Gaetano Cugno

 Il quarto carme ha per oggetto un evento accaduto nel 1697: un giorno a San Nicolò l’Arena, allora nei pressi di Sant’Agata la Vetere, uno dei padri benedettini, officiando la messa, scoprì che il tabernacolo era stato aperto con la forza e la pisside con il sacro viatico portata via. La notizia si diffuse ben presto dappertutto, provocando la costernazione dei Catanesi, i quali temevano che il sacrilegio avrebbe attirato  la vendetta del cielo sull’intera comunità. La caccia al ladro fu immediata e non vennero risparmiati uomini e mezzi; intanto in città la gente scese in piazza e furono improvvisate processioni e cerimonie, nel tentativo di stornare il castigo divino. L’abate del monastero e i benedettini sfilarono fino alla Cattedrale, recando in testa ghirlande di spine. A tarda sera girò la voce che il colpevole era stato catturato ad Aci: mentre cercava di farsi imprestare un cavallo, gli furono trovati addosso i frammenti della pisside. Il ladro fu riconosciuto: si chiamava Gaetano Cugno ed era Messinese, i frati si erano avvalsi spesso dei suoi servigi per trasportare l’acqua in cucina. L’annuncio fu salutato con grandi festeggiamenti. L’indomani il prigioniero fu ricondotto a Catania: durante il tragitto, egli recava una corona di rovi sul capo. Arrivato a destinazione, nonostante fosse il compleanno di Carlo II, sovrano di Spagna, fu trascinato in tribunale, dove gli fu chiesto quale fine avessero fatto le particole consacrate: dapprincipio egli riferì d’averle mangiate, poi confessò di averle incartate e nascoste ai piedi di un muro nei paraggi del convento. La nuova del ritrovamento fu accolta con gioia dai Catanesi: un corteo, di sera, diede il bentornato al Santissimo Sacramento. Cugno venne imprigionato: le sue vesti furono bruciate, la sua persona venne lavata con acqua pura e i padri Bianchi lo confortarono con la loro assistenza spirituale. Tre giorni dopo, gli fu comunicato che doveva morire per impiccagione: egli accettò con serenità la propria sorte e si avviò al patibolo. Una grande folla lo seguì nel macabro percorso: il condannato, vestito di bianco, reggeva un crocifisso ed era affiancato da due padri Bianchi. Giunto presso la forca, egli abbracciò fraternamente il boia e si rivolse alla gente accorsa, ammonendola a non seguire il suo esempio; quindi, ricevuta la benedizione dei frati, montò sul palco in ginocchio, baciando ogni gradino delle scale: infine s’indirizzò ancora ai presenti, pregandoli di recitare un Credo alla propria intenzione. A questo punto, non gli restò che affrontare la morte con dignità: il carnefice si premurò di amputare dal corpo esanime del ladro entrambe le mani, le quali furono infitte come triste monito sopra la porta del Re, che si trovava anch'essa nelle vicinanze di Sant’Agata la Vetere. Questo racconto è significativo dal punto di vista antropologico: infatti, prima che il sacrilego sia consegnato alla giustizia, è riconoscibile nella comunità catanese un sentimento di responsabilità collettiva, quasi che l’azione malvagia di una sola persona ricadesse su tutti quanti. A questo motivo sono riconducibili le scene di contrizione pubblica: i cittadini recitano il Miserere, i benedettini si cingono le tempie di corone di spine. Quando finalmente il responsabile è catturato, allora su lui solo si riversa la colpa del gesto compiuto e la punizione inflitta assomiglia da vicino al rituale del capro espiatorio. Inoltre, si presti attenzione a questi particolari: ancora la corona di spine, le vesti immonde bruciate, l’abluzione purificatoria, le vesti bianche che si ricollegano a vari culti misterici, fra cui la festa di Iside, ed i tre giorni in attesa della morte, che rivelano una evidente numerologia simbolica. Infine la scena del supplizio richiama la passione di Cristo, seppure non si possa affermare che la vittima fosse altrettanto innocente. Per chi voglia saperne di più,

Salvatore Lo Presti, Fatti e leggende catanesi, San Giovanni La punta 1995, pp. 57-69.

 

Gaetano Cugno

Avanza in grande pompa un ampio stuolo

seguendo il reo che fissa gli occhi al suolo

e cinto il dorso ha d’indumenti bianchi,

la croce in mano e due custodi ai fianchi;

a volte indietro il misero si gira

per qualche istante e pallido sospira,

ma prontamente, come il tempo chiede,

si volge innanzi e per la via procede.

 

«O Catanesi, perdono vi chiedo

del torto fatto: all’intenzione mia

pur nondimeno recitate un Credo,

un Padre Nostro ed un’Ave Maria».

 

Cinque giorni oggi fanno, a San Nicola

un frate avvolto in una bianca stola

celebrando al mattino il santo ufficio

rinnovava il Divino Sacrificio,

quando aperse l’edicola scoprendo

della pisside sacra il furto orrendo:

inorridito se ne corse via

ritirandosi dritto in sagrestia.

 

«O Catanesi, perdono vi chiedo

del torto fatto: all’intenzione mia

pur nondimeno recitate un Credo,

un Padre Nostro ed un’Ave Maria».

 

Come delle particole involate

venne a sapere il venerando abate

da sé dell’atto scellerato ed empio

volle accertarsi e penetrò nel tempio,

quindi alla cerca delle mani ladre

mandò per borghi e ville armate squadre;

vestito a lutto un banditore intanto

sparse la triste nuova in ogni canto.

 

«O Catanesi, perdono vi chiedo

del torto fatto: all’intenzione mia

pur nondimeno recitate un Credo,

un Padre Nostro ed un’Ave Maria».

 

La gente per le strade si riversa,

la tutela di Dio stimando persa:

l’abate va coi suoi benedettini,

di rovi acuti coronati i crini,

e sfila tra il cordoglio universale

fino alle porte della Cattedrale;

gridano appresso nobili e plebei:

«Domine Deus, miserere mei».

 

«O Catanesi, perdono vi chiedo

del torto fatto: all’intenzione mia

pur nondimeno recitate un Credo,

un Padre Nostro ed un’Ave Maria».

 

Ecco dintorno è scesa già la sera

e di punire il ladro si dispera,

quando alla luce di notturne faci

gira la voce che fu preso ad Aci

con addosso le tracce del suo fallo:

mentre chiedeva in prestito un cavallo,

gli furono trovati alcuni resti

della pisside infranta nelle vesti.

 

«O Catanesi, perdono vi chiedo

del torto fatto: all’intenzione mia

pur nondimeno recitate un Credo,

un Padre Nostro ed un’Ave Maria».

 

Subito un suono di campane a festa

in piena notte il popolo ridesta,

di bocca in bocca il lieto annunzio vaga

e senza posa ovunque si propaga,

esulta l’arcivescovo e l’abate

rivolge a Dio le sue preghiere grate,

cannoni a salve dal Castello Ursino

rispondono al tripudio cittadino.

 

«O Catanesi, perdono vi chiedo

del torto fatto: all’intenzione mia

pur nondimeno recitate un Credo,

un Padre Nostro ed un’Ave Maria».

 

L’indomani a Catania sotto scorta

fa ritorno il sacrilego e sopporta

una corona di pungenti spine

calcata sopra l’arruffato crine.

Ai frati è familiare il prigioniero,

poiché prestò servizio al monastero:

è Gaetano Cugno da Messina

e riforniva d’acqua la cucina.

 

«O Catanesi, perdono vi chiedo

del torto fatto: all’intenzione mia

pur nondimeno recitate un Credo,

un Padre Nostro ed un’Ave Maria».

 

L’empio, benché ricorra il dì natale

di re Carlo, è condotto in tribunale:

interrogato qui sul suo delitto

e sulla sorte del Sacrato Vitto,

«Me lo mangiai» risponde lo spergiuro,

ma dopo ammette «Sotto il vecchio muro

che s’innalza nei pressi del convento

troverete il Divino Sacramento».

 

«O Catanesi, perdono vi chiedo

del torto fatto: all’intenzione mia

pur nondimeno recitate un Credo,

un Padre Nostro ed un’Ave Maria».

 

Un esiguo drappello vi si manda

senza indugio e la Mistica Vivanda

è rinvenuta là nel punto stesso

nel quale aveva detto il reo confesso.

Un gran corteo festante il danno espia

inferto alla celeste Eucaristia

ed accoglie il Santissimo Tesoro,

“Te Deum laudamus” intonando in coro.

 

«O Catanesi, perdono vi chiedo

del torto fatto: all’intenzione mia

pur nondimeno recitate un Credo,

un Padre Nostro ed un’Ave Maria».

 

Incenerita la sua veste immonda,

un getto d’acqua il condannato inonda,

candidi lini avvolgono i suoi fianchi

e conforto gli danno i padri Bianchi

perché sopporti rassegnato e forte

il giudizio degli uomini e la morte:

dopo tre dì l’annunzio lo ridesta

che l’ora sua fatale oggi s’appresta.

 

«O Catanesi, perdono vi chiedo

del torto fatto: all’intenzione mia

pur nondimeno recitate un Credo,

un Padre Nostro ed un’Ave Maria».

 

Deposta ormai dal cuore ogni passione,

a tale novità non si scompone,

ma confidando in Dio guarda la forca

dove appeso avverrà che si contorca;

lo sguardo a terra, in fitta compagnia,

verso la morte impavido s’avvia:

non timore, bensì tardo rimorso

lo fa voltare indietro nel percorso.

 

«O Catanesi, perdono vi chiedo

del torto fatto: all’intenzione mia

pur nondimeno recitate un Credo,

un Padre Nostro ed un’Ave Maria».

 

Raggiunto infine lo spietato boia,

lo stringe al petto con sincera gioia,

quindi rivolto al pubblico presente

ai piedi del patibolo si pente

ed ammonisce con il proprio esempio

su quale certa fine attenda l’empio

che per guadagno con le sozze mani

il Corpo Vero di Gesù profani.

 

«O Catanesi, perdono vi chiedo

del torto fatto: all’intenzione mia

pur nondimeno recitate un Credo,

un Padre Nostro ed un’Ave Maria».

 

Poi ricevendo il segno della croce

dai frati, esclama Cugno ad alta voce,

riconfortato dal saluto estremo:

«O mio Signore, insieme oggi saremo».

In ginocchioni sopra il palco sale

e bacia ogni gradino delle scale;

da su rivolto ai convenuti ancora,

la carità di tre preghiere implora.

 

«O Catanesi, perdono vi chiedo

del torto fatto: all’intenzione mia

pur nondimeno recitate un Credo,

un Padre Nostro ed un’Ave Maria».

 

Mentre la folla si commuove anch’essa,

egli ad un cappio ruvido s’appressa,

infila dentro il denudato collo

e volti gli occhi al cielo aspetta il crollo:

rapidamente senza grandi pene

per divina pietà la morte viene,

dal corpo il boia le due mani asporta

perché mostra ne dia la regia porta.

 

«O Catanesi, perdono vi chiedo

del torto fatto: all’intenzione mia

pur nondimeno recitate un Credo,

un Padre Nostro ed un’Ave Maria».

 

Marco Tullio Messina