Gammazita

 Il mio dodicesimo componimento è dedicato ad un altro matrimonio, che di recente ha unito l’amico Marco Sapienza e la simpatica e vitale Simona (ahimé! ne ignoro il cognome, ma so tuttavia che viene da Carlentini ed è gobba, calcisticamente parlando, cioè tifosa della Juventus di Torino): agli sposini fa riferimento l’ultima strofa. Anche in questo caso, come nel precedente carme, era mia intenzione celebrare il matrimonio d’amore, seppure stavolta manchi il lieto fine. La protagonista del mio carme è la famosa Gammazita, la popolana catanese che preferì il suicidio al disonore. Di questa vicenda esistono molte varianti, ma grosso modo la storia è la seguente: alla fine del tredicesimo secolo, durante la dominazione angioina, poco prima dello scoppio dei Vespri Siciliani, viveva a Catania, più precisamente nei pressi della via San Calogero (una stradina in verità un po’ desolata oggidì, nonostante vi abbia avuto luogo una pagina così importante del folclore catanese), una giovane donna di nome Gammazita, prossima al matrimonio con un uomo di pari condizione sociale. Sfortunatamente, la ragazza era stata adocchiata da un soldato francese, il quale se ne incapricciò e, volendo dare sfogo al suo desiderio, prese a molestarla. Gammazita resistette con fermezza alle rudi profferte dell’uomo; quando finalmente giunse il giorno delle nozze, ella dovette recarsi al pozzo che si trova nel Cortile di via Vela, vicino a via San Calogero, per attingervi l’acqua necessaria ai preparativi. Il soldato, che l’aspettava in compagnia di alcuni commilitoni, con i quali aveva organizzato un’imboscata, la accerchiò e Gammazita, non potendo scappare da nessuna parte, piuttosto che cedere alla forza, si buttò nel pozzo. I Catanesi, indignati per la violenza perpetrata dallo straniero a danno della loro concittadina, insorsero, approfittando del fatto che nel frattempo la rivolta era esplosa anche in altre città siciliane. Da allora il nome di Gammazita è esaltato come esempio dell’onestà (e del patriottismo) delle donne catanesi: tuttora esiste il pozzo, ovvero quel poco che ne resta, e, fino all’inizio del XX secolo, era possibile scorgere quelle che il popolo riteneva le macchie del sangue di Gammazita, che in realtà erano “incrostazioni di magnesio di ferro” (Lo Presti, p. 120). Peraltro, in uno dei lampioni bronzei che si trovano in piazza Università è raffigurata la triste vicenda di Gammazita. Per chi voglia saperne di più:

Santi Correnti, La città semprerifiorente, Catania 1976, pp. 156-157;

Santi Correnti, Guida insolita ai misteri, ai segreti, alle leggende e alle curiosità della Sicilia, Roma 20003, p. 100;

Tino Giuffrida, Catania, dalla dominazione sveva alla dominazione spagnola, Catania 1981, pp. 119-121;

Salvatore Lo Presti, Fatti e leggende catanesi, S. Giovanni La Punta 1995, pp. 117-130.

 

Gammazita

Lungo stradine dall’aspetto sozzo,

tra fili d’erba e qualche ragnatela,

s’ode alle volte un fievole singhiozzo,

che rinnova un’antica lamentela,

alzarsi dagli avanzi di quel pozzo

aperto sul Cortile di via Vela,

dove finì la fiera Gammazita,

salvando l’onestà, la propria vita.

 

Non ebbe il cuore mai così giocondo

come nei giorni prima della fine,

quando ai suoi sogni sorrideva il mondo

ed erano le nozze ormai vicine;

volgeva ella il suo viso rubicondo

alla sua bianca veste con le trine

ed intonava presso l’arcolaio

con dolcezza infinita un canto gaio:

 

«Amore caro, nella tua dimora

entrerò finalmente come sposa

e ne sarò legittima signora,

mostrandomi una moglie premurosa:

per te col sole m’alzerò nell’ora

che le cime si tingono di rosa

ed il mio desco, sul finir del giorno,

accoglierà per tempo il tuo ritorno.

 

Presto mi troverai sul limitare

ad aspettarti con un bimbo al collo:

tu, sorridente, lo vorrai cullare,

avendolo sottratto al mio controllo,

e cauto stringerai le membra care

del nostro primogenito rampollo».

Così cantava, coi suoi sogni sola,

Gammazita, traendo a sé la spola.

 

Oh! non fosse mai nato quel Francese

venuto con le truppe di re Carlo,

che nel vederla cupido s’accese

per la ragazza e, roso da quel tarlo,

ai suoi fermi dinieghi non s’arrese,

deciso ad ogni costo a soddisfarlo,

né mise fine alle sue mire sozze

neppure quando seppe delle nozze.

 

Nel giorno scelto per il lieto evento

con alcuni compagni di brigata

volle attuare il suo malvagio intento

e s’appostò per farle un’imboscata,

determinato a cogliere il momento:

quand’ecco la fanciulla sventurata

uscì di casa con la brocca in testa

per risciacquarsi prima della festa.

 

Come al pozzo fu giunta, Gammazita

da ogni parte si vide circondata

ed ogni via di scampo era impedita

dal reo Francese e dalla sua brigata;

ormai sul punto d’essere ghermita,

la vergine, per quanto disperata,

senza pensarci, risoluta e forte,

al vile oltraggio preferì la morte.

 

Tra sé diceva: «O dolce amico, addio,

questo mio gesto, se potrai, perdona,

ma di poterti fare ancora mio

per bene ogni speranza m’abbandona

né può rapirmi un fato acerbo e rio

l’onore, ma soltanto la persona».

E dentro il pozzo con fulmineo moto

spiccando un salto si lanciò nel vuoto.

 

Mossi a sdegno e pietà per la ragazza,

insorsero con rabbia i Catanesi,

chi l’ascia, chi la falce, chi la mazza,

brandì ciascuno allora i propri arnesi

e corse con ardore in ogni piazza

per combattere i militi francesi

sopraffattori e per cacciare via

dalla città la mala signoria.

 

Tempi migliori sono questi, o Marco,

che ti sposasti con la tua Simona

senza contrasti superando il varco

in cui l’amante al proprio amor si dona:

sia nel guadagno il vostro cuore parco

e serbi quel volere che vi sprona

a stare insieme per l’intera vita,

come non fu concesso a Gammazita.

 

Marco Tullio Messina