CAPITOLO 9

  Finalmente i tre viaggiatori, dopo una sera tanto agitata, per il matrimonio fallito, e il viaggio durato una notte intera, giungono a Monza. Qui, fatta colazione, la compagnia, con tanta tristezza nell’anima, si separa: Renzo si avvia verso Milano; Agnese e Lucia, guidati dal « buon barocciaio », verso il convento, dove il padre guardiano, apprendendo dalla lettera che la sorte delle donne sta tanto a cuore a padre Cristoforo, le conduce al monastero della signora, onde procurar loro colà asilo.

Diciamo subito che la signora, di cui parla il padre guardiano, è Gertrude, figlia di un principe, alla quale l’autore, per tracciarne li profilo, dedica questo capitolo e quello seguente.

Gertrude è vittima innocente dell’orgoglio del padre, di un padre perfido ed indegno, che la costringe a divenire monaca, pur sapendo che in lei non c’è tale vocazione; tutto questo perché è ossessionato dalla insufficienza di mezzi, idonei a conferire decoro al suo casato. E animato da questi insani propositi, fa subire la stessa sorte ai fratelli cadetti, di modo che tutte le sostanze restino al primogenito.

Essa resta rinchiusa in convento per otto lunghi anni, fino a quattordici anni, età in cui può pronun­ciare i voti. In tale periodo sono orditi inganni su inganni. Per distoglierla dal suo naturale istinto di partecipare alla vita attiva del mondo, si lascia intravedere la possibilità di raggiungere la più alta carica della comunità. Ma un eventuale privilegio di supremazia in convento è una consolazione evanescente, perché quando le compagne parlano di feste, di nozze, di vestiti e di pranzi, ella sente pesare un destino avverso su di sé, e spera in quei momenti di poter negare il consenso di prendere il velo, e quindi potersi maritare e « godersi il mondo ».

Per questo Gertrude; consigliata anche da una sua amica fidata, si decide a scrivere una lettera al padre, manifestando timidamente le sue intenzioni di non prendere il velo. Per questa lettera, alla quale il padre non risponde, Gertrude è ammonita dalla superiora per un grave fallo commesso, che però non viene rivelato.

Dopo otto anni di permanenza in monastero, giunge il tempo, come vuole la regola, di tornare in famiglia, prima del voto. Qui è accolta da tutti con indifferenza e diffidenza. La tattica del principe, che nulla chiede e nulla impone, è chiara: far capire alla figlia che in convento, anche se destinata ad un umiliante accoramento, sta meglio che in casa. Tutti la guardavano come un’indegna, come se fosse rea chissà di quale misfatto. Quando, poi, la cameriera la sorprende che aveva scritto un biglietto diretto al paggio, e che invece va a finire nelle mani del padre, i suoi guai aumentano. Per prima cosa è rinchiusa, come se fosse un soggetto pericoloso, dentro una camera e sorvegliata a vista, mentre il paggio è subito licenziato.

Tappata in quella stanza e sorvegliata da quella dispettosa guardiana, che l’aveva sorpresa col biglietto in mano, sente uno struggimento insopprimibile, « un bisogno prepotente di vedere altri visi, di sentire altre parole, d’esser trattata diversamente ». Perciò, nella speranza di commuovere il padre, non osando affrontarlo personalmente, gli scrive una lettera, «implorando il perdono ».


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