CAPITOLO 27

In questo capitolo innanzi tutto il Manzoni si preoccupa di tracciare un quadro storico della Milano di quei tempi per dimostrare principalmente come quel governatore, don Gonzalo, nel susseguirsi di avvenimenti piuttosto complicati: la guerra per la successione ai ducati di Mantova e del Monferrato e i disordini popolari, non abbia altra preoccupazione se non quella di non ledere la sua vanità e il suo prestigio.

E l’indifferenza, l’incuria, la mancanza d’interessamento, per risolvere i problemi della gente che soffre, non sono solo di don Gonzalo, ma anche dei diplomatici e degli uomini politici. Le proteste di don Gonzalo presso le autorità di Venezia, che hanno ospitato Renzo, hanno un solo scopo: non denigrare il suo prestigio in un momento così critico per lui. Ma quando le acque si sono placate e tutto è ritornato alla normalità, il governatore non ci pensa più. Renzo, però, ignaro di tutto ciò, è costretto a vivere nascosto, e ciò rende più difficile far pervenire sue notizie alle donne, tanto più che non sa né scrivere né leggere, e perciò costretto a procurarsi una persona di fiducia, a cui confidare i suoi segreti, cosa quanto mai difficile.

«Finalmente, cerca e ricerca,» Renzo trova la persona che scrive per lui; e quando Agnese riceve la prima lettera, poiché anche lei, come Renzo, non sa né leggere né scrivere, corre dal cugino Alessio e se la fa leggere e spiegare: concerta con lui la risposta e si avvia così « un carteggio né rapido né regolare, ma pure, a balzi e ad intervalli, continuato».

Nel ricevere la prima lettera con i cinquanta scudi, Renzo rimane perplesso, non sa capacitarsi; e quando dal suo lettore apprende la ragione di quel denaro, anche se con poca chiarezza, e poi, per via di perifrasi, viene a parlar del voto, manca poco che non se la prenda col suo segretario, « e in quella febbre di passioni, » Renzo fa scrivere che lui non vuoi mettere il cuore in pace, e non lo metterà mai, e che i denari li terrà in deposito « per la dote della giovine » per metter su casa.

Allorché Lucia apprende dalla madre che Renzo è vivo e salvo, sente un gran sollievo, ma non desidera altro; ella lavora assiduamente per dimenticarlo, ma l’immagine di Renzo si presenta alla sua mente di nascosto, furtivamente, di modo che se ne avvede dopo qualche tempo, quando ha preso consistenza. E’ evidente che Lucia vuole scacciare dalla sua mente l’uomo che teneramente ha amato, ma costui le appare da ogni parte, sia pensando al passato che all’avvenire. E’ un dramma intimo quello di Lucia veramente commovente; una lotta disperata; e forse sarebbe riuscita a dimenticano; ma donna Prassede, impegnata per certe sue idee, a cancellarlo dalla sua mente parla spesso e male di Renzo, un rompicollo, un birbante, un ladro. E allora Lucia, sapendo quanto siano false le affermazioni della sua protettrice, per opposizione, sente per lui un’infinita tenerezza.

Donna Prassede esercita la sua autorità anche sulle cinque figlie (tre monache e due sposate) e sulla servitù, ma non sul marito, don Ferrante, uomo di studio che non gradisce « né di comandare né di ubbidire». Costui trascorre lunghe ed inutili ore nel suo studio, sprofondato nella poltrona. Egli si interessa di filosofia antica e naturale, di stregoneria e magia, ma predilige la scienza cavalleresca e l’astrologia, scienze quanto mai inutili. Egli si è ingombrato il cervello di tante stupide cognizioni che quando ne parla è veramente ridicolo.


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