La cacciata degli Ebrei catanesi
Il mio diciassettesimo componimento è dedicato
all’espulsione da Catania degli Ebrei. Ferdinando il Cattolico, re d’Aragona e
di Sicilia, marito di Isabella di Castiglia, dopo la conquista di Granata (6
Gennaio 1492), l’ultimo regno arabo nella penisola iberica, deliberò che tutti
gli Ebrei abbandonassero la Spagna e il Regno di Napoli e di Sicilia[1].
Da allora in poi non rimase quasi traccia della presenza ebraica né a Catania
né in Sicilia né in tutto il Mezzogiorno d’Italia. La misura adottata da
Ferdinando, mirando alla confisca dei beni appartenenti alle comunità ebraiche,
procurò un grosso guadagno nell’immediato, ma impoverì culturalmente, ed alla
lunga anche economicamente, la città e tutta l’isola. Gli Ebrei catanesi
vivevano a quei tempi in un quartiere posto lungo l’Amenano e corrispondevano
ogni anno alla Corona, come d’altra parte l’intera città, un tributo che dava
loro il diritto di rimanere in quel territorio in cui erano insediati da
diverse generazioni. I rapporti tra Ebrei e Cristiani fino allora furono
sostanzialmente distesi ed improntati ad una reciproca tolleranza. Catania
aveva finanziato la conquista di Granata con offerte volontarie e con ogni
genere di contributo: il clero cittadino aveva esercitato pressioni su chi
faceva testamento perché disponesse lasciti a favore dell’iniziativa di Aragona
e Castiglia. Anche gli Ebrei versarono, loro malgrado, un tributo per la guerra
di Granata; quando poi venne per loro il momento di lasciare Catania, dovettero
estinguere ogni debito con il re e, poiché non disponevano di contante, vendettero
i propri possedimenti, che, stante la loro imminente migrazione, erano per loro
ormai inutili[2]. La notizia
della conquista di Granata fu festeggiata dalla cittadinanza catanese con
dimostrazioni spontanee di gioia: alle campane suonate a festa fecero seguito
varie processioni di ringraziamento, cui presero parte nobili e plebei senza
alcuna distinzione di casta. Il Senato di Catania stabilì che le manifestazioni
ufficiali avessero luogo nei giorni 5, 6, 7 Aprile 1492: in quell’occasione,
sul Piano di Sant’Agata sorsero tribune rivestite di pregiati tappeti, i
prospetti delle case furono adornati di festoni e rami fioriti, le botteghe
rimasero chiuse per tutti e tre i giorni previsti, i cannoni del Castello
Ursino spararono a salve in segno di festa, i nobili comparvero nelle piazze
facendo sfoggio dei propri vestiti più sfarzosi. Nel mio carme, per acuire il
contrasto fra i festeggiamenti generali e il dramma degli Ebrei costretti ad
abbandonare per sempre Catania, si immagina che essi si avviino all’esilio
mentre in città si celebra la vittoria di Granata, anche se in realtà lo
sgombero della giudecca catanese si compié in tempi più lunghi[3]:
veniam petimusque damusque vicissim. Per
chi voglia saperne di più,
Vito Maria Amico, Catana
illustrata sive sacra et civilis urbis Catanae historia, traduzione di Vincenzo di Maria, vol. II, Catania 1989, pp. 241-242;
Francesco Ferrara, Storia
di Catania sino alla fine del secolo XVIII,
Catania 1829, p. 126
Tino Giuffrida, Catania,
dalla dominazione sveva alla dominazione spagnola,
Catania 1981, pp. 99-102;
Attilio Milano,
Storia degli ebrei in Italia, Torino 1992 (1a
edizione 1963), pp. 167-175; 216-223;
Salvatore Lo Presti, Fatti e leggende catanesi, S. Giovanni La Punta 1995, pp. 9-17.
La cacciata degli Ebrei catanesi
Si festeggia la vittoria
di Castiglia e d’Aragona,
quasi unanime Catania
al tripudio s’abbandona:
finalmente dall’Iberia
l’empia setta fu cacciata
e la croce ritta domina
sopra i tetti di Granata.
Il sovrano di Sicilia,
in omaggio a tali gesta,
ha disposto che nell’isola
per tre dì sia fatta festa.
Addio, terra del Vulcano,
vi saluto, azzurro mare,
o mutevole Amenano,
via per sempre devo andare
non so dove, ma lontano
dalle vostre forme care.
Si riveste il Piano d’Agata
di tappeti e di tribune
e le case rifioriscono,
per decreto del Comune,
di festoni e vari fronzoli;
resta chiusa ogni bottega
e la gente, in grande
giubilo,
per le strade si dispiega;
i patrizi in pompa sfilano
in un lieto carosello,
mentre spari a salve tuonano
dai cannoni del Castello.
Addio, terra del Vulcano,
vi saluto, azzurro mare,
o mutevole Amenano,
via per sempre devo andare
non so dove, ma lontano
dalle vostre forme care.
Da lontano anche Catania
all’impresa diede aiuto
con offerte volontarie
o diverso contributo;
anche i preti su dai pulpiti,
come un dì per la Crociata,
con trasporto predicarono
per l’acquisto di Granata,
esortando, a pro dell’anima,
chi facesse testamento
a disporre qualche lascito
a sostegno dell’evento.
Addio, terra del Vulcano,
vi saluto, azzurro mare,
o mutevole Amenano,
via per sempre devo andare
non so dove, ma lontano
dalle vostre forme care.
I Giudei, che già
s’apprestano
a lasciare questa terra
in virtù del bando regio,
nondimeno per la guerra
una somma corrisposero
in denaro alla Corona.
Nel partire i conti chiudono
con la casa d’Aragona,
che per lunga consuetudine
a Catania fino ad ora
garantì per essi, in cambio
di tributi, una dimora.
Addio, terra del Vulcano,
vi saluto, azzurro mare,
o mutevole Amenano,
via per sempre devo andare
non so dove, ma lontano
dalle vostre forme care.
Non avendo in borsa liquidi
ed essendo i loro beni
oramai del tutto inutili,
case, mobili e terreni
in gran fretta essi
svendettero
ed i soldi ricavati
dalla vendita versarono
nelle mani dei Giurati.
Con sé preso il necessario
e formate fitte schiere,
dalla patria congedandosi,
ora sgombrano il quartiere.
Addio, terra del Vulcano,
vi saluto, azzurro mare,
o mutevole Amenano,
via per sempre devo andare
non so dove, ma lontano
dalle vostre forme care.
Per tre giorni ora Catania
farà festa in allegria,
mentre parte del suo popolo
se ne va per sempre via,
ma sovrana è la giustizia
del Signore d’Israele
ed amara come assenzio,
aspra quanto e più del fiele:
passeranno vari secoli,
o Catania, e tu vedrai
tanti figli tuoi partirsene
per non far ritorno mai.
Addio, terra del Vulcano,
vi saluto, azzurro mare,
o mutevole Amenano,
via per sempre devo andare
non so dove, ma lontano
dalle vostre forme care.
Marco Tullio Messina
[1] Il decreto fu promulgato il 31 Maggio 1492; in Sicilia il bando fu letto per la prima volta il 18 Giugno 1492.
[2] Il Lo Presti, nella sezione dedicata a quest’evento, in verità non è molto chiaro al proposito, poiché, dopo aver accennato a tutti i generi di contributi che la città di Catania aveva raccolto per sostenere la guerra, parla di questo donativo che gli Ebrei furono costretti ad elargire al Municipio, citando però un atto dei Giurati datato 27 Novembre 1492, cioè undici mesi dopo la presa di Granata (Lo Presti, p. 11): in questo caso, il balzello non avrebbe avuto lo scopo di sovvenzionare la campagna contro gli Arabi, come sembrerebbe dalla pagina del nostro storico, ma semplicemente di pagare ogni debito arretrato con il sovrano aragonese prima della partenza dalla Sicilia. Comunque sia, è documentato che in tutta l’isola le varie giudecche furono obbligate a fornire un aiuto economico all’impresa che ne avrebbe decretato l’esilio (cfr. Milano, p. 173).
[3] Tuttavia, stando al Milano (pp. 221-222), il popolo siciliano disapprovò le misure antiebraiche prese da un sovrano straniero e i rappresentanti dei maggiori municipi inviarono a Ferdinando memoriali in cui si esprimeva una sincera protesta contro l’ingiustizia dell’atto di espulsione.