Girolamo Giuffrida Cotugno
Il mio diciannovesimo componimento è dedicato
ad un altro personaggio di spicco della Rivoluzione del 1647: Girolamo
Giuffrida detto Cotugno, cioè “ciabattino”[1].
Al contrario di quanto è avvenuto con Bernardo Paternò, dunque, stavolta
abbiamo di fronte un uomo di estrazione popolare. Nella prima fase della
rivolta, cioè fino alla morte del Paternò, quando i nobili sembravano aver
ripreso il controllo della situazione, Girolamo aveva diretto delle azioni di
protesta molto radicali: ad esempio, un giorno fece innalzare dai suoi seguaci
tre pire nel Piano della Fiera minacciando di appiccare il fuoco, ma poi non
aveva dato seguito alla sua affermazione. Ma fu dopo il giugno di quell’anno
che la sua figura emerse tra quelle di tutti i capipopolo. Finì in carcere una
prima volta il 5 Agosto insieme al figlio Giuseppe: dopo essere stati torturati
il giorno 8 di quel mese, furono tenuti prigionieri fino all’8 Ottobre, quando
erano stati ormai destinati alla morte per impiccagione in compagnia di altri
sei ribelli, ma un violento acquazzone impedì che il progetto fosse portato a
compimento. Frattanto il clima politico era cambiato e l’aristocrazia si
ritrovò impegolata in una nuova crisi. Ben presto Girolamo e il figlio furono
scarcerati e tornarono al loro impegno politico a favore della fazione
popolare. Il Cotugno trovò l’occasione per accrescere il proprio ascendente
presso il popolo il 10 Febbraio 1648: erano gli ultimi giorni dei
festeggiamenti della Santa e sulla piazza principale il baracchino di due
venditori, Giuseppe e Diego Lo Bruno, fu urtato accidentalmente dalla carrozza
del Barone di San Giuliano, a bordo della quale viaggiava la moglie del detto
nobile: ne nacque un parapiglia fra i due Lo Bruno e gli sgherri del Barone, a cui
prese parte Girolamo con alcuni suoi compagni. Dopo un acceso combattimento i
nobili e gli uomini al loro servizio furono messi in rotta. Per il Cotugno si
trattò di una vittoria prestigiosa. In seguito, Girolamo fu oggetto di
calunnie: lo si accusava di tramare contro l’autorità del re. Il Cotugno, che
non si proponeva certo l’indipendenza dalla Spagna, ma agognava solo una
maggiore parità di diritti fra i cittadini, si avviò verso Palermo per
incontrare il Viceré, portando un crocifisso in braccio ed una cappio di corda
al collo: intendeva così affermare che era innocente come Cristo e che, se
fosse stato dimostrato il contrario, avrebbe preferito morire impiccato.
Passando per Adernò (= Adrano), fu riconosciuto e arrestato. Solo molto tempo
dopo fu rilasciato e poté fare ritorno all’agone politico. Dopo varie vicende e
passaggi di potere, Girolamo fu di nuovo imprigionato col figlio: il 14 Gennaio
del 1649 Girolamo, Giuseppe e Giacomo Alessi furono impiccati per iniziativa
del capitano Giovanbattista Guerrera presso il Piano della Fiera. Per chi
voglia saperne di più,
Anonimo, La
Rivoluzione in Catania nel 1647-1648, narrata
da un’antica cronaca illustrata dal Sac. G.
Longo, Catania 1896, pp. 33-49;
Vito Maria Amico, Catana illustrata sive sacra et
civilis urbis Catanae historia, traduzione di Vincenzo di Maria, vol. II, Catania 1989, pp.330-335;
Francesco Ferrara, Storia di Catania sino alla fine
del secolo XVIII, Catania 1829, pp. 166-174;
Tino Giuffrida, Catania, dalla dominazione sveva alla
dominazione spagnola, Catania 1981, pp.
161-165.
Girolamo Giuffrida Cotugno
Salendo sul patibolo,
Girolamo Giuffrida
ode sonori strepiti
e furibonde grida
levarsi e tutto il popolo,
che gli rendeva lode,
ora festeggia e gode
del fatto che morrà.
Il lugubre spettacolo
non doma il condannato,
il quale ascende intrepido
con due compagni a lato
sul palco, dove pendono
tre cappî, ed in catene
la sorte rea sostiene
con forza e dignità.
«Non temere, non
fa male,
dura un attimo, un
secondo,
quanto un battito
degli occhi,
quanto un fulmine
che scocchi
mentre infuria un
temporale,
e raggiungi un
altro mondo
in cui regna la
giustizia,
in cui tutti sono
pari,
dove un premio ha
l’innocenza
e conforto i casi
amari,
dove cessano
malizia,
odio, brama e
prepotenza».
Ricorda quando insorsero
i popolani etnei
e per le strade i nobili
temettero i plebei,
ricorda quanta collera
il pane col suo costo
esoso in ogni posto
dell’isola destò.
In questo foro funebre
dove dovrà morire,
fece Cotugno erigere
un dì tre grosse pire
di legna, poi con empito
levando in su le braccia
espresse la minaccia
di farne un gran falò.
«Non temere, non
fa male,
dura un attimo, un
secondo,
quanto un battito
degli occhi,
quanto un fulmine
che scocchi
mentre infuria un
temporale,
e raggiungi un
altro mondo
in cui regna la
giustizia,
in cui tutti sono
pari,
dove un premio ha
l’innocenza
e conforto i casi
amari,
dove cessano
malizia,
odio, brama e
prepotenza».
Ricorda come in carcere
finì la prima volta,
così volendo i nobili
sedare la rivolta;
già si pensò d’appenderlo,
ma come per presagio
di notte un nubifragio
sommerse la città;
e non ci fu patibolo
allora per Cotugno,
che, poi tornato libero,
riprese un’arma in pugno,
sebbene avesse in carcere
patito la tortura,
ed ogni prova dura
pospose a libertà.
«Non temere, non
fa male,
dura un attimo, un
secondo,
quanto un battito
degli occhi,
quanto un fulmine
che scocchi
mentre infuria un
temporale,
e raggiungi un
altro mondo
in cui regna la
giustizia,
in cui tutti sono
pari,
dove un premio ha
l’innocenza
e conforto i casi
amari,
dove cessano
malizia,
odio, brama e prepotenza».
Il cocchio del tirannico
Barone San Giuliano
nei giorni di Sant’Agata
per caso urtò nel Piano
un baracchino e vennero
dai teli sciolti fuori
due truci venditori
con animosità.
Su questi si slanciarono
gli sgherri del Barone,
sicché ne sorse strepito
con tanta confusione
e sopraggiunto il popolo
con il Cotugno in testa,
compiendo ardite gesta,
piegò la nobiltà.
«Non temere, non
fa male,
dura un attimo, un
secondo,
quanto un battito
degli occhi,
quanto un fulmine
che scocchi
mentre infuria un
temporale,
e raggiungi un
altro mondo
in cui regna la
giustizia,
in cui tutti sono
pari,
dove un premio ha
l’innocenza
e conforto i casi
amari,
dove cessano
malizia,
odio, brama e prepotenza».
Cotugno volle in seguito,
in cerca d’uno schermo
dall’invida calunnia,
ricorrere a Palermo
al viceré: cingendosi
il collo con un laccio
un crocefisso in braccio
alzando, s’avviò.
Così diceva d’essere
verso la Spagna immune
da colpe o di prescegliere
la morte con la fune;
così via da Catania
partì solingo e muto,
ma fu riconosciuto
e preso ad Adernò.
«Non temere, non
fa male,
dura un attimo, un
secondo,
quanto un battito
degli occhi,
quanto un fulmine
che scocchi
mentre infuria un
temporale,
e raggiungi un
altro mondo
in cui regna la
giustizia,
in cui tutti sono
pari,
dove un premio ha
l’innocenza
e conforto i casi
amari,
dove cessano
malizia,
odio, brama e prepotenza».
Dopo vicissitudini
varie ed alterna sorte
giunge l’inesorabile
momento della morte:
senza mutarsi d’animo,
Giuffrida si dispone
e, detta un’orazione,
incontro al fato va.
I due che l’accompagnano
vanno al capestro anch’essi,
Giuseppe, sua progenie,
col popolano Alessi:
Cotugno al suo carnefice
accenna con il ciglio,
poi sorridendo al figlio
mormora con pietà:
«Non temere, non
fa male,
dura un attimo, un
secondo,
quanto un battito
degli occhi,
quanto un fulmine
che scocchi
mentre infuria un
temporale,
e raggiungi un
altro mondo
in cui regna la
giustizia,
in cui tutti sono
pari,
dove un premio ha
l’innocenza
e conforto i casi
amari,
dove cessano
malizia,
odio, brama e prepotenza».
[1] Secondo altri, Cotugno (o Cutugno) significherebbe “sarto”: cfr. Tino Giuffrida, p. 161 nota 112.