Catania 1669

 Il mio quattordicesimo componimento è dedicato ad uno degli eventi più significativi della storia catanese, cioè all’eruzione dell’Etna avvenuta nel 1669, che ricoprì Catania modificandone in modo sostanziale la topografia. Il vulcano squarciò un fianco il giorno 11 Marzo: i paesi di La Guardia, di Malpasso e Mompileri furono sommersi. Gli abitanti dei paesini etnei coinvolti si rifugiarono a Catania, dove furono ospitati in parte dal vescovo Bonadies nel palazzo episcopale ed in parte alloggiati, a spese del senato, nell’Ospedale di San Marco. Più tardi, quando l’eruzione ebbe fine, si decise di insediarli nella zona del Borgo, che allora non faceva parte del territorio urbano. La minaccia della lava scosse i Catanesi, i quali si appellarono alla protezione di Sant’Agata: il vescovo portò in processione fuori delle mura un braccio della Santa per respingere il magma che si dirigeva verso la città. Il giorno seguente il santo velo della Patrona fu trasportato fino alla chiesa di Mascalucia, dove fu celebrata una messa. In quest’occasione il gesuita Grillo Cassia pronunciò un’omelia tanto efficace sugli animi degli astanti che le fu attribuito l’allontanamento improvviso della lava; il velo proseguì il suo giro in vari altri paesi della zona registrando ancora inaspettati successi a Camporotondo e a San Pietro. La sacra reliquia fece ritorno a Catania tra le acclamazioni dei devoti e fu ricollocata nella Cattedrale. I Benedettini tirarono fuori dalla loro sagrestia il Santo Chiodo con cui fu crocifisso Cristo, donato loro dal re Martino nel 1393 (cfr. Vito Maria Amico, pp. 163-4), e lo esposero fuori della cinta muraria nel tentativo di stornare le fiamme. Ma nondimeno il pericolo non cessò e non fu sufficiente a scongiurarlo neppure il ricorso all’intera salma di Sant’Agata: la lava, dopo avere ricoperto il lago di Nicito, che infatti da allora non esiste più, entrò attraverso il Bastione degli Infetti fino alla Porta dei Canali, ad ovest di Catania, occupando i fossati del Castello Ursino. Il magma si diresse verso il mare seminando intorno a sé sgomento e distruzione: solo un rozzo altare con l’effigie di Sant’Agata si salvò galleggiando integro sul fiume lavico. La massa infuocata si addentrò per un miglio nel mare ed infatti da quel momento il Castello non si affacciò più a strapiombo sul golfo. Molti Catanesi fuggirono via in cerca di salvezza e tutte le suore abbandonarono i propri conventi rifugiandosi nei paesi limitrofi. Il viceré, duca di Alburquerque, mandò a Catania come vicario generale il principe Stefano Riggio di Campofranco: a costui, a causa dell’ingente scorta di soldati che l’accompagnava, dapprima fu impedito l’ingresso in città dal popolo catanese, poiché si temeva che volesse portare a Palermo le spoglie di Sant’Agata; successivamente, quando l’equivoco si chiarì, il principe fu ricevuto a Catania con tutti gli onori dovuti. Egli cercò di porre rimedio ai mali presenti con una politica di sgravio fiscale e di distribuzione pubblica di viveri e frenò la fuga dei Catanesi con incentivi di diversa natura. Il senato intese elogiare l’abnegazione del vicario con una lettera inviata al viceré per ringraziarlo di avere scelto l’uomo idoneo a fronteggiare il difficile stato di cose. Tuttavia l’eruzione continuò il suo corso e perciò fu stabilito che il senato ed il vescovo si ritirassero ad Ognina, dove furono trasferite anche le reliquie di Sant’Agata. Le vettovaglie pervenivano via mare: a tale scopo era stato eretto un ponte di legno sulla spiaggia di Ognina. Inoltre, si lastricò una strada sulla lava consolidata in superficie. La Settimana Santa di quell’anno fu assai triste perché la calamità aveva svuotato Catania e reso fuori luogo i consueti festeggiamenti della Pasqua. Molte città siciliane, udita la notizia della sventura toccata a Catania, espressero pubblicamente la loro solidarietà: si distinse Messina, che inviò il chierico minore Giuseppe Loredano con un messaggio che fu letto nel senato catanese: oltre alle affermazioni di commossa partecipazione alle sciagure occorse a Catania, si offriva a numerosi artigiani catanesi l’opportunità di un lavoro e di un alloggio a Messina, insieme con la promessa di barche per agevolare un eventuale ritorno. Il discorso fu spesso interrotto dagli applausi e dal pianto dei senatori. Verso la fine di maggio, i fenomeni eruttivi cominciarono a poco a poco a cessare e la vita riprese nell’intera provincia: la città fu illuminata per tre notti di seguito in segno di festa. Il viceré, a Palermo, fece cantare il Te deum in tutte le chiese cittadine e ordinò al vicario di elargire del denaro al vescovo Bonadies per comperare un candelabro da tenere sempre acceso nella cappella di Sant’Agata nel Duomo. Inoltre, il senato spedì a Madrid Vicenzo Paternò, barone di Raddusa e Mirabella, il quale ottenne da re Carlo II l’esonero da ogni tributo per dieci anni. Il vescovo fece dipingere al pittore catanese Mignemi un affresco nella sagrestia della Cattedrale, tuttora esistente e proposto qui di seguito, in cui furono ritratti quei luttuosi avvenimenti. Per chi voglia saperne di più:

Vito Maria Amico, Catana illustrata sive sacra et civilis urbis Catanae historia, traduzione di Vincenzo di Maria, vol. II, Catania 1989, pp. 342-354;

Francesco Ferrara, Storia di Catania sino alla fine del secolo XVIII, Catania 1829, pp. 192-202;

Tino Giuffrida, Catania, dalla dominazione sveva alla dominazione spagnola, Catania 1981, pp. 165-74.

 

Catania 1669

Si squarciò l’Etna presso Nicolosi

formando su quel fianco ampi crateri,

piogge frequenti di lapilli esplosi

s’aggiungono nel cielo a nembi neri

e rivoli di magma minacciosi

convergono a Malpasso e Mompileri:

dopo il tramonto nei villaggi attorno

la notte appare illuminata a giorno.

 

Rapido un mare incandescente avanza

che ciò che trova innanzi a sé distrugge

e, vomitando ancora ignea sostanza,

da scosse attraversato il suolo mugge;

la gente, non serbando altra speranza

che della vita, verso valle fugge

e, lasciata ogni cosa più diletta,

coi propri cari come può s’affretta.

 

Discendono a Catania i montanari,

in parte nel palazzo episcopale

ricoverati ed in misura pari

accomodati dentro un ospedale

dal senato con pubblici denari:

come compenso del passato male,

quando avrà fine il furibondo sgorgo,

saranno accolti nell’odierno Borgo.

 

Nella città profondamente affranta

fra la plebe imperversa la paura

del vasto rogo che le valli ammanta;

il presule dispone con premura

che sia portato un braccio della Santa

in grande pompa fuori delle mura;

nobili e volgo senza differenza

vengono appresso e fanno penitenza.

 

Il giorno dopo, alla pietà del cielo

la folla un’altra volta s’abbandona

ed il vescovo etneo con santo zelo

a farsi forza i suoi fedeli sprona

portando in giro il portentoso velo

della Celeste Vergine Patrona:

poi verso il tempio di Mascalucia

con la reliquia il popolo s’avvia.

 

Il velo sacro fra la fitta ressa

di quanti gli si fanno incontro a gara

avanza ed alla meta ormai s’appressa;

in chiesa è collocato sopra l’ara,

mentre il curato celebra la messa:

un gesuïta d’eloquenza rara

pronuncia con fervore l’omelia

contro le fiamme per cacciarle via.

 

Esorcizzato dal sermone ardente,

il fuoco dal villaggio si ritira

e stupefatto il popolo plaudente

l’avvenimento inusitato ammira;

accolto con gran festa dalla gente,

per borghi e ville il santo resto gira

ed a Camporotondo ed a San Pietro

la lava si ritrae di nuovo indietro.

 

Il sacro velo, dopo qualche giorno,

tra cittadini subito all’ingresso

acclamanti a Catania fa ritorno

ed un sonoro “evviva” echeggia spesso;

per salutarlo, le campane intorno

risuonano, finché non è rimesso

a posto, fra la gioia generale,

dentro il sacrario della Cattedrale.

 

I monaci seguaci del Norcino

traggono dalla propria sagrestia

il Santo Chiodo del buon re Martino,

che trafisse la destra del Messia,

Gesù Cristo, Unigenito divino,

insieme con il cuore di Maria,

per opporlo alla vampa oltre la cinta

delle mura, perché ne sia respinta.

 

Ma non pertanto il Mongibello cessa

di minacciare i miseri villaggi

della provincia dalle fiamme oppressa:

nella città confusa e nei paraggi

non pure il velo, ma la salma stessa

della Patrona sfila tra gli omaggi

dei Catanesi ed in eguale modo

s’inchinano i fedeli al Santo Chiodo.

 

Le suppliche non giungono stavolta

al cielo, che dispensa un’altra sorte

e la pietà dei voti non ascolta

quasi a provare la virtù del forte.

L’ardente massa lavica raccolta

senza contrasti supera le Porte,

avendo invaso il lago di Nicito

coll’ampia valle che ne cinge il sito.

 

Attraverso il Bastione degli Infetti,

entra fino alla Porta dei Canali

e sommerge ogni cosa coi suoi getti

di lava inarrestabili e fatali;

i cittadini fuggono, costretti

dalla portata dei presenti mali,

mentre il magma continua il suo cammino

coprendo i fossi del Castello Ursino.

 

Avanza la colata senza sosta

nella sua lunga corsa verso il mare

e prima d’occupare anche la costa

cosparge il suolo di roventi sciare

stendendo intorno la sua calda crosta.

Tutto è rovina, salvo un rude altare

con su l’effigie d’Agata celeste,

che fluttua intatto fra le fiamme infeste.

 

A prodigio s’aggiunge altro prodigio:

nel mare oltre la riva per un miglio

s’addentra, infine, l’ampio strato grigio

venato in superficie di vermiglio.

Ne serberanno i secoli un vestigio:

il Castello non sorge più sul ciglio

d’un dirupo che domina la costa,

perché la terra innanzi ora si sposta.

 

Per il terrore, dopo quest’evento,

fuggono da Catania i cittadini

e sgombrano le suore ogni convento,

accolte nei paesi qua vicini.

Sovrano intorno regna lo sgomento:

mentre molti s’accalcano ai confini

della città, sui tetti e sulle strade

la cenere dal cielo intanto cade.

 

Giunge il Principe Riggio da Palermo

in veste di vicario generale

ed un’ampia milizia gli fa schermo:

la sua presenza è interpretata male

dal popolo che, presso i varchi fermo,

impedisce il passaggio all’ufficiale,

poiché nutre il sospetto che si voglia

mandar lontano d’Agata la spoglia.

 

Ma tra l’informe, diffidente massa

cessano presto le paure vane

ed il vicario finalmente passa

tra mille inchini e suoni di campane;

per prima cosa, elimina ogni tassa

distribuendo a mani larghe il pane,

quindi la gente in vari modi alletta

perché la fuga da Catania smetta.

 

Da tutti l’operato del vicario

per la cura sollecita è lodato

con la quale provvede al necessario:

per questo d’una lettera il senato

si fa concordemente firmatario,

in cui s’esprime un sentimento grato

al viceré, che l’uomo adatto elesse

perché l’arsa città non soccombesse.

 

Ma nondimeno ancora non s’arresta

l’incendio che rïoni e vie devasta,

perché nell’ora tragica e funesta

la volontà del Principe non basta;

e, mentre fuma l’infuocata cresta

che mormorando la città sovrasta,

si decreta lo sgombro del senato,

con l’alto clero ed ogni magistrato.

 

Sfilano a frotte i senatori al porto,

in compagnia del loro patrïarca,

che s’allontana pieno di sconforto

recando i resti d’Agata in un’arca;

quindi, poggiando sul bastone attorto,

in grande fretta il presule s’imbarca

sopra un battello ed Ògnina raggiunge

che da Catania non si trova lunge.

 

Qui vengono dal mare le vivande,

poiché non offre vie sicure il suolo,

sul quale il fiume lavico si spande;

a questo scopo è stato eretto un molo,

ma giacché la richiesta è troppo grande

perché possa bastare un varco solo,

si lastrica una strada che ricopra

la lava scura ed indurita sopra.

 

Per quest’anno la Santa Settimana

trascorre triste nelle chiese vuote,

il lutto, che la festa rende vana,

nega le gioie abitüali e note,

sui campanili tace ogni campana

che non tintinni al vento che la scuote

né s’ode altro rumore per le strade

che quello del pulviscolo che cade.

 

Corre per tutta l’isola la fama

della sventura che Catania opprime

ed al pensiero gli uomini richiama

che può cadere giù quant’è sublime;

attesta ogni città con un proclama

la sua pietà fraterna e fra le prime

si distingue la nobile Messina,

che manda un messaggero alla vicina.

 

Giunge infatti a Catania il primo maggio

il chierico Giuseppe Loredano,

che non temette i rischi del vïaggio

e le flüenti fiamme del vulcano;

con sé reca il magnanimo messaggio

del suo senato: il sentimento umano

che proprio è della gente dello Stretto

vi pervade ogni frase, ogni concetto.

 

In curia si fa pubblica lettura

del documento, che di plauso è degno,

perché vi si compiange la sventura

dei conterranei e si rinnova il pegno

d’un’amicizia che da tempo dura

per via del vicendevole sostegno

e grazie al culto d’Agata divina,

patrona di Catania e di Messina.

 

E non si tratta dei conforti vani

d’un bel discorso di figure adorno,

il messo garantisce agli artigiani

catanesi un lavoro ed un soggiorno

dignitoso a Messina ed un domani

le barche per un facile ritorno:

risuonano gli applausi ed ogni tanto

cedono alcuni senatori al pianto.

 

Cominciano a cessare a poco a poco

per la provincia sul finir di maggio

i flussi occulti del furente fuoco;

riprende la sua vita ogni villaggio

e si rivolge la paura in gioco

tra vocii di speranza e di coraggio:

dall’incubo Catania si ridesta

e si rischiara d’altre fiamme a festa.

 

Ecco a Palermo il viceré comanda

che lode in ogni tempio a Dio sia resa,

quindi al vicario il compito demanda

di regalare alla maggiore Chiesa

catanese una lampada che spanda

i propri raggi e resti sempre accesa

nella cappella d’Agata divina,

che scampò la città dalla rovina.

 

Accorrono a Catania i forestieri

per visitare la città fumante,

sommersa dalla furia dei crateri;

viene un vescovo greco da levante

per tutelarla con i suoi poteri,

ed esorcismi ed orazioni sante,

facendo mostra d’intenzioni serie,

mormora qua e là fra le macerie.

 

Da Madrid l’esenzione d’ogni imposta

per due lustri concede il re di Spagna.

Risorgono le case in ogni costa

di questa terra che di qua si bagna

nel mare Ionio e dalla parte opposta

ombra riceve dalla sua montagna,

fonte di lutti e di letali ambasce

per la città, che tuttavia rinasce.

 

Marco Tullio Messina