Il cavallo del vescovo di Catania
Il mio decimo componimento tratta della leggenda del cavallo del vescovo di Catania: ai tempi di Enrico VI di Svevia, re di Sicilia dal 1194 al 1197, il vescovo di Catania, rapace dignitario imposto dal sovrano tedesco, un giorno affidò il suo cavallo prediletto ad uno scudiero, perché questi lo conducesse al pascolo sulle rupi dell’Etna. Il cavallo si imbizzarrì correndo verso la vetta del vulcano; lo scudiero lo inseguì fino al margine del cratere centrale, ma poté solo assistere al salto che vi fece il destriero. L’uomo scoppiò in pianto al pensiero di quale sorte lo attendesse al suo ritorno presso il proprio spietato signore. All’improvviso comparve un vecchio, che gli intimò di seguirlo e, presolo per mano, lo guidò attraverso le viscere del Mongibello fin dentro una sala favolosa, nella quale si trovava un trono tutto d’oro, su cui sedeva re Artù. Questi affermò di essere a conoscenza delle vicende del vescovo di Catania, e gli indicò in fondo alla sala il cavallo che era precipitato. Lo invitò, quindi, a far ritorno dal vescovo per raccontargli ogni cosa, e riferirgli, inoltre, che la sua malvagità aveva stancato perfino l’infinita pazienza di Dio, il quale, se non ci fosse stato un serio pentimento, lo avrebbe punito presto. Infine, gli ordinò di fargli sapere che, se avesse voluto indietro il suo cavallo, sarebbe dovuto venire a riprenderselo in persona, salendo a piedi fino in cima al vulcano; ma se non fosse venuto entro quattordici giorni, al quindicesimo sarebbe morto. E detto questo lo licenziò. Il vescovo non credette alla versione dello scudiero e lo spedì in prigione. Per quattordici giorni, se lo faceva comparire davanti e lo interrogava, ma l’altro insisteva con la storia di re Artù; intanto la gente che veniva mandata sull’Etna a cercare il cavallo non faceva più ritorno. Al quindicesimo giorno il vescovo, adirato, accusò il servo di stregoneria ed ordinò alle sue guardie di bruciarlo vivo, ma fece appena in tempo a dirlo che morì.
Ho ricavato questa leggenda da www.asicilia.it/cultura/storie. Tuttavia non vi è specificata l’identità del crudele vescovo: non può trattarsi che di Ruggero de Oco, presule catanese dal 1194 al 1207. In effetti Ruggero, che peraltro ebbe un rapporto contrastato con Erico VI, arrivando anche all’aperta ribellione, fu molto odiato dai Catanesi per il suo rigore nell’esazione fiscale, tanto che nel 1201 era stata ordita una congiura mirante alla sua uccisione. Sennonché morì di vecchiaia e non nel modo descritto dalla leggenda, ma si sa che le leggende non sono veritiere fino in fondo (cfr. F. Ferrara, Storia di Catania sino alla fine del XVIII secolo, Catania 1829, pp. 44-48).
Il cavallo del vescovo di Catania
Il giogo insostenibile
del vescovo Ruggero,
avaro ed insaziabile,
del suo lignaggio altero,
gravava su Catania:
un giorno il suo destriero
più bello agli erti pascoli
dell’Etna egli mandò.
Fu data la custodia
ad un palafreniere
devoto all’empio presule
in ogni suo volere,
ma gli scappò la bestia,
che, giunta sul cratere
centrale in fretta e furia,
nel baratro balzò.
Nell’atto di rincorrere
il rapido corsiero,
vede la scena orribile
il povero scudiero,
che versa calde lacrime
oppresso dal pensiero
dell’ira del suo vescovo
al suo ritorno giù.
D’un tratto appare un vecchio
che, presolo per mano,
lo scorta nelle viscere
segrete del vulcano
dentro una sala splendida,
dimora d’un sovrano
che si rivela il celebre
re dei Britanni Artù.
Siede con posa rigida
sopra uno scranno d’oro
al centro della camera,
magnifico lavoro
di sovrumani artefici,
mirabile tesoro
inciso con immagini
della futura età.
Sull’aurea superficie
Catania si distingue
sommersa dapprincipio
da fiammeggianti lingue:
quindi un potente tremito
l’atterra e quasi estingue,
ma dalle calde ceneri
risorge la città.
Artù, sedendo immobile
sul suo sfarzoso stallo
con maestosa grazia,
rimprovera ogni fallo
e crudeltà del vescovo
ed indica il cavallo
che cadde a precipizio
ed ora trotta là:
«Tornato dal tuo vescovo,
a pronta penitenza
per il suo bene esortalo,
perché la prepotenza
del cuore suo malvagio
stancò la pazïenza
di Dio, che per mio tramite
se no lo punirà.
Per questo e per riprendersi
la bestia che là vedi,
entro il quattordicesimo
giorno qui venga a piedi».
Allo scudiero attonito
per i fastosi arredi
così prescrisse il principe
e poi lo congedò.
Il servo, ritrovatosi
in seguito al cospetto
dell’iracondo vescovo,
ciò che gli fu predetto
narrò, ma quello, incredulo,
fu preso dal sospetto
e l’innocente nunzio
in carcere mandò.
Ogni mattina in curia
il mesto prigioniero,
scortato dalle guardie
al seggio di Ruggero,
ne riceveva l’ordine
di rendere il destriero,
ed era la sua replica
sempre: «Ce l’ha re Artù».
Tra le foreste impervie
del Mongibello intorno
frattanto audaci militi
il presule ogni giorno
mandava, ma quei miseri
smarrivano il ritorno
né la città notizie
di loro ebbe mai più.
Infine, al quindicesimo
giorno, cedendo all’ira
come calpesta vipera
che serri ogni sua spira,
l’esasperato vescovo:
«Sopra un’ardente pira, -
al servo urlò - malefico
stregone, oggi morrai.
Guardie, suvvia, prendetelo:
che sia bruciato vivo!».
Così dispose, alzandosi
con piglio volitivo,
ma qui restò d’un attimo
di vita e voce privo,
senza nemmeno accorgersi
o proferire un “ahi!”.
Marco Tullio Messina