Rosa, la Sultana d’Aci

Il mio undicesimo componimento è dedicato a Luca Strano, benemerito dei Catanesi meneghini e massimo ideatore del Club Catania Lombardia, il quale, il giorno 28 Dicembre 2002, si sposa con la sua fidanzata Gabriella. A loro fa riferimento l’ultima strofa. La vicenda narrata nel carme è in qualche modo un’esaltazione del matrimonio d’amore: ne è protagonista Rosa, una delle quattro Sultane d’Aci di cui è tramandata la memoria. Rosa era figlia di un marinaio benestante di Acitrezza, che l’aveva promessa in sposa ad un facoltoso mercante di Malta; nondimeno ella era innamorata di Felice, il figlio primogenito di Alfonzo Rodriguez y Babilla, castellano di Aci. Quando venne per lei il momento delle nozze, Rosa s’imbarcò con destinazione Malta, ma  non fece in tempo a raggiungere Capo Passero che fu catturata dai pirati saraceni e condotta a Costantinopoli. Qui fu destinata al talamo del vecchio Sultano Selìm, il quale non solo non corruppe l’illibatezza della fanciulla, ma la nominò Sultana. Tuttavia Rosa continuava a pensare al suo Felice ed alla patria lontana, finché un giorno, nel serraglio, ella udì il canto di un giovane schiavo: si trattava di Felice, che, datosi alla mercatura per ritrovare Rosa, era stato anch’egli catturato dai pirati. Rosa rispose con un altro canto, nel quale gli dichiarava come il suo amore nei suoi confronti non fosse mutato. Insieme progettarono la fuga ed il ritorno ad Acitrezza; quando Selìm morì e gli subentrò Solimano II, Rosa e Felice approfittarono dei tumulti sorti per la successione per fuggire e far ritorno ad Acitrezza, dove coronarono il loro sogno d’amore. Per chi voglia saperne di più:

Salvatore Lo Presti, Fatti e leggende catanesi, S. Giovanni La Punta 1995, pp. 133-140 (139-140).

 

Rosa, la Sultana d’Aci

Viveva in tempi antichi ad Acitrezza

una fanciulla fresca e rigogliosa;

quasi a riprova della sua freschezza

pura ed intatta si chiamava Rosa;

per i suoi pregi, e più per la bellezza,

tra i suoi compaesani era famosa:

ad un Maltese insigne per ricchezza

dal padre un giorno fu promessa in sposa.

 

Ma per Felice ardeva la ragazza,

figlio d’Alfonso, castellano d’Aci,

giovane bello e d’imponente stazza:

a lui mandava sguardi e cenni audaci,

se lo scorgeva dalla sua terrazza,

come per dirgli: «Solo tu mi piaci»;

e quello, quando l’avvistava in piazza,

le rendeva da lungi accorti baci.

 

Giunse l’acerba e sventurata sera

che Rosa disse ai propri cari addio,

poi si diresse verso la riviera,

già rimpiangendo il suo borgo natio,

per imbarcarsi sopra una galera

diretta a Malta e «O dolce nido mio, -

singhiozzava - per sempre ormai straniera

sarò per colpa d’un destino rio.

 

Qui tempo fa vide il mio dì natale

scaldandomi col primo raggio il sole,

qui poi crescendo il sogno virginale

covai, siccome ogni donzella suole,

di cingermi col velo maritale

per educarvi una robusta prole,

ed ora via mi spinge una fatale

forza che farmi stare qui non vuole.

 

Né rivedrò colui che la mia vista

riconfortava già col solo aspetto:

questa rinuncia è quel che più rattrista!

Il tuo lume, o Signore benedetto,

fino all’estremo dei suoi dì l’assista».

Ed un sospiro le scappò dal petto,

mentre spargeva lacrime non vista,

partendo col pensiero al suo diletto.

 

La nave trasse l’ancora; dal ponte

Acitrezza divenne infine un punto

e si stendeva innanzi l’orizzonte.

Rosa, mostrando un colorito smunto,

teneva bassa la sua bianca fronte

che ne tradiva l’animo compunto,

pensando alle sue nozze ormai già pronte,

non appena il vascello fosse giunto.

 

Poi finalmente si passò Pachino

ed ormai Capo Passero appariva,

quand’ecco un galeone saracino,

che da tempo infestava quella riva,

sopraggiunse alle spalle a far bottino

a spese d’una gente d’armi schiva

e Rosa, deplorando il suo destino,

si ritrovò rinchiusa nella stiva.

 

Verso Costantinopoli frattanto

la propria rotta convertì la nave;

la prigioniera subito all’incanto,

come sbarcò, fu messa con le schiave;

a fatica frenato, un fiero pianto

rendeva Rosa tanto più soave

che fu scelta perché giacesse accanto

al Sultano Selìm, già d’anni grave.

 

A lui, benché vestisse molti panni,

non si scaldava il freddo corpo annoso;

una fanciulla intatta e fresca d’anni

era il solo rimedio vantaggioso

per mitigare i suoi notturni affanni

e consentirgli un tiepido riposo:

Rosa giacque ogni notte senza danni

dentro l’alcova con il casto sposo.

 

L’importanza di lei s’accrebbe tanto

che fu considerata la Sultana

e diventò la sua bellezza il vanto

di tutta la metropoli ottomana,

ma serbava ella sempre un viso affranto,

pensando alla sua patrïa lontana;

dentro il serraglio un giorno un triste canto

udì nella sua lingua paesana:

 

«Un tempo lieta fu la sorte mia

e Felice non era un nome vano;

provvisto d’ogni ricca mercanzia,

contai molte monete sulla mano;

ascesi allora in tanta signoria

che quasi comandavo al gran Sultano.

Poi, fatto schiavo e qui chiamato Elia,

ritrovai Rosa per un fato strano».

 

Era Felice, che per lei la via

del mare aveva preso con premura,

girando per l’intera Barberia

sotto il pretesto della mercatura:

anch’egli, come Rosa, in prigionia

era finito poi per sua sventura

ed ora con tristezza e nostalgia

piangeva in ceppi la sua sorte dura.

 

«Un tempo al mio paese alla follia

Felice amavo e gli volevo bene;

rivolta sempre a lui l’anima mia

notte e dì si struggeva in grandi pene.

Era perduto ed eccolo in Turchia

che lava col suo pianto le catene:

cessò Felice di chiamarsi Elia,

ora che schiava la Sultana tiene».

 

Tale risposta Rosa in pari metro

subito diede al suo fedele amico;

di gioia in faccia, come fiamma in vetro,

le riluceva l’animo pudico

e l’aria spenta del suo viso tetro

riprese allora il bel colore antico:

con lui decise di tornare indietro

al momento propizio al proprio vico.

 

Morto Selìm, il baldo Solimano

gli succedette; non volendo Rosa

toccare in sorte al giovane Sultano,

raccolta in grande fretta ogni sua cosa,

se ne fuggì col suo compaesano

ad Acitrezza e qui divenne sposa

del suo Felice, nome non più vano,

generando una prole numerosa.

 

Felici loro che la dura stella

vinsero e dopo l’aspra dipartita,

avendo superato la procella,

vissero insieme il resto della vita!

Felice, o Luca, te che con Gabriella

ti sposi e pena pur non hai patita!

Siate la vite che si fa più bella

quando all’olmo campestre si marita.

 

Marco Tullio Messina