Il cavallo senza testa

 Il mio ottavo componimento è legato al racconto del favoloso cavallo senza testa, una leggenda molto suggestiva, ambientata nella splendida via Crociferi. I molti nobili che vi risiedevano nel ’700, tenendovi i propri convegni notturni per motivi amorosi o per congiure politiche, sparsero ad arte la voce che di notte vi si aggirasse un cavallo senza testa, in modo tale che il popolino se ne tenesse alla larga: ed infatti nessuno vi si inoltrava dopo il crepuscolo. La tradizione narra che un giovane audace scommise con alcuni suoi amici che ci sarebbe andato di notte, piantando un grosso chiodo sotto l’Arco delle monache Benedettine per provare di esserci stato davvero. A mezzanotte, egli, provvisto di una scala e di un martello, andò  sotto l’arco delle monache e vi conficcò un chiodo, ma, nella fretta, non si avvide di avere inchiodato anche un lembo del suo mantello e, al momento di scendere dalla scala, sentì come uno strattone: credendo di essere stato ghermito dal cavallo senza testa, dalla paura ci rimase stecchito. La leggenda è questa, ma io ho voluto aggiungere un paio di particolari. Anzitutto, per dare maggior colore alla mia narrazione, ho stabilito una relazione tra la simbologia diabolica del cavallo (si ricordi, inoltre, che il cavallo sbizzarrito, in ogni cultura, esprime pienamente l’idea d’irrazionalità, tanto più se esso è senza testa!) e la presenza in via Crociferi dei resti di numerosi templi pagani, su cui ora s’innalzano delle chiese cristiane: ad esempio, San Giuliano, edificata tra il 1738 ed il 1760 da Vaccarini, sorge sulle rovine dell’antico tempio di Castore e Polluce (cfr. Giuseppe Rasà Napoli, Guida e breve illustrazione delle chiese di Catania e sobborghi, Catania 1900, p. 241), divinità a cui si ricorreva contro gli spergiuri, mentre il tempio di San Francesco Borgia nacque sulle fondamenta del tempio di Ercole, di cui, peraltro, è rimasta una statua, conservata adesso nel museo civico del Castello Ursino (cfr. Tino Giuffrida, Catania, dalle origini alla dominazione normanna, Catania 1979, p. 137). Questo accostamento si riallaccia alle speculazioni teologiche di molti Padri della Chiesa che riconoscevano nelle divinità pagane i demoni ribelli alla volontà divina: il cavallo senza testa, in questo modo, rappresenterebbe nell'immaginazione di chi ha inventato un tale mostro l’ultima strenua resistenza dei vecchi dei, che una volta abitavano la via Crociferi, dinanzi alla definitiva vittoria del Cristianesimo che li ha scalzati. Infine, ho alterato la lettura iconografica di uno degli stemmi presenti nell’Arco delle monache di San Benedetto, nel quale viene rappresentato il Santo nell’atto di ricevere da due putti una mitra ed un baculo, attributi evidentemente riconducibili alla dignità episcopale di Andrea Reggio, vescovo di Catania e promotore della costruzione dell’Arco e del monastero di San Benedetto (cfr. Giuseppe Rasà Napoli, pp. 236-237): il baculo nei miei versi viene arbitrariamente interpretato non come il bastone pastorale, ma come il rocco del pellegrino (una simbologia del resto sovrapponibile all’altra), quasi a significare la protezione assegnata dal Santo, o meglio dal suo Ordine, al viandante che gli si affidi. In altre parole, la troppa sicurezza del giovane ardito, il quale non si cura del soccorso dei santi, è punita con una morte beffarda. Per chi voglia saperne di più,

Santi Correnti, La città semprerifiorente, Catania 1976, pp. 159-160;

Santi Correnti, Guida insolita ai misteri, ai segreti, alle leggende e alle curiosità della Sicilia, Roma 20003, pp. 98-99;

Salvator Quattrocchi, Catania e il suo settecento vaccariniano, Acireale 1987, pp. 91-97.

 

Il cavallo senza testa

Una volta in via Crociferi

il rumore a notte pesta

risuonava degli zoccoli

del cavallo senza testa:

chi vagava nella tenebra,

riluttante all’avventura,

evitava con gran cura

di passare per di là.

 

Forse qualche aristocratico

che nei pressi ebbe dimora,

per tenervi senza ostacolo

conciliaboli a quell’ora,

per chissà che tresca torbida

o qual altra oscura trama,

finse il mostro, la cui fama

corse in tutta la città:

 

«Dove c’è la via Crociferi

abitavano gli dei

quando credula Catania

praticava i culti rei:

San Giuliano qui si venera

dove un tempo i Dïoscuri

contro i perfidi spergiuri

tutto il popolo invocò;

 

per il pio Francesco Borgia

sorge adesso un tempio sacro

dove santo al nume d’Ercole

stava ritto un simulacro.

Quando Cristo vinse, i dèmoni

si ritrassero all’Inferno

ed il loro cruccio eterno

nel cavallo s’incarnò».

 

Fece un giorno un baldo giovane

con gli amici una scommessa:

di varcare via Crociferi

proprio quella notte stessa

e nell’Arco delle Monache

conficcare un grosso chiodo,

dando prova in questo modo

della sua presenza lì.

 

Imperterrito, il crepuscolo

da gran tempo intorno giunto,

aspettò che l’orologio

mezzanotte desse in punto,

poi dal gelo riparatosi

con soprabito e cappello,

una scala ed un martello

con sé prese e quindi uscì.

 

Già dell’arco ampio e magnifico

ritrovatosi al cospetto,

non cercò la santa effigie

col Beato Benedetto

a cui porge un putto il baculo

perché sempre al pellegrino

fu benevolo il Norcino

e cortese l’ospitò.

 

Sotto l’arco inerpicatosi,

piantò un chiodo col martello,

attaccando senz’accorgersi

anche un lembo del mantello,

sicché quando volle scendere

sentì come uno strattone

e cedendo all’emozione

il suo cuore si schiantò.

 

Marco Tullio Messina