorata
E da una costante risata
Naturalmente è l`allegria
La sua anima è di questo la poesia
Composta di sonetti e rime baciate
Di canzoni e di frasi sgrammaticate
Agli spettatori di ogni ceto
Ai Suoi spettatori insegna lieto
Di follia e dolce lasciarsi andare
Alla magia di un Giullare
Lo scettro che ha in mano
È un oggetto arcano
Punge la Vostra via
Per lasciarVi andare alla dolce follia…
Feci una riverenza studiata e complicata. In quel momento sentii degli applausi lenti e cadenzati dietro di me. Un giovane dagli occhi verdi vestito di velluto nero e fibbie d’oro si avvicinava a me. Camminava lentamente attraverso la stanza, mi guardò negli occhi per un attimo infinito e si portò alla destra del Re. “questo è mio figlio Filippo III di Francia. Figliolo, lei è MyLady Sheevah”. Senza distogliere lo sguardo scese di nuovo dai gradini del trono, si avvicinò e mi baciò la mano, accennando un inchino. Sussultai. Nessuna cicatrice sul polso, stavolta. Sorrisi impacciata e mi ravviai i capelli. Non potevo sapere che da quel giorno si delineò il mio mestiere, la mia ragione, le mie rime.
Chiunque, al posto mio, si sarebbe maravigliato. Non sostengo di esser rimasta a bocca aperta, casomai, a bocca piena. Peccato che il mio corpo non abbia bisogno di cibo. Avevo ormai rivelato alla famiglia reale la mia natura di vampiro, e infatti mi permettevano di andare a caccia, di notte…
Quella nel far di accordare la fedele cetra, che il principe mi aveva donato e ordinato personalmente di confezionare, con il viso coperto dalle punte del cappello, offrivo apparenza di esser là tutta impegnata a prepararmi all’arte. Ma chi, con occhio più avveduto avesse vigilato il mio sguardo, avrebbe notato che gettavo l’occhio di qua e di là in cerca di qualche spiegazione. Insomma, un banchetto così mica si vedeva tutti i giorni; una tal abbondanza di vivande non m’era mai capitata sott’occhio. Ne’ tantomeno avevo mai visto tavolate così lunghe che al fine di conversare di qualche affare da tener segreto, bisognava educatamente chieder permesso e camminare per almeno un tiro di dardo, per raggiungere finalmente il convitato in questione. Per le vettovaglie e le bevande, il cruccio dell’alzarsi non si poneva. I tavoli erano talmente pieni di brocche, coppe d’oro, vassoi, posate delle più svariate fogge, che davanti ad ogni invitato si figurava l’intero pranzo, dall’uva all’arrosto. Il vociare dei convitati lasciava trasparire una certa eccitazione, una sorta di gaiezza che assomiglia a quella di un fanciullo che ha appena ottenuto la promessa di un giuoco novello. E nel mentre che l’alta società di Parigi, radunata in un’anticamera che misurava leghe innumerabili, discuteva di affari esteri, oppure tentava di sostenere conversazioni sui prezzi delle giumente, io notavo quanto influisse la presenza di quelle vivande che venivano ad imbandire la tavola grazie a solerti ed eleganti servitori che portavano livree con bottoni d’oro. Tutta quella ricchezza mi faceva sorridere. Sembrava un sogno condividere ogni giorno l’abbondanza e l’agio; tutto intorno a me urlava oro, ma in quel momento, ciò che richiamava l’attenzione di tutti gli astanti, era senza dubbio il banchetto. Il compleanno del Principe era evidentemente motivo di grande festa, ma non m’aspettavo tanta dovizia nell’apparenza. Ero sempre stata di semplici principi, e sebbene il mio mestiere vedeva girarsi attorno denari e commercio, arte e lavoro, ogni volta, il Re mi stupiva. Insomma, un bue intero, sdraiato su una tavola con un agrume nelle fauci, non l’avevo mai visto! Mentre tutto questo pensavo, gettavo un’occhiata intorno, e poi mi rivolgevo nuovamente alla mia cetra, di quel rosa intenso che adoro, con le mie iniziali incise nel legno di salice, e muovevo abilmente il capo per far tintinnare ora una, ora l’altra delle sette punte del cappello, per suonare ora l’uno ora l’altro campanellino, corrispondente a ciascuna tonalità musicale. Era il mio metodo per accordare il mio strumento, lo facevo per creare l’unisono dei i miei campanelli con lo strumento che suonavo. Il risultato era argentino e delizioso, a mio avviso. Stavo girando la chiavicella della settima corda, e tenevo il capo abbassato e concentrato, seduta in disparte in un angolo della sala, con la cetra appoggiata sulla gamba, quando una figura si era stanziata di fronte a me, evidentemente, perché la guardavo distrattamente con la coda dell’occhio. Nel momento in cui mi resi conto che l’intero salone era diventato taciturno di colpo, alzai gli occhi, mi guardai a dritta e a manca rapidamente, e poi il mio sguardo si rivolse innanzi a me. Ero seduta e lo sguardo era chino, ma con un brivido mi accorsi del blasone d’oro che la figura aveva appesa alla cinta. Senza dire una parola alzai gli occhi e vidi in viso il Principe, di cui soventemente evitavo lo sguardo, a pochi centimetri da me. Con un sorriso mi porse la mano ed io, poggiandola sulla sua mi alzai con lentezza unica e confusa. Lo fissai negli occhi per un istante e poi, senza lasciare la sua mano feci un profondo inchino. Lui, senza distogliere il sorriso, partecipe a quel rito di educazione a cui era avvezzo non lesse nei miei sensi l’emozione del contatto con la sua regale mano, ma proferì parola, la parola per cui si era recato fino all’umile Giullaressa chiamata ad allietare la sua festa. Con voce morbida mi disse: “MyLady Sheevah, tocca a Voi”, chinò lievemente il capo per riverirmi e mi condusse con elegante gesto nel salone del banchetto ora più sfavillante che mai, in quei vassoi d’oro, in quegli invitanti profumi, in quei cristallini e rubini riverberi del vino, in quei suggestivi raggi di luna che filtravano sul candido lino delle tavole. Chiunque, al posto mio si sarebbe maravigliato.
Una sera di tanti mesi mi trovavo sulle rive del lago reale. Riflessi argentini di luna gettavano ombre sulla nera increspatura dell’acqua. Ovunque, fronde ondeggianti di alberi senza tempo; mi trovavo in una danza eterna, in cui forse ero un’intrusa. Cominciai a cantare…
C’era una volta l’Amore
C’era una volta
La luna l’orgoglio e l’onore
C’era una volta un sogno
C’era una volta una pagina bruciata
Una notte un tetto e una stella caduta
C’era una volta un sorriso un bacio un fiore
C’era una volta l’Amore
Sospirai e mi guardai pigramente attorno. Una sagoma ammantata incedeva lentamente verso di me. Il vento drappeggiava il mantello nel suo soffio. Il principe si sedette accanto a me, scrutandomi gli occhi co’ suoi.
“Cosa Vi turba MyLady? Come mai solitaria contate le stelle?”
In un sussurro risposi: “La mia natura mi rende apatica, sento il siero della follia insinuarsi nelle viscere”
Lui sorrise pacato “Ora siete un’artista completa. Folle, maledetta.”
Annuii. Lui ruppe il silenzio
“Mordetemi MyLady”. Si era avvicinato.
Incredula scossi la testa “perché?”
Lui avvicinò le labbra “io sono innamorato di Voi”
In un istante lo morsi, dolcemente, lambii le ferite e lo guardai in volto, dove occhi chiusi si aprirono di nuovo.
Mi asciugai le labbra. “Quod vita aegrotat, Amor curat”, disse.
Si alzò e mi donò uno scettro da giullare, artigianalmente il fantoccio era stato forgiato coi lineamenti del mio viso. Gli baciai la guancia. Gli occhi mi brillarono di nuovo di quella luce gelida e terribile. La luce della separazione.
La sera dopo, ringraziai la famiglia reale, che mi aveva permesso di tenere i doni e i costumi, mentre con una lacrima di sangue saltai sul dorso del dolce Afros, partii quindi alla volta di Lot.
Atterrammo al limitare della foresta, Afros si sgranchì le ali e sorvolò da solo le mura, lasciandomi coi bagagli in un ampio piazzale. Dopo qualche passo giunsi innanzi a un portone di legno. Una lanterna livida gettava luce fioca sulle interminabili mura grigiastre. Sembrava un sogno in bianco e nero. Una folata di vento gelido mi penetrò nelle ossa, e mi strinsi cauta nel mantello. Potevo sentire chiaramente il lume della lanterna che scottava sulla guancia. Continuavo a guardare lo stipite cercando di leggere la targa sulla porta, nell’oscurità, un fruscio di seta e ferraglia si insinuò nel mio orecchio, e prese la figura di una guardia, una alto alfiere con una corazza e mantello bianco. “Benvenuta a Lot”, disse suadente. La sua voce echeggiò nel buio come un sussurro invitante. Sorrisi ed egli mi disse ancora:
“Sarete stanca. Firmate il registro e avviatevi pure alla taverna”, e dicendo questo spalancò l’ampio portone, senza un solo rumore. Guardai dentro, ma era ancora più buio. Prima di essere inghiottita dall’oscurità mi voltai per ringraziarlo. Accanto a me, però, non v’era nessuno. Guardommi intorno, nella strada nulla, nessuno. Silenzio. La porta, alle mi spalle si chiude con un tonfo sordo. Girai lo sguardo, poggiai a terra i miei bagagli. Una torcia si accese di colpo, io sussultai e mi guardai di nuovo intorno, dove una figura con un mantello e un cappuccio blu che gli copriva il volto misteriosamente, mi invitava a con voce sussurrata, quasi impercettibile, ad avvicinarmi alla scrivania cui era seduto. Teneva di fronte a sé un registro chiuso, che aprì con uno schiocco e fece girare verso di me. Io silenziosa, cercavo di vedergli il volto, abbassavo e alzavo lo sguardo su lui e sul registro, che chiedeva le mie generalità, ma potei scrivere ben poco.
Lui lesse e mi chiese se avevo deciso un nome nuovo da utilizzare nel GranDucato, al fine di ottenere un’effettiva cittadinanza. Ci pensai su qualche istante, passandomi la penna scarlatta sul viso, poi scrissi
ShEdEviL
Lo scrissi proprio così. Pensai che lettere in questa disposizione descrivessero il mio atteggiamento lunatico, le mie due personalità, i miei alti e bassi. La figura forse sorrideva. Si alzò e mi indicò un buio corridoio, il quale, mi spiegò, terminava in un portico, e successivamente nel piazzale principale. Lo percorsi senza vedere molto, e mi ritrovai nei luoghi indicati dal figuro. Un lampo mi baluginò negli occhi. Era notte fonda, ma dappertutto c’era festa, chi urlava, chi rideva, chi duellava. Mi feci spazio in quel girotondo e studiai la mappa appesa accanto alla fontana, alzai il volto al cielo e vidi Afros volare e planare accanto a me. Lo baciai, gli accarezzai il dorso e lo lasciai bere nella fontana. Sorridendo feci un passo su quel suolo nuovo, e mi incamminai lentamente verso la taverna, inghiottita dall’oscurità, solo il suono distorto dei campanelli, poi, il nulla…