’A truvatura di Santa Sofia

Il mio sedicesimo componimento è dedicato ad una truvatura. Con questa parola s’intende un tesoro incantato: infatti pare che, fin dall'epoca dell’occupazione araba, i Siciliani, tra un’invasione e l’altra, nascondessero le proprie sostanze sottoterra e con il tempo si siano venute a creare in tutta l’isola delle leggende su favolosi tesori nascosti. Secondo la tradizione, ogni truvatura è soggetta ad un incantesimo operato per mezzo dell’uccisione di un uomo, che, legato mediante il sangue versato al tesoro, ne diventa custode e può presentarsi ai vivi sotto le spoglie di un nano, di un moro, di un castrone, di un serpente, di un drago ed altre ancora. Per impossessarsi delle ricchezze, bisogna spegnare o sbancare la truvatura, cioè operare dei rituali molto sofisticati e misteriosi, ma ciò avviene ben di rado, per cui sembra che ai nostri giorni molti tesori siano ancora intatti. Secondo una leggenda, a Costantinopoli esisteva una lista, fatta stilare dal Gran Turco, cioè dal sultano ottomano, nella quale erano enumerate tutte le truvature siciliane ed il modo per sbancarle[1]. La mia leggenda di truvatura è localizzata a Santa Sofia, il colle che si eleva su Cibali: si narra che in una caverna siano stati nascosti sette corbelli pieni di monete d’oro e monili e, per spegnare questo tesoro, siano necessari sette uomini che abbiano gli stessi nome e cognome; essi, durante una notte di tenebra senza né luna né stelle, devono ritrovarsi nei pressi della grotta; addentratisi, compieranno a poco a poco dei rituali, di cui ormai si è persa la memoria; ad un certo punto, la grotta si illumina ed appare una bella giovane che subito si tramuta in un caprone; la bestia con un cenno invita il capo dei sette a montare sulla sua groppa e, poco dopo, i due ricompaiono a Costantinopoli in un posto segreto dove l’uomo s’impossessa di un anello e di una verga, indispensabili per infrangere l’incantesimo; immediatamente, ritornano nell’antro ed il caprone si ritrasforma nella giovane e poi in un orribile mostro con sette fauci che sputano fuoco; i sette non devono assolutamente averne paura o altrimenti morranno; il capo infilerà l’anello nella bocca centrale del mostro, facendolo così scomparire; la verga, invece, servirà a fare comparire i sette corbelli aperti, uno per ciascuno dei compagni. La tradizione aggiunge che, in un tempo imprecisato, alcuni cacciatori, insieme con i loro cani da caccia, trovarono riparo nella caverna, dove scorsero per terra alcune monete d’oro: essi cercarono inutilmente di prenderne possesso, ma quando le afferravano, non potevano più muoversi; allora provarono a mettere in bocca alcuni pezzi ai cani, ma questi non poterono uscire finché non ebbero deposto il loro carico. Verso la fine del diciannovesimo secolo, il proprietario del terreno su cui si spalancava l’antro, stufo del continuo andirivieni di curiosi che cercavano il tesoro, ne fece ostruire l’ingresso e da allora nessuno vi poté più entrare, poiché, peraltro, si ignora dove sia esattamente la caverna. Per chi voglia saperne di più,

cfr. Salvatore Lo Presti, Fatti e leggende catanesi, San Giovanni La punta 1995, pp. 153-161 (soprattutto, pp. 156-161).

 

’A truvatura di Santa Sofia

Sul colle che sorge su Cibali,

sul colle di Santa Sofia

si trova un tesoro fantastico,

soggetto ad arcana magia:

in una caverna da secoli

si celano sette corbelli

che giacciono pieni di polvere

e carichi d’oro e gioielli,

ma queste ricchezze da favola

di cui non si spegne la fama

e forse neppure la brama,

finora nessuno spegnò.

 

Infranto sarà l’incantesimo –

s’ignora sia quando sia come –

da sette persone che portino

identici nome e cognome:

verranno costoro in silenzio

nell’antro nell’ora più bruna

durante una notte di tenebra

e vedova d’astri e di luna;

scandita di dentro una formula

che sfugge all’orecchio profano,

saranno compiuti man mano

dei riti, ma quali non so.

 

È fama che l’antro s’illumini

allora d’un lampo improvviso

ed una fanciulla bellissima

appaia lanciando un sorriso:

ma presto svanisce la giovane

a guisa di vana visione

e prende il suo posto l’immagine

d’un nero belante caprone;

al capo dei sette la bestia

fa segno d’ascendere in groppa

e come tre passi galoppa,

i due non si vedono più.

 

Rïeccoli a Costantinopoli

e l’uomo, restando sul vello

del nero caprone, recupera

la verga incantata e l’anello

d’un rio negromante che domina

le forze del carcere cieco,

ma nello scoccare d’un attimo

appare di nuovo lo speco;

qui, posto per terra il suo carico,

il becco scompare nel nulla

e torna la bella fanciulla

in grazia d’occulta virtù.

 

Ma questa diventa un’orribile,

immane, infernal creatura

con sette ampie fauci che sputano

fiumane di fuoco: paura

i sette compagni non provino

oppure morranno all’istante,

bensì le fiammate sostengano

con animo fermo e costante.

Il capo, per vincerla, collochi

nel grifo centrale l’anello

e scuota la verga: un corbello

ciascuno ai suoi piedi vedrà.

 

Piovendo – si narra – trovarono

taluni nell’antro un riparo,

guidati da cani da caccia,

e scorsero un po’ di denaro:

con foga le mani colmarono,

ma queste rimasero immote

col resto del corpo dei cupidi,

finché non tornarono vuote;

neanche le bestie poterono

uscire coi soldi nel muso.

Un giorno poi l’antro fu chiuso

ed ora nessuno ci va.

 

Marco Tullio Messina



[1] Sulle leggende di truvatura, cfr. Giuseppe Pitrè, Usi e costumi, credenze del popolo siciliano, vol. IV, San Giovanni La Punta 1993 (ristampa), pp. 389-453; Nino Muccioli, La leggenda delle «truvature» in Leggende e racconti popolari della Sicilia, Roma 19943, pp. 153-154; Leggende popolari siciliane in poesia, raccolte ed annotate da Salvatore Salomone-Marino, San Giovanni La Punta 1993 (ristampa), pp. 103-121.