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Singapore/Australia - A Bali
 

Tanto era stata scortese la dogana e l'immigrazione che aveva disposto una pignola perquisizione delle barche, tanto l'Harbour Master (il locale Sabandhar) e il capitano Hary della Marina sono gentili con noi.

Ci danno informazioni preziose sulla navigazione, i rifornimenti, i ridossi. Ricopiamo dati sulle marce e sulle correnti. " Siamo anche noi marinai, e certe cose le capiamo. Ditemi di cosa avete bisogno - continua il capitano Hary tuonando - e se qualcuno vi importuna, fatemelo sapere! ".

Il 27 luglio sveglia alle cinque, si riparte. Mare d'incanto su cui dondolano vele colorate intente alla pesca. Nove ore per percorrere 125 miglia, finalmente una buona media. Davanti a Semarang Michel si incaglia in un banco di sabbia non segnalato, il perno della timoneria si piega malamente.

 

Semarang resterà nel nostro viaggio la città ove le formalità doganali raggiungono vertici inimmaginabili: 5 ore filate. Polizia del porto, Navy, vice Harbour Master.

Documenti, dichiarazioni, permessi anche per far benzina.

Anche di notte Semarang è brutta e sporca, una città da evitare. Sono le undici di sera e non abbiamo ancora potuto toccar cibo.

Ci buttiamo su di un paio di scatolette di tonno e qualche banana, è il coronamento della penosa serata.

 

Siamo stanchi morti, il morale è pessimo. A mezzanotte per poco non veniamo schiacciati contro il pontile da barconi da pesca che avanzano spinti da lunghissimi pali. Quando devono virare alcuni brutti ceffi vengono a riva in canoa e li tirano - spostandone la prua - con corde di canapa.

All'alba un'ennesima partenza per una tappa di un centinaio di miglia. Risaliamo il grosso promontorio formato dal vulcano Murya, passiamo l'isola Mandalika verde d'alberi. Le onde s'incattiviscono intorno a capo Api Api, poi miracolosamente si spianano consentendoci di raggiungere presto il villaggio di Penkalan situato poco prima di Tg. Bendoh.

Buttiamo le ancore a 200 metri da riva e ciò nonostante la solita folla ridente, toccante e rompente ci viene incontro. Il nostro desiderio di privacy è subito andato a farsi benedire.

Le capanne dove la gente vive sono nascoste in un palmeto, davanti al quale una serie di barche da museo, ancora differenti da quelle finora incontrate, sono tirate a secco. La decisione di dormire tutti in barca è l'unica possibile. Dalla riva, ora che la marea è montata, giungono grida: "yes, no, okay".

Sono le sole parole d'inglese che conoscono, ma vogliono dirci ben altro. Rispondiamo no agli yes, yes ai no, O.K. agli OK.. con urla da ubriachi, poi nel buio si stacca una piroga a bilancere, vengono verso di noi con le fiaccole.

" Maledizione, ci aggrediscono - dice Francine - con tutta la benzina che abbiamo ci faranno saltare in aria! ". Invece è il poliziotto locale che vuole farci andare a terra. " Siamo stanchissimi, non scendiamo ". Poi spieghiamo a uno pseudo interprete (uno studente che sta studiando la possibilità di elettrificazione della zona) che la nostra spedizione è sovvenzionata dal governo indonesiano. Udito il nome di un alto funzionario che avevamo conosciuto a Giacarta il ghisa si mette sull'attenti. Poi ci chiede una dichiarazione che non avevamo avuto richieste di denaro per sostare a Penkalan. Dev'essere il risultato di una campagna anti corruzione intrapresa con energia dal governo poco tempo fa.

Finalmente mi sdraio sulla panchetta di guida che farà da letto, scomodo e sufficientemente umido.

Ma c'è una luna grande e bianca che rischiara verso Nord il curvo disegno dell'orizzonte.

 

Il giorno seguente la navigazione ritorna dura e bagnata. La costa che seguiamo è notevole per una serie di montagne vulcaniche a picco sul mare. Il Monsone oggi non scherza. Se continua cosi di primo pomeriggio ci farà dannare. Uig. Pangka è un capo che dobbiamo risalire tenendoci al largo di 4 miglia a causa di perfidi, estesissimi bassifondi. Onde bastarde di oltre 3 metri frangono dappertutto, lasciamo che l'istinto più della ragione governi per non imbarcare acqua.

L'acqua ha un colore fangoso, il ciclo s'è tinto di petrolio: Michel è stufo, vuole tagliare dritto su Surabaya. Lo sconsiglio perché non conosciamo le secche che sulla carta ora si estendono a 10 miglia dalla costa, né sappiamo a che punto sia la marea. Dirigo per 118° per trovare una boa a una decina di miglia. Il canale d'ingresso tra Giava e l'isola di Madura è fortunatamente segnalato da boe. Anche col mare in poppa imbarchiamo acqua a catini. Poi migliora, e in quel momento ci appare una visione magica: uno, due, cinque velieri di sogno, le vele dorate gonfie di vento. Non ho mai visto barche così belle. Nel canale constatiamo con sorpresa e disappunto che il vento è girato e ci soffia contro.

Nel buio pesto c'incasinìamo tra impreviste palificazioni per raggiungere il grande porto di Surabaya. Il traffico è intenso, molte barche senza luci di posizione, ci tocca ridurre la velocità e tenere gli occhi ben aperti. Ci siamo infine, dopo 12 ore di navigazione, marci d'acqua e affamati. Resta ancora la tortura delle due ore per l'immigration, poi prendiamo d'assalto il primo ristorante bettola cinese. Francíne mostra una voracità che mi spaventa, non è seconda a nessuno in quanto ingurgitare cibo: un piatto di riso, un quarto di pollo, gamberoni e calamari, due uova, verdure, un litro di birra.

Dormo con John e Bernhard sul marciapiede degli uffici portuali. Come al solito. Bernhard mi dice che non è stato mai così "crevè" in vita sua, neppure nel suo viaggio di mesi in India. Non ha mai amato il mare, ma adesso comincia a odiarlo.

Surabaya è una città importante e piacevole. Vasta, popolata, orientale. Vi si possono trovare ancora antichi kriss istoriati, cinture d'argento, pietre dure. Qualche batik, i famosi tessuti tinti a mano con un laborioso procedimento a base di cera, con i quali le vecchie dei villaggi meno conosciuti hanno fatto sarong che si annodano in vita. Surabaya ha fama d'essere piena di ladri dai coltelli affilati. Ho trovato invece gente furba e cordiale.

Come a Cirebon, le beciak (biciclette risciò) sono dipinte con disegno pastello naff. Un "pedalatore" mi racconta in buon inglese la sua storia. Una volta faceva il marinaio, guadagnava un sacco, era stato perfino a Napoli, a Roma. Ricco e felice. Poi si era sposato, quattro figli costano, e adesso doveva guadagnarsi il pane pedalando il carrettino tutti i giorni per poche rupie. Attende un istante, abbassa la voce e mi fa: " Non è vero, sono le donne che mi hanno rovinato. Ce ne sono 2000 a Surabaya, di tutte le razze, di tutti i prezzi ". Andiamo a bere insieme un thé manis, dolce e freddo. " Ma io sono maledetto, vado matto per quelle da 50.000 rupie per notte. Belle da mozzare il fiato. Il prezzo di due mesi di beciak! " conclude con gli occhi umidi di compassione di sé e di desiderio.

Trasferiamo i gommoni in una specie di yacht club dove gruppi di militari si esercitano in manovre ridicole. L'indirizzo è: Gelora, Tirta Samodra, jl. Intan, Tandjung Perak. Ci viene incontro un equipaggio di scozzesi gioviali, grandi come montagne. Siamo invitati a bordo, accolti al suono di cornamuse, ci offrono da bere a non finire. Big John, enorme com'è, ci tratta come fosse la nostra mamma, gran manate sulla schiena. " Avete bisogno di qualcosa, acqua, sapone, dentifricio? ". E' commovente. Però dobbiamo essere ben sporchi!

Madura è una grande isola di fronte. A Sumenep, un paese verso oriente, ci saranno tra poco le corse di tori, uniche al mondo: un'occasione da non mancare.

Prendiamo un traghetto fino al paese di fronte a Surabaya (di Zodiac ne abbiamo abbastanza) poi cerchiamo affannosamente uno di quei minibus giapponesi che integrano lo scarso servizio di trasporti pubblici.

 

Passano le ore, la sorte ci è contraria, nessuno vuol caricarci.

Alle 22 Michel e Francine decidono di abbandonare e tornano ai gommoni. Noi tre aspettiamo con orientale rassegnazione, domandiamo, supplichiamo. Un'ora dopo troviamo un matto che ci fa salire. Si procede a velocità pazzesca, rischiando ben di più che in mare. Ogni tanto si ferma per caricare altra gente, siamo stipati come sardine.

Alle due di notte scendiamo a Sumenep, impolverati e distrutti e ci trasciniamo davanti a un Losmen chiuso. Pazienza, dormiremo per terra sotto il porticato. Quattro ore dopo schizziamo in piedi quasi soffocati. Un pirla di camion si è accostato coi tubo di scappamento a un metro dal nostro campo, per sbaglio o intenzione: quella carogna vuote farci provare l'ebbrezza dell'ossido di carbonio. In piedi, tra poco inizia la festa! Arriviamo non so come al campo delle corse dei tori. Un sole sgarbato ci brucerà le cervella per tutta la giornata, mangeremo e respireremo quintali di polvere. La folla ci assorderà, spingerà, calpesterà. Ma lo spettacolo è veramente bello e l'atmosfera elettrizzante.

I tori partono a due per volta, a turni successivi, per raggiungere primi il muro opposto a 400 metri di distanza. li "fantino" si incastra sul carretto-slitto attaccato a due tori focosi, decorati con festoni e ombrellini. Dieci o quindici persone trattengono le bestie che hanno la schiuma alla bocca. Per eccitarle maggiormente le feriscono sulle cosce e le sfregano con sostanze irritanti. C'è odore di alcool e di Tiger Balm. Una placchetta irta di chiodi viene assicurata all'attacco della coda, sarà uno stimolo irrefrenabile. Al via i tori partono con una sgroppata terribile, la gente urla e gesticola. Il "fantino" li aizza ancora con arnesi puntuti, urlando. Qualche volta sbandano nella corsa e piombano sulla folla spaventata. Alcuni poliziotti cercano di contenere l'orda che invade il campo menando senza alcun riguardo botte da orbi con nodosi bastoni. Dappertutto bancarelle offrono bicchieri di ghiaccio colorato e piccoli dolci. C'è aria di festa.

Il 1* agosto, alla sera, carichiamo 700 litri di miscela, e alla mattina seguente lasciamo gli ormeggi. Abbiamo rinunciato per ragioni di tempo all'ascesa dei M. Bromo, uno dei più bei vulcani di Giava, dalle cui pendici si ammirano suggestivi paesaggi lunari. Ci sono un centinaio di vulcani sull'isola, molti ancora attivi: alcuni, tra cui il M. Semeru, oltrepassano i 3000 metri. Ci accontenteremo di ammirarli dal mare.

 

Ritenevo che lungo la costa Nord di Giava avremmo avuto navigazione facile, restando a ridosso dell'isola. In luglio e agosto invece il Monsone di S.E. soffia al suo massimo.

Scende rabbioso dai monti, s'incanala come in un imbuto nelle valli profonde sollevando anche sottocosta ripide onde crestate molto ravvicinate tra di loro.

E' quanto c'è di peggio per un gommone. Sovente sbuca dietro ai promontori girando in pieno Est, esattamente di prua. I consumi dei motori sono molto alti, sfiorano i 20 lìtri/ora, il procedere faticoso, le miglia poche. 10, 12 ore di navigazione per fare 80 o 90 miglia. Poco più di una barca a vela, una pena.

 

Il 2 agosto approdiamo al più ostile villaggio fin'ora incontrato. Un posto di sogno, un tramonto infuocato, ma la gente è minacciosa e beffarda. Dal pontile assiepato piovono sassi sugli Zodiac. Altri ci attorniano, si siedono sui tubolari, cercano di arraffare qualcosa. Un gruppetto c'indirizza gesti osceni: li contraccambiamo con altri che affermano la nostra superiorità culturale per varietà e invenzione. Con John e Bernhard scendo per scattare qualche fotografia. Ci segue una turba vociante che si diletta a scalciare sabbia contro di noi. Tra i soliti ragazzini ce n'è qualcuno più grandino, lesto e scaltro. Mi avverte John: " controlla la borsa, ha la tasca aperta ". Maledizione, mi hanno fregato la pipa! I soldi invece sono inavvicinabili, usiamo borselli ascellari.

Ci voltiamo di scatto correndo con gran balzi verso i cento demoni. Urliamo come tigri ferite. Perplessi, girano i tacchi, scappano in tutte le direzioni e dalla confusione la pipa vola in aria come una palla da rugby. La meditativa fumata serotina è diventata rituale, ne sentirei la mancanza.

Quando ritorniamo ai gommoni Michel non ne può più, ha perfino chiesto aiuto alla polizia, ma con scarsi risultati. Occorre ancora qualche ora di pazienza, siamo bloccati nel fango e bisogna aspettare l'alta marea per poterci ancorare più al largo. In questo momento il sole diventa un'ellisse in candescente che riempie il mare e l'aria stessa di riflessi d'oro. Eleganti trampolie ri danzano sul bagnasciuga becchettando piccoli crostacei. Alla sinistra sulle cime della montagna è già calato il viola della sera.

Il tre agosto sveglia alle 4,30 con marea calante. Una lunga passeggiata nella melma per recuperare i passaporti dalla polizia che non aveva voluto consegnarceli la sera prima. Contenti abbandoniamo Panarukan - questo è il nome dell'inospitale villaggio - dopo aver perso mezz'ora a riavvitare sulla cassa di legno tutte le viti che ne fuoriescono e che potrebbero cadere sotto ai paglioli causando altri buchi nella chiglia. Questo problema ci obbliga ad un'attenzione continua durante la navigazione.

Dopo capo Pachinan il vento si fa molto teso e imbianca paurosamente il mare. Doppiamo capo Jangkar, poggiamo leggermente verso Sud. A capo Chandiban stiamo per lasciare l'isola di Giava, già si profila la costa montuosa di Bali. Il canale che separa le due isole è di particolare difficoltà: non dobbiamo solo attraversarlo. ma risalirlo tutto, avendo deciso di contornare l'isola di Bali nella parte Sud, e raggiungere l'unico porto riparato, Benoa.

Siamo come in un imbuto. Vento oltre forza sei di prua, onde frangenti di solo un metro e mezzo ma verticali; sembra siano di pietra. Impieghiamo oltre 4 ore per percorrere, bagnati fradici, 15 miglia.

Non si parla neppure di planare, i motori sforzano al massimo senza riuscire a superare i 3500 giri.

La corrente contraria dev'essere fortissima, il Pilot book la indica frequente a sette otto nodi. Abbiamo tutti gli occhi rossi, bruciati dal sale, le labbra spaccate.

Un fantastico veliero ci passa di fianco, fila di poppa ad almeno 10 nodi, ha strane vele terzarolate.

 

All'una e mezza il passaggio è forzato, costeggiamo Bali alla nostra sinistra. Un'ora dopo gettiamo le Danforth nella Gili Manuk Bay, un'insenatura dall'acqua di cristallo. Ci togliamo finalmente le cerate, ci scaldiamo distesi al sole. I mille chilo metri della costa di Java ci hanno sfiniti. A Est, sempre più a Est. Siamo però contenti adesso: abbiamo raggiunto Bali, l'Isola degli Dei.

Testo e foto by Massimo Maggia - 1977 -

 

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