Bernardo Paternò
Il mio diciottesimo componimento ha per
oggetto la rivoluzione del 1647, un evento che coinvolse l’intera isola e si
protrasse fino all’anno successivo. La sommossa ebbe principio a Palermo e si
propagò presto anche a Messina e a Catania: le ragioni del malcontento vanno
ricondotte ad istanze di tipo sociale, anche di natura immediata, come il
rincaro del prezzo del pane in seguito ad una carestia, non già a
rivendicazioni indipendentistiche, come fu per l’insurrezione antispagnola di
Messina nel 1672. La rivoluzione siciliana di questo periodo è sorella della
rivolta napoletana di Masaniello dello stesso anno e dei tumulti milanesi del
1628, ben conosciuti per essere stati descritti dal Manzoni nei Promessi
Sposi[1], tutti avvenimenti che ebbero luogo nel
diciassettesimo secolo nel contesto della dominazione spagnola. Peraltro, con i
fatti di Milano vi sono parecchie analogie, dalla causa scatenante, cioè la
carestia con conseguente rincaro del prezzo del pane, a certi particolari, come
l’intervento del clero a far da paciere tra le fazioni o l’esposizione del
crocefisso per frenare l’irruenza della folla. Non bisogna credere che i
Catanesi in questa convulsa contesa civile si siano divisi in due blocchi ben
definiti, da una parte l’aristocrazia e dall’altra il popolo: basta sfogliare
le fonti per accorgersi di come tra i rivoltosi fossero annoverati esponenti
della migliore nobiltà cittadina e di come, per contro, alla causa della
restaurazione dello status quo ante sia
stato decisivo l’intervento della cosiddetta plebe honorata, cioè la parte più agiata del popolo catanese, che
si potrebbe indicare come l’alta borghesia, se tale parola nella Sicilia del
diciassettesimo secolo non fosse fuorviante e anacronistica. Inoltre, vi furono
varie defezioni nel corso della rivolta dal campo dei ribelli, come dimostra il
caso di Giuseppe Rizzari, autore del memoriale riportato dall’abate Ferrari,
che sconfessa la sua posizione iniziale a favore della sedizione e ne condanna
senz’appello i principali artefici. Per non parlare del resoconto che dà di
questi avvenimenti Vito Amico, schierato apertamente dalla parte
dell’aristocrazia, il che è comprensibile per un intellettuale di quei tempi,
che poteva sperare per vivere solo nell’appoggio della classe dominante. È
sicuramente più fededegna la testimonianza di un’antica cronaca, recuperata nel
diciannovesimo secolo dal sacerdote G. Longo: l’anonimo autore si mostra più
distaccato e imparziale nei confronti delle due fazioni e riconosce la bontà di
alcune rivendicazioni sociali portate avanti dagli insorti.
Il protagonista del mio componimento è il
giovane Bernardo Paternò, un diciannovenne di estrazione nobiliare, indicato
dalle fonti come uno dei più esagitati promotori della rivolta[2]:
ciò è significativo del coinvolgimento di parte dell’aristocrazia nella rivolta
e del bisogno per la plebe della guida di un patrizio per legittimare la
propria azione politica.
La rivolta cominciò a Palermo il 20 Maggio
1647[3]:
prima Messina e poi Catania seguirono l’esempio della capitale. Nella città
etnea i disordini ebbero inizio il 27 Maggio; una cinquantina di persone si
riversò nelle vicinanze del Piano di Sant’Agata, gridando: “Viva il re di
Spagna, fuori gabelle e malgoverno”. Lo slogan è emblematico di come l’animosità
non fosse rivolta contro le autorità spagnole, ma semmai contro l’inettitudine
del governo locale. Altre duecento persone armate, che due giorni prima si
erano riuniti nella chiesa di Santa Maria del Tindaro, assediarono la Loggia. I
giurati ed i nobili scapparono via, cercando di mettersi in salvo con la fuga.
Il capitano Cesare Tornabene, con alcuni compagni, si mise in sella e girò per
le strade invitando la popolazione alla calma e assicurando che le gabelle
erano già state abolite. Ma ebbe scarso successo e fu costretto a cercare
scampo in un palazzo vicino. Intanto la plebe sfrenata assaltò vari edifici
pubblici e ne diede alle fiamme gli archivi: si salvò solo quello del Senato.
In seguito gli insorti corsero al Castello Ursino, che allora era adibito a
prigione, e liberarono i detenuti, i quali andarono ad ingrossare le fila dei
rivoltosi. Poi fu conquistato Porto Pontone, dove si trovava una porta in ferro
donata alla città da Carlo V: essa venne scardinata e incendiata. A Porta d’Aci
fu arso il registro delle tasse annonarie. La plebe nominò due giurati
popolari: Giuseppe Incontro e Filippo Mancarella. I tumulti proseguirono
durante la notte ed il giorno seguente furono estorti ai cittadini più
facoltosi circa trentaquattromila scudi, destinati alle esigenze dei ceti meno
abbienti. I patrizi furono rinchiusi nel seminario episcopale fino a tarda
notte. Alcuni giorni dopo fece la sua comparsa Bernardo Paternò, tenendo un
discorso che ne sancì l’investitura a comandante della rivolta. Non si sa che cosa
abbia detto, ma dagli atti politici che furono portati avanti si può arguire
che invitò la plebe a non accontentarsi dei risultati illusori e momentanei
fino allora conseguiti, bensì a partecipare più attivamente al governo della
città. Ebbe subito l’appoggio di numerosi sostenitori, tra cui Padron Cola, che
contava su alcune migliaia di marinai, disposti a tentare il tutto per tutto.
Postosi a capo di questi guerriglieri, Bernardo ottenne la consegna dei
Quartieri e conquistò il Bastione Grande. La portata di quest’ultima vittoria
fu ridotta dall’azione del capo artigliere della fortezza, Giuseppe (o
Francesco) Speciale, il quale, rimasto fedele alle legittime autorità, fuggì
dal Bastione inchiodandone i cannoni e rendendoli così inutilizzabili: questa mossa
si rivelò decisiva per la sconfitta finale di Bernardo. Questi impose ai
Quartieri nuovi capitani e alfieri, tutti di estrazione nobiliare[4].
Inoltre, egli fece erigere dei patiboli presso Piazza della Fiera[5]
e rinchiuse in prigione vari patrizi, fra cui Francesco Tornabene e Vincenzo
Paternò, cugino dello stesso Bernardo. Questo stato di cose durò circa un mese,
fino al 28 Giugno, quando nella Cattedrale un religioso pronunciò un’omelia a
favore della concordia cittadina: in quest’occasione molti degli insorti,
soprattutto nobili ed esponenti della plebe honorata, commossi dalle parole del sermone, decisero di
sganciarsi dalla rivolta. I nobili ne approfittarono per andare alla riscossa:
il capitano Tornabene a cavallo incitò i suoi a mettere mano alle armi[6].
Caddero diversi rivoltosi, fra cui Padron Cola ed un certo Francesco Cicala,
che vennero decapitati. Il Senato emanò prontamente un editto in cui annullava
tutte le deliberazioni dei ribelli e promise un premio a chi avesse portato la
testa del Paternò: cento scudi, se di tale azione si fosse reso autore qualcuno
che non aveva pendenze con la giustizia, o la piena assoluzione, se, invece, si
fosse trattato di una persona che avesse commesso un delitto e si fosse
sottratto alla pena con la fuga. Giaimo (= Giacomo) Platamone, che si trovava
in esilio da circa quindici anni per un crimine commesso, rientrò per cogliere
l’opportunità di una riabilitazione. Bernardo fu costretto a riparare con i
suoi fedeli nel Bastione, che fu subito bombardato dai cannoni del Castello
Ursino, senza che vi fosse la possibilità di rispondere al fuoco, a causa del
sabotaggio operato da Giuseppe Speciale, di cui si è detto sopra. Bernardo si
vide perduto e tentò un’ultima disperata fuga: si fece calare dai suoi con una
fune dal lato del Bastione che dava sul mare; qui un’imbarcazione lo attendeva,
pronta a prendere il largo con i fuggiaschi a bordo. Tuttavia il fuoco nemico
che pioveva copioso intorno a Bernardo provocò in lui tale costernazione che
preferì avventurarsi tra gli scogli. I nemici intanto si avvicinavano e perciò
alle cannonate esplose da lontano si aggiungevano ormai gli spari degli
archibugi. Bernardo fu scorto nelle vicinanze del Monastero di San Francesco da
Paola e fu fatto bersaglio di numerosi colpi d’arma da fuoco che andarono a
segno. Platamone si slanciò sul vinto nemico, ormai esanime, e gli spiccò il
capo. I patrizi vittoriosi si diressero a cavallo verso la Loggia mostrando le
teste dei nemici confitte sopra delle aste e trascinando i loro corpi decapitati.
La madre di Bernardo, che proprio in quel momento si affacciava al balcone del
palazzo di famiglia, assistette al macabro spettacolo, smarrendo per il dolore
la ragione: i suoi familiari dovettero riportala in casa a forza, nel timore
che volesse buttarsi di sotto. Per chi voglia saperne di più,
Anonimo, La
Rivoluzione in Catania nel 1647-1648, narrata
da un’antica cronaca illustrata dal Sac. G.
Longo, Catania 1896, pp. 1-28 + introduzione;
Vito Maria Amico, Catana illustrata sive sacra et
civilis urbis Catanae historia, traduzione di Vincenzo di Maria, vol. II, Catania 1989, pp.330-333;
Francesco Ferrara, Storia di Catania sino alla fine
del secolo XVIII, Catania 1829, pp. 161-175;
Tino Giuffrida, Catania, dalla dominazione sveva alla
dominazione spagnola, Catania 1981, pp.
155-160.
Bernardo Paternò
Oggi ogni strada crepita calpesta
nella cadenza dei cavalli al trotto;
procedono i patrizi e fanno festa
perché la plebe ritornò di sotto;
oggi si gloria delle proprie gesta
con gran baldanza più d’un signorotto,
facendo mostra d’una mozza testa
confitta sopra un lungo giavellotto.
Alta fra tutte, come uno stendardo,
spicca la testa che fu tronca e tolta
via dal collo del giovane Bernardo
Paternò, che promosse la rivolta;
al popolo è mostrata con riguardo
perché non si ribelli un’altra volta
e nondimeno ancora un fiero sguardo
appare in quella faccia ormai stravolta.
Quest’anno rese poco la campagna:
un mese fa la plebe in ogni strada
insorse per il pane; in piazza magna
si radunò furente una masnada
gridando forte: «Viva il re di Spagna,
fuori gabelle, il malgoverno cada,
abbasso chi dai mali altrui guadagna»
e s’armò chi di mazza e chi di spada.
Presso la Loggia, vinta ogni paura,
accorse un gruppo di duecento armati,
due sere innanzi nella pace oscura
della chiesa del Tìndaro adunati;
per la sorpresa tra le proprie mura
in fretta si nascosero i Giurati
e, per trovare scampo alla congiura,
fuggivano i signori, spaventati.
Non appena ebbe appreso la novella,
di corsa il capitano Tornabene
con alcuni compagni saltò in sella
e, cavalcando lungo vie strapiene,
«Concordia! Fu soppressa ogni gabella»
gridava qua e là con voce lene
«Al potere del re chi si ribella,
fidando nella forza, nulla ottiene».
Ma quest’appello tuttavia fu vano:
il volgo diffidò né scese a patti;
allora, desistendo, il capitano
e i nobili compagni esterrefatti,
per fuggire al furore popolano,
si misero al riparo a passi ratti,
mentre gli insorti, con le torce in mano,
nei pubblici palazzi arsero gli atti.
Si risparmiò, per saggia ispirazione,
solamente l’archivio del senato,
poi si corse al Castello e di prigione
ogni recluso fuori fu mandato,
quindi si conquistò Porto Pontone,
la cui porta era in ferro lavorato,
ed infine il registro delle annone
col fuoco a Porta Jaci fu cassato.
La plebe nominò suoi senatori
Peppe Incontro e Filippo Mancarella;
e quando perse il giorno i suoi colori
e sorse poi del vespero la stella,
seguitarono strepiti e rumori
perché fosse abolita ogni gabella:
«Pane a ciascuno, ai servi ed ai signori,
uno stesso bisogno ci affratella».
Il giorno successivo, i rivoltosi,
mostrando modi risoluti e rudi,
estorsero ai più ricchi e facoltosi
intorno ai trentaquattromila scudi
per comune usufrutto e, minacciosi,
chiusero nel collegio degli studi
del Vescovo i patrizi timorosi
fino a tardi con toni acerbi e crudi.
Passati alcuni dì, con far solenne
Bernardo Paternò si fece avanti,
nobile imberbe, meno che ventenne,
tra dense torme di tumultüanti,
e nel bel mezzo d’un comizio venne,
imponendo il silenzio a tutti quanti,
quindi un sermone caloroso tenne
con sorpresa e trasporto degli astanti:
«O cittadini, ora vi manca il pane
e perciò finalmente siete insorti,
ma le vostre vittorie sono vane,
poiché voi non vi siete ancora accorti
che non vivrete in condizioni umane,
esposti come siete a mille torti,
fintantoché l’autorità permane
perennemente in pugno a pochi forti.
Mentre stipate squallidi tuguri,
nutrendovi di povere pietanze,
sempre schiacciati da lavori duri,
senza mai né sollievo né speranze,
pochi signori placidi e sicuri
dentro palazzi dalle molte stanze
mangiano cibi delicati e puri,
godendosi le ataviche sostanze.
E non vedrete mai nessun progresso
né potrete aver parte alla ricchezza
finché non otterrete un pari accesso
a cariche, ad onori d’ogni altezza:
non siate sempre un volgo vile oppresso
che tollera gli sproni e la cavezza,
prendete ormai della città possesso
contro chi vi conculca e vi disprezza».
Appena disse l’ultima parola,
scrosciarono di botto applausi gai
ed un “evviva” intorno a squarciagola
innalzarono sarti e calzolai;
a Paternò s’aggiunse Padron Cola
e con lui più di mille marinai,
disposti ad impugnare una pistola,
decisi a non piegar la testa mai.
Bernardo, a capo d’agguerrite bande,
ottenne la consegna dei Quartieri
e dopo trïonfali sarabande
v’impose i capitani e sette alfieri
scelti da case illustri e venerande;
quindi si mosse con i suoi guerrieri
alla conquista del Bastione Grande
e catturò cannoni e bombardieri.
Non l’artigliere, Giuseppe Speciale,
il quale abbandonò l’ampio Bastione
e, dell’autorità servo leale,
inchiodò nel fuggire ogni cannone.
La plebe, intanto, proprio generale
prescelse, per comune acclamazione,
Paternò, che solerte ogni rivale
perseguì con un piglio da padrone.
Sorsero forche in piazza della fiera
e finì più d’un nobile in catene
dentro una buia e squallida galera;
l’insigne don Francesco Tornabene
giacque fra quella gente prigioniera:
con lui Vincenzo Paternò, sebbene
fosse cugino di Bernardo, c’era
e sopportava le sue stesse pene.
Tale stato durò per tutto un mese,
finché sul palco della Cattedrale
a passi gravi e lenti un frate ascese
e rivolse una lunga paternale
ad ogni cittadino catanese,
perché, sconfitto il principe del male,
che la discordia in tanti cuori accese,
ritornasse la pace universale.
Il sermone del frate non fu vano:
parecchia gente si pentì commossa
e molti rincasarono pian piano,
decisi a porre fine alla sommossa;
Cesare Tornabene, il capitano,
incitò la sua parte alla riscossa
urlando in sella con la spada in mano:
«Questa i ribelli oggi faranno rossa».
Per primo cade Francesco Cicala,
ferito a morte a colpi di pistola
e, mentre il suo respiro ultimo esala,
gli si taglia la testa per la gola
e sopra un’alta picca la s’impala;
ma la sua pure non sarà la sola:
su tante nuche un freddo ferro cala
e pari sorte coglie Padron Cola.
Il senato promulga un pronto editto
con cui promette piena assoluzione
per qualsivoglia barbaro delitto
a chi consegni il capo del fellone
Bernardo Paternò su lancia infitto:
rïentrato, don Giaimo Platamone,
che da quasi tre lustri era proscritto,
prende parte all’assalto del Bastione.
Dal Castello bombardano la rocca,
dove coi suoi Bernardo s’è rinchiuso,
né da questa risponde alcuna bocca
d’artiglieria, di cui perduto è l’uso;
mentre dintorno un fitto fuoco fiocca
dal cielo, Paternò resta confuso,
in cuor suo la fatale ora che scocca
sentendo ed ogni scampo a sé precluso.
Nondimeno egli tenta di scappare:
è calato dai suoi con una corda
dal lato esterno, prospiciente il mare,
che l’acque ad ogni scarica sciaborda;
giù l’aspetta un battello per salpare
e già con il nocchiero egli s’accorda,
ma prosegue il nemico a bombardare
ed il fragore il fuggitivo assorda.
Sono troppe le palle di cannone,
adesso a spari d’archibugio miste,
e sottentra una tal disperazione
che dalla fuga Paternò desiste
ed al suo fato appena ormai s’oppone,
fra gli scogli celato alle altrui viste:
qui per mano di Giaimo Platamone
la morte, infine, giunge amara e triste.
Mentre Bernardo si nasconde invano
nei pressi del convento dei Paulini,
l’avvistano i rivali di lontano
e subito si fanno più vicini,
su lui svuotando le pistole in mano
del loro contenuto di piombini;
colpito crolla il vinto capitano,
cui Platamone afferra i lunghi crini.
Col suo coltello Paternò decolla
e sopra un’asta il capo gli conficca;
questa con vana frenesia poi scrolla
e, sorridendo, ai suoi compagni ammicca;
quindi, trottando tra la fitta folla,
rotea dintorno l’inumana picca
e, come fosse carne poco frolla,
presso la Loggia il busto informe appicca.
La madre di Bernardo a questa scena
senza sospetto assiste dal balcone
e tutta si contrae, d’orrore piena,
quando vede la testa ed il troncone
ostentati con una gioia oscena
da quell’aristocratico plotone;
la donna viene meno a tanta pena
e stordita smarrisce la ragione:
«Figlio, così dinanzi mi ritorni,
tu che della mia vita eri gran vanto
con i tuoi modi d’ogni pregio adorni,
tu che dovevi rimanermi accanto
fino all’estremo dei miei stanchi giorni?
Diviso in due ti presti al mio compianto,
mentre morto subisci affronti e scorni
senza rispetto del mio cuore infranto.
Come il tuo capo un tempo eri piccino
e in braccio a me passavi ore serene
o ti ponevo sopra il tuo lettino
ed intonavo blande cantilene:
“Dormi tranquillo, dolce mio bambino:
c’è qui la mamma, che ti vuole bene”».
E giù si lancerebbe a capo chino,
ma con forza un congiunto la trattiene.
Oggi quaggiù si sopravvive o muore,
c’è chi s’affligge per i propri mali
e chi la spada immerge con furore
nell’esecrata carne dei rivali;
trascorre il tempo e cessa ogni rancore,
s’alternano le stirpi dei mortali,
come alla foglia s’avvicenda il fiore,
né sono gli odi alla città letali.
[1] Capitoli XI-XVI.
[2] In realtà l’Anonimo conservato da G. Longo, nella sua esposizione dei fatti, gli assegna un ruolo marginale, menzionandolo solo raramente.
[3] Cfr. Santi Correnti, La rivoluzione palermitana del 1647, in Storia di Sicilia come storia del popolo siciliano, Catania 2003, pp. 114-117. Per il 20 Maggio come data di inizio della rivolta bisogna fare però riferimento al paragrafo precedente (La Sicilia nel diciassettesimo secolo, p. 114).
[4] Fra i capitani vi era anche Giuseppe Rizzari, di cui si è parlato sopra.
[5] Tuttavia neanche nelle fonti più ostili al Paternò si accenna a esecuzioni.
[6] Rispetto alle altre fonti, l’Anonimo pubblicato dal Longo (pp. 23-24) in realtà presenta in questa circostanza il capitano in modo meno eroico: i suoi partigiani, secondo questo testimone, dovettero tirarlo a forza fuori di casa e metterlo di peso sul suo cavallo, rincuorandolo più volte.