CAPITOLO 19

Il  conte zio, dunque, ferito nel suo orgoglio dal racconto del conte Attilio, ne accoglie l’invito di interessarsi presso il padre provinciale, per l’allontanamento dell’incomodo padre Cristoforo.

L’autore comunque non manca di lanciare i suoi strali, poiché il padre provinciale con la sua decisione impedisce al frate di svolgere, secondo le regole, la sua missione di carità; di fare del bene a dei poveri perseguitati.

Il  dialogo, tuttavia, tra questo strano padre provinciale e il conte zio è un capolavoro artistico: il loro linguaggio è ricco di sottigliezze, di frasi pronunziate a metà, di discorsi ambigui; e tutto ha un solo fine: impedire a padre Cristoforo di proteggere gli indifesi.

Padre Cristoforo — dice con sottile perfidia il conte zio al padre provinciale, per indurlo a trasferirlo — « è un po’ amico dei contrasti ». E per mettere ancora in cattiva luce il frate, non manca di giocare di fantasia. « Mio nipote è giovine; » — dice —« il religioso, da quel che sento, ha ancora tutto lo spirito, le... inclinazioni d’un giovine ». E’ giusto quindi che interveniamo noi che abbiamo più anni e più giudizio; bisogna « allontanare il fuoco dalla paglia ».

Con questo colloquio il conte zio riuscì a persuadere il padre provinciale a trasferire padre Cristoforo da Pescarenico a Rimini.

La seconda parte di questo capitolo è dedicata alla descrizione « d’un terribile uomo, » al quale don Rodrigo si rivolge, per portare a compimento la sua impresa.

Anche se costui è un personaggio realmente esistito, è ugualmente una stupenda e geniale creazione manzoniana. Di lui si scrisse molto, ma nessuno osò palesare il suo nome. Il Rivola lo definisce « un signore altrettanto potente per ricchezza, quanto nobile per nascita ». Il Ripamonti lo giudica uomo che «assicurandosi a forza di delitti, teneva per niente i giudizi, i giudici, ogni magistratura, la sovranità; menava una vita affatto indipendente; ricettatore di fuorusciti, fuoruscito un tempo anche lui; poi tornato come se niente fosse... ».

E’ costui, che il Manzoni dice di esser costretto a chiamare l’Innominato, al di sopra e al di fuori della legge, e arbitro delle faccende altrui, è temuto e ossequiato da tutti. Superiore a tutti per ricchezze, coraggio e temperamento, ha molti amici «subordinati », ed è stato catastrofico con coloro che hanno voluto rivaleggiare con lui. « Anche alcuni principi esteri si valsero della sua opera, per qualche importante omicidio ». La sua casa, dice ancora il Ripamonti, « era come un’officina di mandati sanguinosi ». Unico lato positivo del suo carattere è quello di essere leale, di non ricorrere ad intrighi meschini. Qualche volta ha prese le parti dei deboli e degli oppressi e ha costretto l’oppressore « a riparare il mal fatto, a chiedere scusa »; ed in tal caso il suo nome, tanto temuto e odiato, è stato benedetto, perché quella giustizia, allora, non si poteva ottenere «da nessun’altra forza né privata, né pubblica ».

Perciò don Rodrigo, che è sì un prepotente, ma non certamente un « tiranno selvatico », non avendo né le forze, né la capacità, di rapire Lucia, e volendo « dimorar liberamente in città, godere i comodi, gli spassi, gli onori della vita civile », accompagnato dal Griso e dalla solita combriccola di bravi, una mattina si avvia al castello dell’innominato.


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